Una città n. 282

una città 30 un dialogo Cara Lea, vorrei proporti una questione: le divergenze fra te e me in un frangente cruciale come la guerra (più urgente ancora della pandemia, di fronte alla quale eravamo molto più d’accordo) sono anche il segno di un irriducibile resto della differenza fra te donna e me uomo? Che abbiamo pensieri e sentimenti più o meno discordanti è del tutto ragionevole e non di rado un piacere. Il mio dubbio è un altro: tu e io abbiamo avuto un lunghissimo tempo in comune, e l’abbiamo trascorso a volte da vicino, altre dandoci un’occhiata da più lontano. Potremmo aspettarci di arrivare, quando fischia il vento, a una conclusione comune -un compromesso almeno, visto che devono arrivarci governi popoli e persone che si stanno sparando addosso. Se non succede, forse è perché, alla fine, proprio come all’inizio, tu sei donna e io uomo. Sarebbe un fallimento. Sono diventati chiari i modi più diffusi di misurarsi con questa guerra. Uno è quello di chi dice: “Sono contro la guerra”. È decisivo e futile: immagina che l’interlocutore, l’interlocutrice, sia “a favore della guerra”. Ma bisogna immaginare che anche il giovane o il padre di famiglia ucraino che oggi impugna la sua arma odi la guerra sopra ogni cosa. (Che poi “la guerra” trasformi a sua immagine chi la vive è problema grande, e i richiami di questi giorni a Weil o a Fenoglio sono raccomandati). Un altro modo, che è diventato il cavallo di battaglia dell’opposizione “argomentata” è il rimando alle ragioni remote della guerra, che hanno preceduto e preparato (e, per alcuni, giustificato) la decisione di Putin: l’espansionismo maligno o ottuso della Nato, la mortificazione della fierezza russa, la convinzione che la ribellione ucraina del 2014 sia stata un colpo di stato orchestrato da lontano... (Almeno di questo dovremmo diffidare: che una lunga, temeraria, sanguinante ribellione di giovani e di popolo sia il frutto di una cospirazione aliena. Chi l’abbia conosciuta, quella ribellione, è oggi molto meno stupefatto dalla resistenza strenua della gente ucraina). Argomenti degnissimi di attenzione: una loro gran parte era sfuggita a un pubblico, cui variamente apparteniamo, disabituato a seguire le febbri del mondo. Tuttavia questi argomenti sono almeno reciproci. Dalla parte di Putin stava un record di ferocia sbrigativa -dalla Cecenia alla Siria, alla liquidazione degli oppositori- e la rivendicazione di un programma, la rivincita dell’impero umiliato, che aveva per tempo annunziato di non tollerare l’esistenza dell’Ucraina. Come che sia, il rinvio alle “ragioni remote” non potrà mai superare la soglia irreparabile fra il confronto politico e il passaggio alle armi in quella che noi (Putin no) chiamiamo guerra. In questa sommaria catalogazione delle posizioni -che poi si invadono mutuamente- ne indicherei un’altra, che forse è tua (tu sai dirla come merita) e che sento anche largamente mia, ciò che rende più stimolante interrogarsi sulle conseguenze differenti. È la posizione che vede nella guerra -sempre e ancora- un culmine della formazione maschile, virile, termini che tendono a coincidere, e, rispettivamente, un culmine dell’estraneità femminile, e femminista. Non è l’antico verso della guerra invisa alle madri, che consacrava una divisione del lavoro, e che l’Ucraina di oggi sembra riconsacrare -la condizione di guerra infatti esalta la disuguaglianza di genere e ricaccia indietro la libertà. È una posta di questa guerra, come di tutte le altre spaventose guerre contemporanee che non a caso sono soprattutto guerre civili, cioè incivili, e investono il corpo delle donne, in carne e ossa e nel fantasma. Giovedì sera ho sentito in televisione il giornalista, e militante, ucraino Vladislav Maistrouk dire, quasi per un’idea improvvisa, che l’ossessione di Putin per l’Ucraina somiglia a quelle di certi uomini per la ex moglie che hanno amato, al punto di ucciderla. Mi è sembrato un pensiero folgorante: l’Ucraina è mia perché lo è stata, e se non vuole essere più mia non sarà di nessun altro. Un corto circuito fra guerra e femminicidio: mai casus belli è stato più nitido. I richiami sessuali sono del resto disseminati quasi ingenuamente lungo la frontiera. L’adorno Kirill prende così sul serio il proprio patriarcato da proclamare la crociata contro la dissoluzione sessuale (la sua franchezza dovrebbe suonare come un allarme ai colleghi di altre confessioni). C’è, soprattutto, la divisione dei ruoli fra donne e uomini nell’Ucraina occupata. Leggo che le donne impegnate nella resistenza “militare” sarebbero una su dieci: non poche. Fra le altre, quelle destinate all’esilio prendendosi cura di bambini e vecchi sono un numero terribile: finora, se non fraintendo, le loro voci non si sono levate a scongiurare la resistenza del loro paese e del suo governo. In questi 15 giorni tremendi abbiamo visto con stupore la risolutezza e l’efficacia della resistenza militare ucraina, e con ammirazione i volti e le parole di tante donne ucraine. Ci siamo chiesti dov’ erano -dov’ eravamo: in molte nostre case, anche. Io detesto il nazionalismo, che ebbe una sua stagione fiorente ma contò moltissimo nel fissare l’immagine stereotipa della donna. Di questa Ucraina mi turba un nazionalismo deteriore, e mi colpisce il desiderio di indipendenza nuSU GUERRA E PACE Un dialogo fra Lea Melandri e Adriano Sofri Adriano Sofri Dnipro Darvik Photography

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