Una città n. 282

una città 33 un dialogo conquistate, investe il corpo delle donne, sia che vengono uccise o stuprate, le riporta dentro quell’ordine e quei valori, considerati “naturali”, di cui hanno già conosciuto il peso. E aggiungi : “La bomba atomica -comparsa nelle minacce di Putin- è il deposito materiale in cui culmina la storia dell’Uomo, il capolavoro del patriarcato […]. Ora, le donne hanno una forte ragione, seppur non intera, a dissociarsi dalla storia che è arrivata alla bomba e a rivendicarne un’altra direzione”. Su un altro aspetto siamo d’accordo e mi fa piacere che tu l’abbia nominato, ed è il rapporto tra sessualità e politica, sessualità e guerra. Illuminante è il collegamento tra l’aggressione di Putin all’Ucraina ribelle, un paese che considera ancora suo e che perciò non può essere di nessun altro, e il femminicidio, la vendetta di certi uomini sulla ex moglie che li ha lasciati. Dove sta allora lo “scarto” o l’ “irriducibile resto” di ragione che sta al fondo delle nostre divergenze? Ho creduto di poterlo rintracciare, sia pure indirettamente, nell’accostamento che fai tra il breve saggio di Virginia Woolf del 1940, dove si parla dell’ “hitlerismo incoscio” o del desiderio di dominare che accomuna soldati inglesi e tedeschi, i difensori e gli aggressori, in quanto uomini -un desiderio da cui non sono esenti neppure le donne, “schiave che cercano di rendere schiavi gli altri”- e la lettera di Gandhi agli inglesi ispirata a un pacifismo assoluto, e quindi, se ne deduce, al rifiuto della seconda guerra mondiale che ha liberato l’Europa dal nazismo. “Putin non è Hitler”, è la tua precisazione, ma “la resistenza armata è necessaria”. E fai notare che anche le donne destinate all’esilio, a prendersi cura di bambini e vecchi, lasciando gli uomini a combattere, alcuni forse contro la loro volontà, non hanno levato la voce per “scongiurare la resistenza del loro paese e del loro governo”. Come se fosse facile per chi si trova a essere tra le principali vittime della guerra non odiare chi le ha ricacciate in una servitù ancora peggiore di quella già conosciuta. Ma dove è più evidente il tuo bisogno di strappare anche al femminismo un qualche “compromesso”, è nella citazione del Manifesto delle femministe russe, riportato solo per la parte in cui si chiede di “mobilitarsi contro la guerra in Ucraina e la dittatura di Putin”. Mi permetto di aggiungere il seguito di quella citazione: “Il movimento femminista in Russia lotta per i soggetti più deboli e per lo sviluppo di una società giusta con pari opportunità e prospettive, in cui non può esserci spazio per la violenza e i conflitti militari. Guerra significa violenza, povertà, sfollamenti forzati, vite spezzate, insicurezza, mancanza di futuro. Tutto ciò è inconciliabile con i valori e gli obiettivi del movimento femminista. La guerra intensifica la disuguaglianza di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i diritti umani. La guerra porta con sé non solo la violenza delle bombe e dei proiettili, ma anche la violenza sessuale (…) Siamo l’opposizione alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo (…) Ed è anche fondamentale far vedere che le femministe sono contrarie a questa guerra e a qualsiasi tipo di guerra”. Tu dici che la distanza “fra No Fly Zone”, che vorrebbe il governo ucraino per sconfiggere Putin, e “la fornitura di armi difensive” agli aggrediti, sta “in bilico” di fronte alla minaccia della bomba atomica, e cioè di una guerra di inimmaginabile devastazione, da aggiungere ad altre minacce, come il clima e la pandemia. Se non bastasse il dubbio che l’invio di armi dai paesi europei sia già una sorta di co-belligeranza, una spinta all’intensificazione della guerra, dovrebbe far riflettere il fatto inequivocabile che i trattati di pace hanno sempre creato finora i presupposti per nuove guerre, e che solo dicendo con chiarezza che la guerra non è il modo per risolvere i conflitti, si può sperare che la storia volga, come ci auguriamo entrambi, verso “un’altra direzione”. Concludo dicendo che il pacifismo, nella sua radicalità, non può essere applicato retroattivamente alle guerre del passato, ma va riportato all’oggi, alle consapevolezze che grazie a movimenti libertari come il femminismo sono approdate alla coscienza dei singol* e dei popoli. La storia può cambiare? Mi verrebbe da dire che la storia è già cambiata dal momento che ha portato allo scoperto il dominio maschile, gli orrori della “virilità guerriera”, i legami tra sessismo, razzismo, classismo, nazionalismo, ecc. “Pace” oggi per me, come per molte altre femministe, vuol dire porsi “su un altro piano”, andare alle radici di quel primo atto di guerra che è stata la sottomissione delle donne, considerate “natura inferiore”, “animalità”, il loro asservimento al sesso vincitore. È da questa guerra mai dichiarata, e perciò più subdola, invisibile perché coperta dalla sua “naturalità”, che nasce il perverso connubio tra distruzione e salvezza, tra guerra e umanitarismo, guerra e religione. Se, come ho scritto più volte, “gli orrori hanno un genere”, è da questo fondamentale retroterra che dobbiamo partire per dar modo al pensiero e all’immaginazione di scoprire nuovi modi per uscire dalla barbarie che abbiamo ereditato. Per esprimerti la mia gratitudine, finisco dicendo che questa nostra conversazione è già nell’ordine di un “si vis pacem, para pacem”, da intendersi in senso generale, ma anche nei rapporti tra le persone. Con affetto, “Il riformista”, 16 marzo 2022 Adriano Sofri Vorrei indicare poche sommarie conclusioni della discussione fra me e la mia amica Lea Melandri. La guerra è una caccia all’uomo -alla donna. Ma alla questione che ponevo, se una divergenza finale sia resa inevitabile dal fatto che lei è una donna femminista e io un uomo, posso per il momento rispondere di no, e non è poco. Anche da un’altra confusione, la più moralmente e sentimentalmente impegnativa, possiamo sgombrare il campo: che rifiutare o accettare di armare chi si difende da un’aggressione implichi una differenza nell’avversione alla guerra. Nessuna persona decente può partecipare di una discussione in cui la si accusi di essere in favore della guerra, guerrafondaio, bellicista e così avanti: di non desiderare che la guerra sia espiantata dalla faccia della terra. Lea non dice solo di essere contro la guerra: a differenza di Gino Strada, per esempio (“non sono pacifista, sono contro la guerra”: con lui ebbi un dissenso incompiuto) Lea si dichiara “radicalmente pacifista”. Riprenderei una differenza che era, mi pare, di Hannah Arendt, fra radicale e assoluto -lei la riferiva al male. Non per negare una radicalità alla convinzione di Lea, ma per segnalarne un’assolutezza, che le impedisce, o le risparmia, di misurarsi ogni volta di nuovo con la situazione concreta, con la sciagura che di volta in volta chiamiamo “guerra”. (E propongo intanto di mettere via la parola “interventista”, tanto più nell’opposizione “pacifistainterventista”. Sarebbe lecito usarla se significasse a sua volta un’assolutezza, se di fronte a ogni conflitto armato si rispondesse invocando un intervento militare). L’assolutezza, il senza se e senza ma, fissano un apriori: so già che cosa farò ogni volta che un conflitto rovini nel ricorso alle armi e agli eserciti, regolari o no. Lo so a Sarajevo, o a Srebrenica, dove i massacri degli inermi e delle loro città possono durare anni, quattro anni, denunciati solennemente e inanemente dalle Nazioni Unite, fino a che un intervento militare di 14 giorni (della Nato, allora, 1995) metta fine alla guerra. Lo so in Ruanda, dove si compie in cento giorni un genocidio milionario a colpi di machete. E così via. L’assolutismo del rifiuto della forza, fino alle armi proporzionate, implica l’abbandono di un principio fondamentale come quello della legittima difesa. Che vale tanto quando la minaccia e l’aggressione prendono di mira una persona quanto nei

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