Una città n. 283

una città 28 se si mira a dare e a ottenere una formazione umanistica solida. Quello che noto -e su questo credo che abbia ragione Ricolfi- è che molti ragazzi non sono semplicemente ignoranti ma, prima ancora, poco attrezzati per lo studio: ragazzi a cui nessuno ha mai insegnato veramente i rudimenti della cultura o anche solo le regole elementari della vita associata: come comportarsi, come parlare, e poi cos’è una biblioteca, come si scrive un’email… La scuola non gli ha mai insegnato a “fare bene le cose semplici”, come diceva Contini. Poi c’è un numero ristretto di ragazzi molto bravi, un po’ com’ero io alla loro età. Forse meno colti di me, il me di allora, perché è chiaro che oggi devono combattere con mille altre distrazioni, e non stanno a leggere tutto il pomeriggio libri come facevo io. Ma sanno altre cose: parlano l’inglese meglio di come lo parlavo io alla loro età, hanno viaggiato di più, hanno un’esperienza di vita più varia ed estesa. Insomma: mi pare ci sia un’alta percentuale di studenti che ha, sì, una preparazione culturale fragilissima, ma a cui non mancano altri atout; un certo numero di studenti di media levatura; e alcuni (non molti) molto bravi. Ma non potrei dire che nei miei vent’anni di insegnamento all’università la qualità sia calata in modo vistoso. È cambiata, come sono cambiati i tempi. E forse i bravi che un tempo si indirizzavano alle discipline umanistiche oggi vanno a fare altro. Uno dei capitoli più divertenti del tuo saggio è l’excursus sul linguaggio legislativo, intitolato “La complicazione di tutte le cose”. Leggendolo si tocca con mano il progressivo e inquietante scadere della qualità linguistica delle leggi sulla scuola. Cos’è successo secondo te in questi ultimi trent’anni? In realtà si è sempre scritto male. L’italiano è una lingua ostica; fino a qualche generazione fa era quasi una lingua straniera, perché si nasceva e si cresceva in mezzo ai dialetti. Perciò quando si scrive si esagera col formalismo: chi ha poca confidenza con l’italiano scritto dissimula, si traveste, infarcendo il suo discorso di paroloni, di formule reboanti ma assurde, incomprensibili. Questo, dicevo, è sempre successo. Dagli anni Settanta, poi, a questa tendenza allo scrivere male, in maniera involuta e arabescata, si è sommato il gergo maldigerito delle scienze sociali: il gergo dei pedagogisti, dei sociologi, dei semiologi, dei teorici di qualsiasi aspetto dell’esistenza. Ignoranza e gerghi producono queste leggi. Giorni fa mi è capitato di sfogliare un numero della Gazzetta Ufficiale -c’era una legge che m’interessava- e mi sono reso conto che, per quanto tornassi più e più volte sullo stesso periodo, non riuscivo a capire cosa diceva. Cittadino italiano adulto, addottorato in Letteratura, sette anni di scuola Normale, io non capisco le leggi del mio Paese. Per colpa loro, non mia. Da un lato, come dicevo, c’è spesso da parte di chi scrive la vera e propria ignoranza della grammatica: interdisciplinarietà, poniamo, invece di interdisciplinarità. Dall’altro, c’è la tendenza a complicare cose che sarebbero semplici se solo si riuscisse a tradurre il proprio pensiero nelle parole che servono a esprimerlo, e soltanto in quelle. Non sono ottimista, mi pare anzi che non ci sia niente da fare. Anche gli insegnanti, che dovrebbero formare i futuri scriventi, sono vittime di questo equivoco penoso: lo scrivere lambiccato -l’antilingua di cui diceva Calvino- viene spesso scambiato per lo “scrivere bene”. Un po’ per scherzo un po’ sul serio ho proposto tempo fa l’abolizione dell’italiano scritto e il passaggio all’inglese, che almeno -come diceva Salvemini- è una lingua più onesta. La vacuità delle nuove leggi è in buona fede oppure no? Ma sono tutti in buona fede. È chiaro che questi legislatori credono di dover scrivere in questo modo perché incarnano la voce dello Stato, e lo Stato -pensano- deve parlare così, in maniera sostenuta, solenne, coi paroloni e non con le parolette. Tempo fa ho pubblicato su “Internazionale” un articolo dal titolo “La lingua disonesta. Come scrivono al Ministero dell’Istruzione”. Era l’analisi di una circolare ministeriale. C’era da dire una cosa molto semplice: occorreva reclutare un certo numero di insegnanti per farne dei formatori. Lunghezza del documento: otto pagine. Perché ci vuole il preambolo, perché bisogna contemplare tutte le variabili possibili, dare a tutti il titolo a cui hanno diritto, salutare il ministro, il sottosegretario, il sovrintendente, in una selva di sigle incomprensibili… E perché le scuole non vengono chiamate scuole ma istituzioni scolastiche, gli insegnanti sono il personale docente, e via dicendo. Il linguaggio -come diceva Gassman in “In nome del popolo italiano”- dev’essere desemplicizzato. Poi certo, qualcuno lo farà anche apposta, qualcuno scriverà in modo ambiguo, oscuro, per garantirsi una rendita di posizione, per poter speculare su questa zona grigia. Ma non credo che il dolo sia molto esteso: credo che ci sia una generale incapacità di dire le cose in maniera chiara e -dove l’incapacità lo permette- una tendenziale preferenza per le espressioni complicate, perché la complicazione dignifica, nobilita. La parola che qualifica questo atteggiamento c’è, quindi possiamo anche usarla: è snobismo, la malattia dei poveri che vogliono sembrare ricchi. Scrivi che c’è sempre più sfiducia nelle materie scolastiche classiche. Non crediamo più che insegnare bene italiano, storia, filosofia, matematica sia già fare educazione civica. Perché succede questo? Perché sviliamo le materie? Perché crediamo che abbiano poca aderenza alla vita quotidiana, alla vita che vediamo attorno a noi. Avevamo un set di discipline scolastiche che potevano sembrare in sintonia con il mondo fino a qualche decennio fa. Oggi, a torto o a ragione, le consideriamo obsolete. Meglio avere dieci in inglese o dieci in italiano? Meglio cavarsela bene con il coding o con il greco antico? Sospetto che molti genitori, anche illuminati, sceglierebbero il primo corno delle due alternative, non il secondo. Da un lato è una percezione anche corretta, perché le discipline tradizionali, specie quelle umanistiche, hanno un contatto molto labile con la vita quotidiana, e perché l’Italia privilegia una formazione scolastica molto tradizionale, che guarda con sospetto per esempio all’istruzione pratica, che venera le lingue morte, l’astrazione dei concetti (quanta filosofia fatta male, nei licei italiani, quante parole in libertà, quanti concetti che tutti -insegnanti compresi- fanno finta di capire!). Ed è chiaro che in un colloquio di lavoro non ti chiederanno di spiegare la perifrastica passiva o di parlare della Guerra del Peloponneso di Tucidide. Però è anche vero che una formazione culturale decente fa di te una persona molto più capace di imparare rispetto a chi quella formazione non la possiede. A me pare che una buona formazione scolastica, senza eccessive compromissioni col mondo, possa essere il viatico per un’eccellente carriera in qualsiasi campo, e soprattutto -perché non dirlo- a una vita più piena di significato. L’ordinaria amministrazione, insomma, il vecchio e grigio programma, con correzioni e addizioni, certamente, ma senza problemi di scuola cittadino italiano adulto, addottorato in Letteratura, 7 anni di scuola Normale, non capisco le leggi del mio Paese stiamo cercando di surrogare quello che non riusciamo più a dare -una buona scuola- con materie nuove

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