una città - n. 295 - settembre 2023

una città 21 il tragitto della memoria Il 27 gennaio 2012, in occasione della Giornata della Memoria, è stato organizzato dal Comune di Forlì con la collaborazione, fra gli altri, dell’Università di Bologna e della Fondazione Lewin, un “pellegrinaggio” sui luoghi dell’eccidio di ebrei avvenuto a Forlì nel settembre del ’44. Ne parliamo con Rosanna Ambrogetti, Presidente della Fondazione che prende il nome da una delle vittime dell’eccidio, un giovane ebreo berlinese, e con Gianni Saporetti, della rivista “una città”. Potete raccontare come siete venuti a conoscenza dell’eccidio di ebrei ed ebree avvenuto qui a Forlì nel settembre del ‘44? Rosanna. È avvenuto nel ’91, per caso, per quel che ci riguarda. Dico per quel che ci riguarda perché il fatto invece era già venuto fuori da uno studio della professoressa Paola Saiani per l’Istituto storico della Resistenza, pubblicato nel bollettino dell’Istituto. Un giorno che eravamo andati all’Istituto per qualche motivo che adesso non ricordo, ci capitò tra le mani questo bollettino, lo aprimmo, e passandocelo di mano, restammo attoniti: una strage di ebrei era avvenuta a Forlì nel ’44. Diciotto ebrei fra cui sette donne, una madre con il figlio, un marito con la moglie e la figlia, intere famiglie. Rimanemmo molto colpiti, perché così come non lo sapevamo noi, pensammo che non lo sapesse quasi nessuno in città, e in effetti era così. Era una strage dimenticata. Qualche giorno dopo andammo al cimitero, perché nel bollettino c’era scritto che le salme erano state riesumate nel ’45 dalle fosse comuni di via Seganti, la via dell’aeroporto, e portate al cimitero monumentale. Al cimitero il custode ci fece vedere negli archivi tutti i certificati di morte, poi, guardando nel registro, ci indicò sulla piantina due file di loculi in alto a destra dell’ossario. Ci andammo e là individuammo a fatica una lunga fila di loculi anonimi, interrotta da sette con nomi strani, ebraici. Ecco, vedere queste tombe completamente anonime, lassù in alto, senza alcuna possibilità che venissero notate da qualcuno, è stato il secondo shock. Lì decidemmo di muoverci. Trovammo subito, ovviamente, la disponibilità del Comune e organizzammo un convegno cui parteciparono, oltre al rabbino Luciano Caro di Ferrara, che è il rabbino anche della Romagna, Tullia Zevi, allora presidente delle comunità ebraiche italiane, storici come Fabio Levi e Gianni Sofri e Liliana Picciotto del Centro di documentazione ebraica di Milano; e dal convegno venne fuori la proposta di dare una degna sepoltura agli ebrei fucilati. Quindi i resti furono riesumati e ora la tomba può essere visitata nella parte destra del Monumentale, proprio a ridosso della via Ravegnana. Quando nel ’45 aprirono la fossa comune non tutti erano stati riconosciuti. Gianni. Sì. Questo perché i secondini, su consiglio o su ordine del prefetto, non si presentarono a tentare il riconoscimento, mentre le suore addette al reparto femminile del carcere, malgrado anche il vescovo le avesse sconsigliate perché sarebbe stato troppo impressionante, andarono e così le donne ebree furono riconosciute. Erano passati circa sei mesi, probabilmente il riconoscimento poteva avvenire ancora abbastanza agevolmente. Infatti le suore riconobbero anche i resti di Alfred Lewin, figlio di Jenny Hammerschmidt. Forse perché avevano ben presente la vicenda di questa madre e di suo figlio, che internato al sud, in un posto ben più sicuro (gli ebrei internati a Salerno si salveranno in tanti) aveva chiesto “l’avvicinamento” alla madre che al nord viveva ormai in condizioni di indigenza. Quindi tutti i loculi dei maschi, eccetto quello di Alfred, erano anonimi. Erano tutti ebrei stranieri? Gianni. Diciassette erano stranieri, tedeschi, austriaci e polacchi. Fuggivano dalle leggi razziali tedesche o da una guerra che diventava sempre più imminente. A questi va aggiunto Gaddo Morpurgo, l’unico ebreo italiano, e il cui nome in un primo tempo non figurava nel gruppo. Ma è stato accertato senza ombra di dubbio che era nel carcere di Forlì il giorno della fucilazione e, a una conta più accurata dei resti dei fucilati, è risultato che il numero dei fucilati era superiore di una unità. Come avete conosciuto Lissi Lewin? Rosanna. Sempre per caso. Succede che all’Istituto storico della resistenza di Reggio Emilia, a cui arriva il bollettino degli Istituti dove si racconta del nostro convegno e della cerimonia della sepoltura, faccia il servizio civile un giovane tedesco della ex Germania Est che è figlio di amici di famiglia di una certa Lissi Pressl, che fa Lewin di cognome da ragazza. Sì, era la sorella di Alfred e figlia di Jenny Hammerschmidt, fucilati a Forlì. Lui avvisa Lissi che “forse li ha trovati” e lei ci contatta e quasi subito viene a Forlì, va sulla tomba della mamma e del fratello, va anche nelle scuole, e diventiamo amici. Ovviamente la intervistammo per “una città”. È una bella intervista che lei conclude dicendo: “Beh, adesso finalmente so cos’è successo ai miei, so dove sono seppelliti, ed è un gran sollievo; per me si chiude una parentesi durata cinquantasette anni e vi ringrazio di tutto cuore”. Lì avete conosciuto tutta la storia… Rosanna. Sì, lì scopriamo un po’ tutta la storia. Loro erano venuti via dalla Germania per via delle leggi razziali. Tanti ebrei polacchi, austriaci, tedeschi, venivano in Italia perché girava voce che l’Italia, per gli ebrei, malgrado il fascismo, fosse un posto tra i più sicuri in Europa. Coi risparmi che avevano potuto portar con loro, avevano messo su una panetteria a Cremona e le cose erano andate bene fino al ’38. Poi, con le leggi razziali italiane, la situazione per loro precipitò di nuovo. E lì ci fu l’intelligenza della mamma e del fratello che decisero di mandare via la sorella, ancora giovane e in età per essere ancora accolta in Inghilterra a fare la ragazza alla pari. C’è da dire infatti che in Inghilterra accettavano solo giovani ebree come ragazze alla pari. Vincendo la sua grande resistenza, la convinsero a partire; e così facendo le salvarono la vita. In Inghilterra poi, Lissi si innamorò di un comunista tedesco, che aveva fatto la Resistenza in Cecoslovacchia, lo sposò, rimase incinta, e finita la guerra lo seguì nel suo sogno di tornare a costruire la Germania nuova, la Germania come si deve. Andò a vivere a Berlino Est. Fatto sta che così, per via del Muro, della separazione della Germania e dell’Europa, lei non potrà più neanche muoversi per cercare notizie dei suoi. Gianni. Le arriveranno solo due lettere, una della Croce rossa per dirle che un AlQUELLE LAPIDI Quel che avevamo cominciato a discutere su “una città” sul rischio della rimozione della memoria della Shoah, andando a intervistare ebrei ed ebree sopravvissuti, all’improvviso era lì, davanti a noi, all’ossario del Monumentale; era successo anche a Forlì e la città non lo sapeva, forse non l’aveva mai saputo; da allora un impegno, di tanti cittadini e del Comune, per “rimediare” e anche per cercare e conoscere i parenti delle vittime sparsi per il mondo.

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