una città - n. 295 - settembre 2023

Mia madre voleva assolutamente che emigrassi in Inghilterra, il che era possibile solo con l’aiuto del comitato ebraico di Milano. Allora per giovani donne ebree c’erano ancora delle possibilità di essere prese in Inghilterra come ragazze alla pari, ma per donne anziane come mia madre non sarebbe mai stato possibile e per gli uomini men che meno. Comprensibilmente avevo una grande paura di emigrare da sola, anche perché ero una ragazza che aveva sempre vissuto ben protetta e sostenuta dalla mia famiglia. Adesso però la mia partenza diventava necessaria, perché mia madre e mio fratello continuavano a dirmi che solo se io fossi andata avanti, loro avrebbero avuto la possibilità di raggiungermi, che io avrei trovato il modo per fare partire pure loro. Il 16 agosto 1939, due settimane prima dell’inizio della guerra, presi l’aereo per l’Inghilterra. Credevo di conoscere l’inglese abbastanza bene, ma una volta giunta a Londra dovetti ricredermi. Dovevo chiedere la strada per un posto piuttosto piccolo dove vivevano più mucche che persone. Chiesi al bobby come arrivare al comitato ebraico a Londra ed egli mi rispose in un inglese che non ero assolutamente in grado di capire. Ricordo che per aiutarmi a capire si mise a cantare “It’s a long way to...”. Visto che avevo imparato questa canzone a scuola, compresi che dovevo prendere un mezzo pubblico. Riuscii ad arrivare e da lì raggiunsi il paese in cui viveva la famiglia che mi avrebbe ospitato. Nelle prime due settimane tutto si svolse più o meno bene; la donna che aveva scritto quelle amorevoli lettere era una maestra, come pure suo marito, uno scozzese. Ma con l’inizio della guerra la donna diventò isterica. Continuava a gridare che si era presa il nemico straniero in casa e credeva di doversi rivalere su di me per tutto quanto di brutto potesse derivarle dalla guerra. Mi tormentava. Sopportai per due mesi e poi non seppi più cosa fare. Aveva sequestrato il mio passaporto e tutti gli oggetti di valore. Mia madre, infatti, mi aveva dato dell’argenteria. Mi restava un’unica possibilità, rivolgermi alla polizia. La polizia ascoltò la mia storia. Temevo che avrebbero creduto di più a una residente che a una straniera, invece no: dissero che conoscevano quella signora e che sarebbero subito intervenuti. Due poliziotti vennero con me, presero la mia valigia, obbligarono la donna a tirare fuori tutto ciò che mi aveva preso e mi portarono a Manchester. Il comitato ebraico mi procurò subito un lavoro lì. Fino al 1943 lavorai come donna di servizio e aiutante di un medico. Eravamo nel periodo peggiore della guerra. Ci furono numerosi bombardamenti a Manchester. Fra i miei compiti c’era quello di accompagnare un medico che girava la notte per curare feriti: in pratica correvo con una pila davanti alla macchina perché la città era immersa nel buio. Ciò però mi permise di farmi molti amici, numerosi pazienti mi conoscevano. Ebbi così l’ultima opportunità di scrivere a mia madre che nel frattempo mi ero sistemata bene. Ma non dissi che la maestra si era rivelata una bestia. Mentii raccontando che aveva avuto un altro bambino, per cui il lavoro era diventato troppo pesante per me e me ne ero andata, ma che adesso avevo un nuovo datore di lavoro che, “nomen est omen”, si chiamava Lewin, un medico ebreo. Lo accompagnavo spesso i fine settimana quando andava dai suoi genitori emigrati dalla Polonia durante la Prima guerra mondiale e ricordo che questi erano convinti che la causa di tutto erano gli ebrei tedeschi che si erano asuna città 43 le storie

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