Una città n. 283

una città 27 problemi di scuola Claudio Giunta (Torino, 1971) insegna letteratura italiana all’Università di Trento. È autore di due manuali di letteratura per il triennio delle superiori e collabora regolarmente con “Il Sole 24 Ore”, “Il Foglio”, “Il Post”. Fra i suoi libri più recenti: E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica (Il Mulino, 2017), Come non scrivere (Utet, 2018), Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca (il Mulino, 2020) e “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente”? L’educazione civica, la scuola, l’Italia (Rizzoli, 2021). Nel tuo ultimo libro hai scelto un tema abbastanza poco esplorato. Già il sottotitolo allarga il campo: “l’educazione civica, la scuola, l’Italia”. Il tema può sembrare noioso, vero; ma si parte da un problema scolastico per parlare di un problema del Paese. È avvenuto, secondo te, un progressivo slittamento dall’educazione critica verso la sensibilizzazione. Cosa si intende con questa espressione? Come mai abbiamo così tanto bisogno di sensibilizzare piuttosto che di istruire? Sensibilizzare è più facile. Invece di spiegare le cose in maniera sfumata, mostrare che sono sempre ancipiti, ambigue -persino le cose che riteniamo più sacre, come la Costituzione, o la democrazia- è molto difficile, richiede tempo e competenze che spesso i professori non hanno, anche se per comodità si finge che le abbiano. Perciò si sensibilizza, si mobilita, si arruola nella battaglia per le buone cause, si catechizzano gli studenti in nome di valori sui quali si giura in maniera irriflessa. Da ciò deriva anche quel “presentismo” sul quale molti hanno scritto. Riflettere su questioni che non riguardano direttamente la contemporaneità, il qui e ora, sembra tempo perso: il mondo è pieno di eventi e problemi che sembrano richiedere il nostro giudizio, il nostro intervento, e la scuola viene ineluttabilmente risucchiata in questo vortice. Io penso invece che un’educazione critica debba essere innanzitutto un’educazione storica, che -poniamo- prima di “difendere la Costituzione”, anzi che al posto di “difendere la Costituzione” occorra conoscere la storia delle costituzioni nel mondo occidentale, da quella americana in giù. L’altra strada è appunto l’applicazione al presente, la sensibilizzazione sui temi del giorno, nei casi peggiori la predica. Nel libro racconti lo spunto che ha dato il via alla tua riflessione: una ragazza, alla fine di un incontro in un liceo milanese ti ha chiesto: “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente, perché lo Stato e la scuola dovrebbero impedirmelo?”, venendo immediatamente zittita dal suo professore. Il libro parte da lì o sei arrivato all’argomento in modo diverso? Scrivo di scuola da molto tempo. Insegno all’università e faccio ogni anno un corso per i ragazzi del primo anno, quindi mi pongo spesso il problema della loro formazione, cioè di ciò che sanno o non sanno. Ho anche scritto dei manuali scolastici, e ho dovuto pensare bene a cosa metterci dentro; e naturalmente ho finito per dover riflettere sulla scuola, la scuola superiore in particolare. È un argomento, lo ripeto, piuttosto noioso, ma è chiaro che è importante: corrisponde a un tratto di vita che tutti quanti percorriamo, ed è l’unica esperienza che unisca davvero cittadini di ogni indole ed estrazione. Il libro nasce da un articolo che avevo scritto per la rivista del Mulino, che s’intitolava “La fascista intelligente e l’educazione civica” (un titolo forse più felice di quello che alla fine l’editore ha scelto). Mi sembrava che questo aneddoto aiutasse a mettere a fuoco una serie di problemi e di occasioni perse dell’istruzione scolastica. In breve: insegnanti assiomatici contro studenti un po’ naïf ma problematici e interessanti. L’articolo è piaciuto a un amico editor di Rizzoli che mi ha chiesto un libretto: così ho ampliato la riflessione e aggiunto anche il capitolo finale sul Guido Calogero. Ho intervistato poco tempo fa Paola Mastrocola sul suo ultimo libro Il danno scolastico. In quel libro Luca Ricolfi, co-autore, racconta della sua esperienza come insegnante universitario e registra una progressiva diminuzione del livello didattico dei ragazzi del primo anno. Tu hai visto un peggioramento nella scolarizzazione delle nuove generazioni? Credo che, per motivi anagrafici, la loro esperienza sia diversa dalla mia. Ho iniziato a insegnare all’università nel 2002; loro hanno assistito al passaggio segnato dalla riforma Berlinguer, e credo che quella sia stata una soglia decisiva. Penso che alla base del peggioramento di cui parlano Ricolfi e Mastrocola ci sia una questione meramente numerica: negli anni Cinquanta i licei erano frequentati da una frazione della popolazione più abbiente: è inevitabile che la qualità degli studenti fosse più alta. In un regime di licealizzazione di massa è altrettanto inevitabile che si registri un certo calo nella qualità media degli studenti. In più, c’è da tenere conto del fatto che io insegno in una facoltà umanistica, che tende spesso ad attirare studenti con una preparazione più incerta e una vocazione più debole. La gran parte dei ragazzi che s’iscrive a Lettere oggi, per esempio, non sa il latino o la sa molto male: e questo è certamente un problema FARE BENE LE COSE SEMPLICI Il rischio che nella scuola, invece di spiegare che le cose sono complesse, ambigue, si scelga la via della “sensibilizzazione” alle buone cause, secondo una specie di catechismo civile; l’importanza della libertà di discutere su tutto, anche, per esempio, se si può essere fascisti; un linguaggio, quello delle leggi, ridondante, complicato, una lingua italiana “colta“ nella sua accezione peggiore; l’insegnamento di Guido Calogero. Intervista a Claudio Giunta. insegnanti assiomatici contro studenti un po’ naïf ma problematici e interessanti

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