Una città n. 283

una città n. 283 mensile di interviste aprile 2022 euro 8

una città 2 sommario Non ci saremmo più Sulla resistenza ucraina e l’aggressione russa intervista a Oxana Pachlovska (p. 3) La democrazia sovrana Sull’evoluzione del regime di Putin intervista ad Antonella Salomoni (p. 9) Una guerra giusta? Taras Bilous (p. 13) L’Ucraina cambia il mondo Luigi Marinelli (p. 16) La morsa di ferro della Madrepatria Sui soldati russi che disertano intervista a Maxim Grebenyuk (p. 18) Le origini del totalitarismo di Putin Nina L. Khrushcheva (p. 21) Che vuol dire “disperso in combattimento’? La protesta di due madri russe interviste a T. Yefremonko e Y. Tsyvova (p. 22) Nei rifugi Nelle centrali, la popolazione civile ucraina nei rifugi Fare bene le cose semplici Su cosa dovrebbe fare una buona scuola intervista a Claudio Giunta (p. 27) Addio a Chiara Frugoni Ricordiamo una cara amica (p. 30) Bellocchio critico della vita sociale Alfonso Berardinelli (p. 35) La sfida enorme Emanuele Maspoli (p. 37) Pasolini pedagogo Matteo Lo Presti (p. 38) Il salario minimo Massimo Tirelli (p. 39) Il teatro, la musica amatissima... Bartolo Gariglio (p. 41) Il giubileo Belona Greenwood (p. 42) Perché gli assassinii di Gobetti, Amendola, Rosselli e Matteotti? Massimo Teodori (p. 36) Scelgo l’Occidente, Dwight Macdonald (p.46) La visita è alla tomba di Vladimir Vysotsky. aprile 2022 Redazione Una città via Duca Valentino 11, 47121 Forlì tel. 0543/21422 unacitta@unacitta.org “[...] Da dieci anni, i nostri dirigenti disprezzano le indignazioni «morali». Da dieci anni, affermano di fare della «realpolitik»: non sarà per Grozny che il mondo smette di girare, evitiamo di urtare il gigante Russia, lasciamo agli illuminati il loro «ritornello moralistico» d’impotenti. Scusatemi, ma senza principio etico, non c’è politica a lungo termine. Morale e politica non si dissociano come credono i Machiavelli da strapazzo. La «politica» degli Airbus e degli idrocarburi, la «politica» delle riverenze, la «politica» del «me ne infischio altamente che un popolo sia sterminato» portano a Beslan. Questa non è politica, è cecità. La «belle âme» che loro deridono e che io assumo per aver combattuto, con qualche raro amico, i fascismi nero, rosso e verde, per aver sostenuto all’epoca della loro persecuzione Solzenicyn, Sakharov, Havel, Massud, i boat people, gli assediati di Dubrovnik e di Sarajevo, gli espulsi del Kossovo, gli sgozzati d’Algeria, tutti quei «senza potere» sui quali i sostenitori della realpolitik non scommettevano un chiodo, la mia anima pietosa vi dice che non si cancella un popolo dalla carta, fosse pure irrisoriamente piccolo a giudizio delle nostre grandi nazioni.” André Glucksmann, “Corriere della sera”, 16 settembre 2004 Dedichiamo gran parte del numero all’Ucraina. Sappiamo che la nostra posizione intransigente suscita perplessità in alcuni dei nostri lettori. Un’abbonata ci ha tacciato di bellicismo e ha disdetto l’abbonamento. Ma la nostra è una posizione non di principio, ma molto pragmatica. Li invitiamo a leggere, a pagina 46, l’articolo di Macdonald che, dopo essere stato pacifista durante la Seconda guerra mondiale, cambiò idea. Ecco le sue argomentazioni che sono le nostre: “Per quanto riguarda il pacifismo, questo tende a presupporre un certo grado di similitudine etica col nemico, qualcosa che sta nelle sue ragioni e cui ci si possa appellare -o perlomeno, qualcosa che appartiene alle sue tradizioni. Gandhi trovò questo nei britannici, e così il suo movimento di resistenza passiva potè avere successo, dal momento che c’erano alcune misure repressive, come il giustiziare lui e i suoi collaboratori di spicco, cui i britannici non potevano ricorrere per via del loro codice morale tradizionale, che è quello comune alla civiltà occidentale. Ma i comunisti sovietici non hanno una tale inibizione, come non l’avevano i nazisti. Pertanto, concludo che il pacifismo non ha alcuna possibilità ragionevole di risultare efficace contro un nemico totalitario”. L’amico Pietro Adamo ci segnala il racconto fantascientifico Il terrore e la fede dello storico Harry Turtledove, in cui si immagina che Hitler abbia vinto la Seconda guerra mondiale, conquistato anche l’Inghilterra e mandato i suoi emissari e le sue truppe a prendere possesso dell’India. Qui Gandhi e Nehru discutono cosa fare, il primo crede che con la nonviolenza si ripeterà la vittoria ottenuta coi britannici, Nehru è preoccupato perché vede la differenza fra un regime coloniale ma liberale nella madrepatria e un regime totalitario. Gandhi però non cede, adotterà di nuovo il metodo nonviolento e il comandante nazista, pure colpito dalle argomentazioni dell’incredibile personaggio indiano, al momento di passare ai fatti, ordinerà alle autoblinde di sparare sulla folla che è scesa in strada per manifestare disarmata. E sarà un massacro. È incredibile come soprattutto a sinistra, non si tenga in alcun conto che l’Ucraina ha di fronte una potenza fascista che non ha un’opinione pubblica con cui dover fare i conti e quindi non ha scrupoli a condurre una guerra terroristica contro i civili. Che senso ha allora parlare di trattativa? E, nel caso, quale fiducia potremmo avere che gli impegni verrebbero mantenuti? Non abbiamo visto cosa successe a Srebrenica? E che senso ha proporre di smettere di dare armi agli ucraini, se non quello di costringerli alla resa? E in questo caso, di per sé orribile, quale sarebbe la riduzione del danno? Ripetiamo quello che tutti sanno: la prepotenza che vince è altamente contagiosa. Di Ucraina e Russia ci parlano Oxana Pachlovsha, Antonella Salomoni, Taras Bilous, Bartolo Gariglio, e poi da Meduza, quotidiano online in lingua russa con sede a Riga, Lettonia, l’intervista a Maxim Grebenyuk, e quelle a Tatyana Yefremonko e Yulia Tsyvova, madri di soldati russi “dispersi”. Due grandi persone, che ci onoravano della loro amicizia, sono mancate. Commemoriamo Piergiorgio Bellocchio con le parole del suo amico Alfonso Berardinelli e Chiara Frugoni con un nostro ricordo e ripubblicando una delle interviste date alla nostra rivista, quella in cui racconta del rapporto con un grande padre, Arsenio Frugoni, scomparso prematuramente, severo ed esigentissimo, ma che alla fine sarebbe stato orgoglioso della figlia. Claudio Giunta ci parla di scuola. Per l’altra tradizione pubblichiamo il prologo di Massimo Teodori al libro, scritto con Angelo Panebianco, La parabola della Repubblica, in cui ci si chiede: Perché gli assassinii di Gobetti, Amendola, Rosselli e Matteotti? Poi le lettere dal Marocco di Emanuele Maspoli, e dall’Inghilterra di Belona Greenwood; l’intervento di Massimo Tirelli sul salario minimo e quello di Matteo Lo Presti che ci parla di Pasolini. “La visita” è alla tomba di Vysotsky, il Bob Dylan russo, perseguitato in vita e che in morte fu accompagnato alla tomba da un milione di russi.

Oxana Pachlovska è docente di Ucrainistica all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato libri e numerosi saggi sulla storia della letteratura ucraina e italiana e sulla trasformazione democratica delle società dell’Est d’Europa. In questo momento è a Kyiv, sua città natale, dove si trovava all’inizio del conflitto, in visita alla madre Lina Kostenko, poetessa, scrittrice, saggista e storica dissidente ucraina. L’intervista che ti facemmo nel 2014 in cui mettevi in guardia sul tentativo di Putin di rigenerare l’impero sovieticozarista ortodosso e di impedire che l’Ucraina si avvicinasse all’Europa risulta oggi tristemente profetica. Non è mai piacevole fare brutte previsioni, e tuttavia devo dire che quello che è successo supera di gran lunga le nostre ipotesi più pessimistiche. Che si potesse arrivare a questa furiosa devastazione del Paese, alle atrocità indicibili, alla denigrazione totale della vita umana, al disprezzo di qualsiasi regola e legge internazionale... Significa che sul piano morale la Russia è catastroficamente degradata, per cui rappresenta un pericolo per tutto il mondo democratico. I deputati della Duma e vari esponenti del potere hanno detto a chiare lettere che lo scopo dell’“operazione speciale” è quello di eliminare gli ucraini e il nome stesso dell’Ucraina. Aleksej Zuravlëv, vice presidente del Comitato per la Difesa, ha anche fatto calcoli precisi: per reintegrare l’Ucraina nell’Urss-2 bisogna uccidere due milioni di ucraini. Siamo di fronte a un progetto di genocidio in piena regola. È stato anche spiegato che “denazificazione” significa deucrainizzazione e deeuropeizzazione. Intanto alla vigilia della festa del 9 maggio è stato bombardato il cimitero ebraico di Hluchiv. Volano minacce di “denazificare” la Polonia, le repubbliche Baltiche e altri paesi ancora. Eppure non possiamo dire di essere di fronte a qualcosa di inedito. In fondo quello a cui assistiamo oggi ci aiuta a rileggere i fatti del passato, in particolare i crimini del regime sovietico perpetrati in vari momenti storici: la collettivizzazione e l’Holodomor, l’occupazione dell’Ucraina occidentale prima della guerra, la nuova occupazione dopo il ’45... Tutti crimini che hanno portato alla morte milioni di ucraini e che hanno impiegato decenni prima di venire alla luce ed essere riconosciuti. Non dalla Russia ovviamente. Le notizie e i primi studi sull’Holodomor (che risale al ’32-33) arrivano solo negli anni Ottanta. Possiamo dire che quello che avviene oggi è il prosieguo del tentativo di genocidio che la Russia ha compiuto nei confronti dell’Ucraina per tutto il Novecento. Intanto a Mariupol’, in soli due mesi i russi hanno ammazzato venticinquemila cittadini ucraini, il doppio delle persone uccise in due anni di occupazione nazista. Colpisce il piacere sadico che trovano i soldati russi nell’ammazzare, spaventare, umiliare. Alla fine “denazificare” significa fucilare i civili disarmati, violentare e perfino uccidere dei bambini di fronte a genitori legati, divertirsi a torturare, depredare le case. Mariupol’ sotto il potere “nazista” di Kyiv era una fiorente città portuale, un giardino che dava sul mare. “Liberata” dai russi, è un cimitero dove i cittadini sopravvissuti, per avere la razione di cibo dai “liberatori”, devono scavare le trincee per seppellire i concittadini morti. Il 24 febbraio eri in Ucraina... Sì, ero in partenza per l’Italia, ero venuta a trovare mia madre durante una pausa in mezzo agli esami. Quando ho capito cosa stava per accadere non ho avuto scelta. Eravamo di fronte all’attacco alla capitale. Si guardava la morte in faccia. Sapevo che mia madre non sarebbe venuta via con me in Italia. È stata perentoria: “Questa è casa mia”. E per paradosso: “Chi non scappa non sarà mai catturato”. Per lei psicologicamente è impossibile fuggire, arrendersi. Poi, niente voli, niente treni. Sarò per sempre grata alla direzione del mio Dipartimento, che mi ha concesso letteralmente in un attimo la possibilità di fare lezioni online. Tutti i miei colleghi sono stati straordinari. Così abbiamo vissuto quasi un mese e mezzo di assedio della capitale, sotto i bombardamenti, lavorando con sano fatalismo. La resistenza degli ucraini ha stupito tutti. Gli ucraini hanno reagito con determinazione e coraggio. Se non l’avessero fatto, non ci saremmo più. La nostra è una nazione paradossale. In tempi normali gli ucraini possono sembrare inclini alla tranquillità, ma quando incombe il pericolo a un tratto è come se si svegliasse qualche antico codice di resistenza. Se guardiamo alla storia di questo paese, di periodi di resistenza ce ne sono stati tanti e sempre drammatici. Aggiungo che, ripercorrendo i tempi passati, in tutte le epoche si riscontrano un odio sistemico della Russia nei confronti dell’Ucraina, e ripetuti tentativi di distruggere questa identità che mette in crisi il paradigma ideologico russo incentrato sull’espansione e sull’omologazione. Alla vigilia della Prima guerra mondiale l’Ucraina era vista come “principale nemico” della Russia. In effetti, è agli antipodi di un modello sociale oppressivo e chiuso. Anche se storicamente è una cultura ortodossa, si è sviluppata entro coordinate culturali decisamente differenti. L’Ucraina è plurale e dialogante, dato che la sua identità moderna si è formata all’interno dello stato polacco-lituano, una Repubblica, Rzeczpospolita, spazio di più religioni, lingue, codici culturali. Quanto realmente incide la cultura in questa situazione? Oggi si è tornati a discutere sul ruolo della letteratura nella formazione delle teorie imperialistiche russe. Questione seria. Riuna città 3 Cosa significava denazificare? Significava distruggere l’Ucraina e la sua cultura fatta di pluralismo, multiculturalismo, multilinguismo; una “bulimia politica” che da sempre caratterizza la Russia; l’ordine di fare come nei Balcani: violentare, uccidere, razziare; senza la resistenzadegli ucraini oggi Kiev sarebbe come Bucha; Putin è riuscitoa seminare inUcraina un odio per i russi, che non c’era, e che ora durerà per decenni. Intervista a Oxana Pachlovska. NON CI SAREMMO PIU’ se gli ucraini non avessero opposto resistenza fin da subito, non ci saremmo più cosa sta succedendo

cordiamo cos’ha scritto Pushkin sul Caucaso: ha glorificato lo sterminio dei suoi popoli. E sugli slavi? Ha detto che devono tutti “confluire nel mare russo”. In una poesia, Tyutchev prometteva alla Polonia di “custodire con cura” le sue ceneri servite all’integrità della Russia. Nella poesia Geografia russa affermava che il profeta Daniele aveva predetto che la Russia si sarebbe espansa “dal Nilo al Neva, dall’Elba alla Cina, / dal Volga all’Eufrate, dal Gange al Danubio…”. Simili dichiarazioni le ritroviamo negli scritti di Putin e Medvedev sull’Ucraina, o di Surkov, fino a poco tempo fa uno degli ideologi di Putin (adesso corre voce che sia stato arrestato). Oggi si dice che l’Ucraina è “un unico popolo con la Russia” e il giorno dopo che è una “anti-Russia”. Surkov, poi, chiamando Putin novello “Augusto”, afferma che per la Russia l’allargamento è una questione “fisica”, naturale. Anche lo scrittore Prilepin (molto tradotto in Italia) non si discosta molto da queste dichiarazioni: è convinto di essere un erede di Pushkin e Tolstoj in quanto capo di uno “speznaz della letteratura” destinato a conquistare Kyiv. La ragione di tutto ciò? Ma perché i russi sarebbero i “salvatori del mondo”. Norman Davies definiva questo fenomeno “bulimia politica”: ingoiare senza sosta sconfinati spazi di nazioni, religioni, culture diverse. Dopodiché cosa fai di tutto questo? Lo reprimi e lo rendi un insieme omologato. Così si espandono solo povertà, ignoranza, odio. Detto questo, è chiaro che l’origine della guerra va ricercata non solo nella figura sinistra di Putin. La Russia oggi è un Putin collettivo. Più dell’80% dei russi è per la guerra. Ed è questo ciò che più spaventa. Nelle loro razzie i soldati russi rubano tutto, water compresi, evidentemente una cosa esotica per un paese dove 35 milioni di persone sono privi di servizi igienici. Caricano sui carri armati, non i compagni feriti, ma water, vestiti, addirittura cucce per cani. A Bucha una cara amica, dottoressa che ha lavorato prima per anni a Donec’k, ha trovato nei pressi della sua casa semidistrutta la scritta: “Chi vi ha permesso di vivere così bene?”. Si tratta quindi anche di una rivalsa sociale. Ma c’è di peggio. Siccome i soldati rubano i telefoni ucraini, i servizi segreti registrano le loro conversazioni con i familiari come prove dei crimini di guerra. E qui emergono delle cose davvero atroci. La moglie che incita il marito a violentare le donne ucraine. Un ragazzo ventenne che racconta alla madre le torture inflitte agli ucraini, e la madre che si rammarica solo di non poter divertirsi con il figliolo. Un’altra madre, medico, dice al figlio che vedrebbe con gioia morire lentamente i bambini ucraini, con dita e genitali mozzati, con la stella intagliata sulla schiena, visto che festeggiano la Giornata della vittoria l’8 maggio, come in Europa, e non il 9 maggio come in Russia. Vien da chiedersi cosa succederà a questo punto ai bambini deportati. Ormai sono stati deportati in Russia quasi un milione e quattrocentomila ucraini compresi oltre duemila bambini. Dov’è finita la “grande letteratura russa”, con il suo culto della “lacrimuccia di un bambino” di Dostoevskij?! Cosa sta succedendo nel Donbass? Come sta reagendo la popolazione? Devo fare un passo indietro perché è una storia complessa. Come si sa, storicamente il Paese si divide in Ucraina della Riva destra e Ucraina della Riva sinistra; per lunghi periodi una è stata sotto la Polonia, e in seguito sotto l’Austria, e l’altra sotto la Russia. La divisione si è riflessa anche a livello linguistico, per cui la parte occidentale è ucrainofona, la parte centrale è mista e la parte orientale prevalentemente russofona. Ora, la russofonia in un paese pluriculturale non rappresenta alcun problema nel contesto di una democrazia. Ricordiamo inoltre che alcuni dissidenti ucraini, grandi figure come Ivan Dzjuba, storico di letteratura, o il poeta Vasyl’ Stus, provengono proprio dalla zona del Donbass. Tra l’altro, Dzjuba, di cui ora in Italia è uscito un libro sulla russificazione dell’Ucraina, è morto simbolicamente proprio nella notte dell’invasione. Era nato nei pressi di Volnovacha, città che i russi hanno raso al suolo. La zona del Donbass, pur essendo una regione industriale, ultimamente aveva subito un processo di modernizzazione, in parte anche in occasione del Campionato europeo di calcio del 2012. Non era più una repressa regione mineraria, come nei tempi dell’Urss, ma una realtà abbastanza ricca e movimentata. I propagandisti di Putin hanno invece fomentato il conflitto linguistico trasformandolo in un criterio di scelta tra due sistemi, europeo e russo. Un personaggio attivo di questa campagna propagandistica (non a caso!) è stato Paul Manafort, lobbista e capo del pool elettorale di Trump, che aveva lavorato in Ucraina con Yanukovych, per dire anche la portata internazionale di questa storia. Insomma, i propagandisti russi hanno cercato di convincere la popolazione di questa regione che era meglio separarsi dall’Ucraina perché a Kyiv sono tutti “nazionalisti” che avrebbero portato le truppe Nato nel Donbass. La gente si è messa a invocare: “Putin, vieni!” E Putin, puntuale, è arrivato. Morale: l’occupazione russa nel Donbass e altrove ha causato la morte atroce di migliaia di persone e ha devastato questa zona anche economicamente. Ormai è un luogo di traffici illegali di ogni genere, dove vige un totale intorpidimento della popolazione che ora, tra l’altro, viene arruolata per fare la guerra a fianco dei russi contro l’Ucraina. Ma mentre i dirigenti di queste sedicenti “repubbliche” hanno decine di milioni di dollari nelle banche russe, a Donec’k ormai da mesi non c’è nemmeno l’acqua. E pensare che a maggio del 2014, durante la Giornata dell’Europa, all’aeroporto di Donec’k, che porta il nome del compositore russo sovietico Prokof’ev, l’orchestra locale suonava l’Inno alla gioia di Beethoven. Ricordo la sensazione di speranza: “Che bello, anche qui si respira un senso di libertà e di Europa”. Ora, al posto dell’aeroporto ci sono solo rovine. Insomma, ormai è una zona devastata che chissà quando risorgerà. Non dimentichiamo che la Russia sta adesso sterminando innanzitutto la popolazione russofona dell’Ucraina. Le sue chiese, i suoi simboli, le sue istituzioni, la sua economia. È uno dei tanti aspetti assurdi di questa guerra. Anche l’Ucraina orientale ha tradizioni culturali variegate. Da Charkiv sono usciti diversi studiosi importanti, culturalmente è un’area mista. Ed è una città con la massima concentrazione di università, una trentina. L’università centrale porta il nome dello scienziato Vasyl’ Karazin di origini serbe. È stata bombardata, bruciata, devastata. Risultato? Adesso il sindaco russofono di Charkiv, Ihor Terechov, promette di cancellare ogni riferimento toponimico o altro alla Russia. Di Odessa, non ne parliamo: è ucraina, russa, ebraica, italiana, greca. Costruita dai francesi. Oppure Mykolaïv: è l’antica Olbia Pontica, una delle colonie greche sul litorale del Porto Eusino, Mar Nero. Molti elementi della democrazia delle póleis greche sono nati e diffusi in queste terre già in tempi antichissimi, da una complessa simbiosi ellenico-scitica. Gli invasori ora hanno saputo solo trafugare l’oro degli sciti dal museo di Melitopol’. Senza dimenticare la Crimea, che storicamente è in primis tatara, ma anche italiana e greca. La Crimea, poi, era una perla, un classico luogo di villeggiatura; adesso è uno spazio militarizzato dove gli ospedali sono destiuna città 4 caricano sui carri armati non i compagni feriti, ma water, vestiti, e addirittura cucce dei cani la Russia ora sta sterminando innanzitutto la popolazione russofona dell’Ucraina cosa sta succedendo

nati a curare non i civili, ma i militari feriti, oppure sono trasformati in obitori. Vorrei che qualche appassionato telecommentatore filoputiniano italiano rispondesse a questa domanda: come mai sotto i “neonazisti” ucraini queste terre erano luogo di vita, di scienza, di economia, mentre coi “liberatori” russi sono state trasformate in sconfinati cimiteri? Tu comunque metti in discussione questa visione per cui ci sarebbe un dittatore cattivo e il popolo buono... Quando si parla dell’Italia, del fascismo, non possiamo certo liquidare la questione dicendo che gli italiani sono il popolo buono e il fascismo è stato solo frutto di qualche mente perversa. Noi dobbiamo interrogarci sulle origini di questi fenomeni. Nella storia di ogni popolo ci sono pagine nere. Anche nella storia dell’Ucraina ci sono pagine nere. L’importante è fare tutto il lavoro necessario affinché quei fatti non si ripetano. Il dramma della Russia (e del mondo democratico intero) sta nel fatto che non ha mai sviluppato una presa di coscienza dei suoi crimini e misfatti derivanti da quella mentalità imperialistica che dura da secoli e che ha portato alla sistematica distruzione di tanti popoli. Il lavoro di Memorial andava in questa direzione, ma è stato fermato e smantellato. Se prima in Russia c’erano dei dissidenti, qualcuno che poteva parlare, agire, oramai sono andati via tutti e quelli che sono rimasti sono costretti al silenzio perché sono in carcere oppure rischiano la vita al primo cenno di protesta. La Russia post-sovietica per certi versi si sta rivelando peggiore della Russia sovietica. Perlomeno nel periodo post-Stalin si era instaurato un certo equilibrio nel rapporto con l’Occidente, le regole del gioco durante la Guerra Fredda erano insomma abbastanza chiare. Ora la Russia sfida il mondo democratico con una violenza cieca, senza ragioni, senza senso. Il succitato deputato Zuravlëv è arrivato a dire che alla Russia non importa se deve distruggere 28 o 32 paesi della Nato. Per questo quel paese oggi è così pericoloso: fa intravedere la minacciosa prospettiva di un mondo dove a dettare legge sarebbe una violenza indiscriminata e quindi irrefrenabile. Per questo dico che per l’Ucraina resistere è diventato esistere. Il mondo moderno funziona in base ad accordi reciprocamente rispettati. È il mondo del passato quello fondato su minacce e violenza. È per questo che l’Est Europa fugge dalla Russia. È la fuga da un obsoleto passato. L’Ucraina oggi sta difendendo non solo sé stessa, ma il mondo democratico in quanto tale. È un momento storico: a fatica, ma lo sta capendo anche l’Occidente. Come vedi la questione dei negoziati e di questa necessaria via d’uscita che andrebbe concessa a Putin? Macron e certi politici italiani parlano addirittura della necessità di “salvare la faccia” di Putin. Scusate, ma a chi dobbiamo salvare la faccia? A un criminale intenzionato a distruggere una nazione? Attualmente il processo negoziale è stato sospeso. Direi che ci sono state due fasi: “prima di Bucha” e “dopo Bucha”. Nella prima fase delle trattative si parlava addirittura di una neutralità futura per l’Ucraina, con l’impegno di diversi paesi di garantirle l’integrità territoriale. Ma il cambio di scenari è stato repentino. Mentre Macron rifletteva sulla “finlandizzazione” dell’Ucraina, e quindi sullo status di eterna neutralità, la Finlandia ha deciso di integrarsi nella Nato. Mentre si immaginava che i “garanti” potessero essere paesi appartenenti al Consiglio di sicurezza dell’Onu, e quindi anche -per assurdo!- la Russia, quest’ultima veniva espulsa dal Consiglio per i diritti umani. Tutte queste trattative sono state vanificate dalla scoperta delle atrocità perpetrate dai russi a Bucha e in altre zone occupate. Nel frattempo nella società ucraina si è rafforzata l’idea della necessità di un’integrazione nella Nato. Oppure della costruzione di un nuovo sistema di sicurezza nel quale l’Ucraina, con una ferrea garanzia della sua sovranità e integrità territoriale da parte dei paesi occidentali (forse dei paesi del G7), diventi uno dei pilastri di questo sistema. Oltre alla questione della sicurezza futura, c’è anche una questione immediata: l’accordo sul confine dell’Ucraina. Prima la formula ucraina era il ritorno alla situazione precedente al 24 febbraio. In quel modo la questione del Donbass e della Crimea veniva rimandata a trattative successive che sarebbero durate anni (15 anni nel caso della Crimea). Recentemente l’ottica è cambiata. E questo cambiamento è sempre dovuto alle crescenti devastazioni compiute dalla Russia e all’inasprirsi della crisi mondiale dovuta a questa guerra, tra cui il blocco dell’esportazione del grano, fatto che potrebbe scatenare la fame in vaste zone dell’Africa e dell’Asia. Adesso diventa sempre più verosimile l’ipotesi espressa dai paesi del G7 di liberare l’Ucraina tornando ai confini precedenti al 2014, altrimenti il rischio di una nuova guerra non rientrerà mai. La dichiarazione ufficiale del 14 maggio lo dice chiaro: i G7 proseguiranno con l’assistenza militare all’Ucraina e non riconosceranno mai il cambiamento dei confini ucraini internazionalmente riconosciuti. In sintesi: i paesi più potenti del mondo hanno deciso che è meglio spendere i soldi oggi per la sicurezza di un paese così importante per gli equilibri mondiali che non investire in strutture ed energie per prepararsi a una prossima e imminente guerra della Russia su scala più vasta e ancora più pericolosa. Pensi che la situazione pre-24 febbraio sia ancora accettabile come obiettivo di una trattativa? Da una parte questa radicalizzazione delle posizioni è più che giustificata. Dall’altra parte, in effetti Donbass e Crimea sono ormai due aree così intossicate dalla propaganda, così compromesse anche economicamente (la Russia ha smantellato e portato via dal Donbass interi stabilimenti) che l’Ucraina non riuscirà comunque a farsene carico dovendo fare un gigantesco lavoro di ricostruzione del Paese. Per cui, secondo me, l’Ucraina, anche solo dal punto di vista economico, non può assumersi questo fardello, ora che dovrà far risorgere dalle rovine tantissime città e campagne, infrastrutture, tutto il sistema economico, culturale, civile sconvolto dai russi. Non a caso si è parlato di un piano Marshall da parte dell’Occidente, esattamente come dopo la devastazione nazista. In seguito, però, una volta liberata, l’Ucraina rinascerà e se entrerà in Europa diventerà una sorta di magnete per le zone occupate. Sono convinta che per quel che riguarda la stessa Crimea, che già ora sta subendo un degrado allucinante, e altrettanto il Donbass, saranno loro a voler riassociarsi all’Ucraina! Se si allenta la morsa di Mosca con il suo apparato propagandistico, molta gente vorrà tornare alla normalità, a una vita dignitosa e tranquilla. Gli umori che serpeggiano ora nel Donbass sono proprio quelli. Ci sono anche questioni militari. Le prospettive della guerra dipendono moltissimo sia dal coraggio degli ucraini sia dagli aiuti occidentali. Non dimentichiamo che nel 2014, nel momento dell’Euromajdan e della fuga di Yanukovych, creatura del Cremlino, l’Ucraina aveva solo poche migliaia di militari a sua difesa. L’esercito era stato letteralmente smantellato. Il presidente Poroshenko ha creato dal nulla un forte esercito di più di duecentomila militari ben equipaggiati, addestrati dai militari della Nato. Ora si dice che, con le forze della “difesa territoriale” e altre unità, l’Ucraina arriverà ad avere un miuna città 5 a chi dobbiamo salvare la faccia? A una persona che ha rovinato il suo stesso paese? nel momento in cui l’Ucraina entrerà in Europa diventerà una sorta di magnete per le zone occupate cosa sta succedendo

lione di militari a sua difesa. Quindi sarà sempre più difficile accettare i compromessi proposti dalla Russia e favoriti da certe forze politiche in Occidente (che vorrebbero chiudere gli occhi su questo massacro e tornare a un approvvigionamento indisturbato del gas e di altre materie prime). Nel contempo anche in Occidente non mancano forze intenzionate a indebolire la Russia usando per questo scopo la resistenza ucraina. Dal punto di vista pragmatico è una mossa intelligente. La Russia ha minacciato l’intero Occidente con l’imperdonabile ricatto delle armi nucleari. Finalmente si è arrivati alla conclusione che questo è inammissibile. Questo pericolo però non rientrerà fino a che la Russia non sarà costretta a pagare un prezzo adeguato per questa inaudita violenza. E qui devono avvenire tre cose: sconfitta militare, tribunale internazionale per i crimini di guerra e il genocidio, pagamento dei danni. Per cui questa situazione sarà dispendiosa per tutti. La guerra può durare ancora dei mesi, un anno, forse di più. In fondo la guerra nel Donbass non è durata otto anni?! Questa guerra è anche il frutto dell’oblio, della cecità dell’Europa, che ha chiuso gli occhi sulla Cecenia, sulla Georgia… Ricordo ancora, all’inizio della guerra in Cecenia, la frase di un giornalista italiano: “L’Occidente non intende litigare con l’orso russo per quattro ceceni”. “Quattro ceceni” sono diventati 120 mila morti. Anna Politkovskaja, e pochi altri, sono stati lasciati a combattere e morire in questa battaglia solitaria, mentre l’“homo oeconomicus” europeo, per dirla con Glucksmann, commerciava con la Russia facendo finta che la cosa non lo toccasse. Ecco perché oggi la consapevolezza occidentale del fatto che l’attacco all’Ucraina mina le fondamenta della civiltà democratica costituisce una vera svolta storica. Com’è adesso la vita a Kiev? Noi abbiamo un bravissimo sindaco, Vitali Klitschko, che ha fatto l’impossibile per proteggere la città. All’inizio della guerra una delle numerose colonne di carri armati che si muovevano su Kyiv era lunga sessanta chilometri. La città era assediata, chiusa in una morsa mortale. Klitschko ha fatto di tutto perché in città non mancassero, per quanto possibile, l’acqua, il gas, la luce, il collegamento internet. Ovviamente durante l’assedio è stata dura: sirene continue, esplosioni, ogni attimo di vita poteva essere ultimo. Moltissimi servizi sono stati limitati, dagli ospedali ai negozi. Ma la capitale è stata stoica: apparentemente tranquilla, ma molto, molto arrabbiata. Ora si torna a vivere, molti esercizi sono stati riaperti. Però sono rimasti molti strascichi, anche nel vissuto. All’inizio della guerra si cercava di ragionare razionalmente. Si pensava che i russi avrebbero colpito soltanto le aree delle città dove ci sono obiettivi militari, sedi politiche, depositi di armi, ecc. Invece si è scoperto che colpiscono all’impazzata abitazioni e infrastrutture. Attraverso i telefoni rubati, dove ricevono gli ordini direttamente dai loro capi militari, e quelli dal presidente in persona, sono state raccolte testimonianze preziose. Dobbiamo anche considerare che la capitale ha una forte difesa antiaerea, quella che hanno poche altre città. È insopportabile vedere come vengono uccisi i civili nelle città indifese. Mariupol’, città di Maria, rimarrà per sempre una ferita aperta nell’anima di tutti noi. Sta anche cambiando il concetto di sicurezza. Il sindaco di Leopoli, Andrij Sadovyj, dice che le nuove case verranno costruite con rifugi e con una stanza blindata in ogni appartamento. Insomma, saranno adottate strategie analoghe a quelle adottate in Israele. Non possiamo spostare geograficamente l’Ucraina dalla Russia, ma il muro divisorio politico, militare e culturale sarà molto più alto e sicuro. Non l’abbiamo voluto noi. Stanno accadendo delle cose importanti anche rispetto alla Chiesa ortodossa ucraina... Nel 2019 il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo II, conferendo alla Chiesa ucraina l’autocefalia, ha compiuto un grande passo. Nel 1686 la Chiesa ucraina era stata strappata con violenza ed inganno dal suo spazio confessionale canonico, il Patriarcato di Costantinopoli. Ora anche da questo punto di vista ci troviamo di fronte a grandi trasformazioni. Fino allo scoppio della guerra, il passaggio dalle chiese del Patriarcato di Mosca alla Chiesa autocefala ucraina era stato rallentato rispetto al periodo della presidenza di Poroshenko, convinto fautore dell’autocefalia. La posizione ignobile del Patriarcato di Mosca che ha fomentato e “benedetto” la guerra, ha prodotto una sorta di accelerazione. I fedeli lasciano in massa questa chiesa; in diverse città è addirittura bandita. Certamente dopo la guerra la situazione sarà regolarizzata. Ufficialmente, credo, la chiesa del Patriarcato di Mosca rimarrà, ma le sue posizioni in Ucraina saranno sempre più deboli. Insomma, sono in corso tanti cambiamenti. Va detto che già durante la Rivoluzione arancione, e poi con l’Euromajdan, era accaduto che le varie chiese dell’Ucraina, quindi cattolici, greco-cattolici, ortodossi, ebrei, buddisti, musulmani, si radunassero tutte insieme in preghiera. L’unico assente è stato sempre il Patriarcato di Mosca. Ora il capo di questa Chiesa, il metropolita Onufrij, fa ogni tanto qualche gesto “patriottico”, ma è troppo tardi per rimediare alla crisi di questa chiesa che è colpevole di aver seminato tanto odio nei confronti degli ucraini. Un chiaro segno dei mutamenti in corso è il fatto che le due chiese principali dell’Ucraina, quella ortodossa del Patriarcato di Costantinopoli, e quella greco-cattolica, in comunione con la Chiesa di Roma, hanno due guide spirituali, rispettivamente il metropolita Epifanij e il metropouna città 6 “L’Occidente non intende litigare con l’orso russo per quattro ceceni”. “Quattro ceceni” sono ora 120 mila morti in pochi mesi Putin ha fatto per l’ucrainizzazione quello che non sono riusciti a fare tutti i dirigenti ucraini in trent’anni Soldatessa rifugiata nell’acciaieria Azovstal cosa sta succedendo

una città 7 lita Svjatoslav, due persone giovani, istruite, di altissima cultura, dotate di una mentalità strategica e onestà intellettuale. Insomma, per quel che riguarda la lingua, la cultura, la chiesa, possiamo dire che in pochi mesi Putin ha fatto per la loro ucrainizzazione quello che non sono riusciti a fare tutti i dirigenti ucraini in trent’anni dell’Indipendenza! Dicevi che oggi è in ballo la ridefinizione dei confini orientali dell’Europa. È così, ma tale ridefinizione non può prescindere da una rifondazione dell’idea d’Europa, civiltà che si basa su precisi valori, sulla libertà, sui diritti civili, sulla inviolabile sovranità dei popoli. Quindi si tratta di confini politici, ma anche culturali e morali. Quando poi parliamo di valori, intendiamo anche precise responsabilità correlate a questi valori. Io credo fortemente nel progetto europeo. Senza questa Europa, spesso paradossalmente quasi inconsapevole dei suoi valori, tante cose perdono senso nella civiltà di oggi: l’Europa è riuscita a costruire un modello di vita unico e nobile. Il modello che oggi l’Ucraina sta difendendo. Nel corso di questa guerra abbiamo registrato la debolezza di tante istituzioni. Troppo spesso Onu, Osce, addirittura la Croce Rossa sono sembrate quasi inutili. L’incapacità dell’Onu di gestire le crisi, limitandosi a esprimere l’immancabile “profonda preoccupazione” è diventata proverbiale. Oppure ricordiamo la storia del Memorandum di Budapest. Un altro prezzo salato che ora paga l’Ucraina. Fino al 1994 l’Ucraina è stata la terza potenza nucleare al mondo; in seguito, sotto la pressione dell’Occidente, ha rinunciato al suo arsenale atomico. Contestualmente Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia con quel Memorandum si sono impegnate a difendere l’integrità territoriale dell’Ucraina. Il Memorandum è stato poi sottoscritto da Francia e Cina. Adesso la Russia lancia sull’Ucraina i missili sottratti all’Ucraina e minaccia di distruggere l’Occidente con le armi atomiche che quest’ultimo le ha consegnato. Insomma, un Memorandum così non è altro che carta straccia! Resta il fatto che l’Ucraina risulta forse l’unico paese al mondo ad aver rinunciato volontariamente alle armi atomiche. E l’ha fatto senza la retorica pseudopacifista che sentiamo oggi così spesso in Italia. Per poi essere accusata di “neonazismo” da parte della Russia In questi mesi l’Ucraina ha vissuto qualcosa di fatale: la consapevolezza di poter ti chiamano “neonazista” quelli che usano come simbolo della guerra la lettera Z, una mezza svastica Dimitri Kozatsky

una città 8 scomparire. Il mondo si è rovesciato: ti chiamano “neonazista” quelli che usano come simbolo la lettera Z, una mezza svastica. Quella mezza svastica che certi comunisti italiani provano pure a usare come simbolo. Direi che in fondo è appropriato data la storica corrispondenza tra il nazismo e il comunismo. Se penso alla storia della mia famiglia... In effetti, ogni tappa della vita della nostra famiglia è stata segnata da irruzioni violente dei due sistemi. La mia nonna polacca è morta ad Auschwitz, con il figlio, fratello di mio padre. L’infanzia di mia madre è trascorsa sotto le bombe naziste. Mio nonno ucraino è stato arrestato più volte, ha passato tanti anni nel Gulag staliniano ed è uscito quando io ero già nata… Quello era anche l’anno dell’insurrezione di Budapest. Mia madre per decenni non ha potuto pubblicare libri, era proibito pronunciare anche il suo nome. Mentre era incinta di mio fratello, ha protestato contro l’invasione di Praga rischiando l’arresto. Io ho finito il mio dottorato durante Chernobyl. Mia figlia è nata mentre c’era il golpe a Mosca. All’epoca crollava definitivamente l’Unione Sovietica e la mia speranza era che perlomeno lei potesse vivere libera dai due totalitarismi... Oggi sono qui a Kyiv con mia madre, che ha scritto la sua prima poesia in trincea, e non è una metafora. Era una bambina quando, con un ramo secco, scriveva una poesia sul muro della trincea durante l’occupazione nazista. Oggi, a più di novant’anni, scrive i suoi libri al computer. Ma di nuovo sotto le bombe. Oggi non c’è nessuna trincea e nessun rifugio. Per principio. È una questione di libertà: è la scelta della dignità di fronte a forze più grandi di noi. In fondo, che armi abbiamo? Nessuna, però la dignità è qualcosa che nessuno ci può togliere. E questo è un fatto personale, individuale, ma anche culturale, qualcosa che questa nostra Ucraina ha costruito pezzo per pezzo, secolo per secolo, nella continua resistenza, nella continua voglia di esserci. Timothy Snyder ha definito questi luoghi “terre di sangue”, le più insanguinate del pianeta nel periodo interbellico. Sempre Snyder in un recente articolo sul “New York Times”, (“We should say it. Russia is fascist” 19/05/2022), ha affermato che solo la vittoria dell’Ucraina potrà salvare il mondo democratico da una lunga stagione di nuovo fascismo. La nostra è la forza dei deboli, diceva Václav Havel, quella con cui resisteremo fino all’ultimo, per difendere noi, ma anche quell’Europa che amiamo. Uno spazio in pericolo, che mai come oggi va difeso. Cohn-Bendit e altri hanno firmato un appello sollecitando la costruzione di un’unione politica preliminare a una futura piena adesione dell’Ucraina all’Unione europea, così da non ripetere l’errore commesso con la Bosnia. Le procedure per l’entrata nell’Unione sono lunghe e difficili. L’Ucraina è in parte pronta all’integrazione, ma nel contempo deve correggere diverse storture, a cominciare dal problema della corruzione, tipico fenomeno postsovietico, anche se, diciamoci la verità, chi ne è esente? Detto questo, l’Ucraina sarà capace di rispondere in maniera forte e coerente a questi impulsi e saprà adeguarsi alle regole di costruzione democratica. Perché l’Ucraina è una società aperta, istruita, dialogante e fortemente motivata, capace di collaborare su larga scala per superare le discrasie tra l’Europa occidentale e quella orientale. L’Europa occidentale spesso sembra aver dimenticato il processo plurisecolare di costruzione dell’Europa unita. Un processo che è costato vite, guerre, rivoluzioni, tantissimi sacrifici. L’Ucraina ha sempre partecipato a questi processi, in diversa misura, spesso all’insaputa dell’Europa stessa. Oggi in Italia si dice perfino che l’Ucraina sarebbe stata trascinata nella guerra addirittura dagli Stati Uniti, e quindi questa non sarebbe una “nostra” guerra, italiana, europea. Invece no, questa è una guerra europea! Ricordiamo la data del 12 maggio. Diversi politici russi hanno dichiarato che la posizione della Russia circa l’entrata dell’Ucraina nell’Ue è cambiata e ora corrisponde a quella relativa alla Nato, cioè negativa. È questa verità che toglie argomenti a chi cerca di giustificare l’aggressione militare di Putin con l’allargamento della Nato. Sarebbe difficile definire l’Ue un “blocco aggressivo”. Eppure è proprio l’integrazione dell’Ucraina nell’Ue che rappresenta un vero incubo per la Russia. Perché significherebbe la costruzione di un ultimo e definitivo confine tra la Russia e l’Europa, un’irrimediabile deriva della Russia verso lo spazio euroasiatico, quindi una competizione con l’Occidente persa in partenza. E non solo perché il Pil degli Usa è dieci volte più alto di quello della Russia, ma perché nessun paese dell’Est europeo ha mai voluto rimanere con la Russia, tranne la Bielorussia, la cui nascente società civile è stata brutalmente soffocata da Lukashenko. Per questo io resto dell’idea che una vittoria ucraina sarebbe una vittoria per l’Europa tutta. Non solo, avere l’Ucraina al proprio interno significherebbe per l’Europa avere un muro protettivo sicurissimo del mondo democratico. Quindi non una vittoria facile della democrazia come avrebbe voluto Fukuyama. Questo sogno della democrazia che si diffonde trionfante per il mondo è stato smentito dai fatti. La guerra della Russia contro l’Ucraina lascia la percezione dolorosa della democrazia come un mondo molto più vulnerabile e fragile del previsto. Un mondo però capace di riflettere, reagire, modernizzarsi. Il bagaglio storico e culturale, le risorse umane ed economiche dell’Ucraina integrata in Europa sarebbero un valido supporto a questa sua capacità di trovare sempre varie fonti per la rigenerazione e la nuova vitalità. (a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin) cosa sta succedendo l’Europa occidentale sembra aver dimenticato il processo che ha portato alla costruzione dell’Europa unita UNA CITTA’ Redazione: Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (direttore), Giuseppe Ramina (direttore responsabile). Collaboratori: Isabella Albanese, Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Oscar Bandini, Luca Baranelli, Michele Battini, Amalia Brandi Campagna, Dario Becci, Antonio Becchi, Alfonso Berardinelli, Sergio Bevilacqua, Guia Biscàro, Stephen Eric Bronner, Thomas Casadei, Flavio Casetti, Alessandro Cavalli, Giada Ceri, Luciana Ceri, Francesco Ciafaloni, Michele Colafato, Luciano Coluccia, Francesca De Carolis, Carlo De Maria, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Fausto Fabbri, Roberto Fasoli, Adriana Ferracin, Enzo Ferrara, Bettina Foa, Vicky Franzinetti, Andrea Furlanetto, Iacopo Gardelli, Wlodek Goldkorn, Belona Greenwood, Joan Haim, Massimo Livi Bacci, Giovanni Maragno, Emanuele Maspoli, Lisa Massetti, Franco Melandri, Annibale Osti, Cristina Palozzi, Cesare Panizza, Irfanka Pasagic, Andrea Pase, Lorenzo Paveggio, Edi Rabini, Alberto Saibene, Ilaria Maria Sala, Massimo Saviotti, Sulamit Schneider, Massimo Tirelli, Fabrizio Tonello, Alessandra Zendron. In copertina: foto di Oles Navrotsky. A pp. 7, 11 e 15, foto di Dimitri Kozatsky, giovane soldato e fotografo di Azov, che ha diffuso le sue foto chiedendo che venissero fatte girare. Hanno collaborato: Pietro Adamo, Taras Bilous, Bartolo Guariglio, Matteo Lo Presti, Luigi Marinelli, Cesare Pianciola, Massimo Teodori. Proprietà ed editore: Una Città società cooperativa. Cda: Rosanna Ambrogetti, Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Enrica Casanova, Francesco Ciafaloni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti, Massimo Tirelli. Questo numero è stato chiuso il 24 maggio 2022.

una città 9 Antonella Salomoni insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università della Calabria e Storia della Shoah e dei genocidi presso il Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà, Università di Bologna. È attualmente impegnata nella ricerca “Political cultures in the transition from Communism to ‘illiberal’ democracies. The cases of Russia, Ukraine and Poland”. Ha pubblicato, tra gli altri, Le ceneri di Babij Jar. L’eccidio degli ebrei di Kiev, Il Mulino, 2019. L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Bologna, Il Mulino, 2007. Vorremmo ci aiutassi a capire quale è stata l’evoluzione del regime di Putin negli ultimi vent’anni. Premetto che lo scoppio del conflitto mi ha colto di sorpresa: per quanto se ne parlasse da tempo, le modalità e l’intensità sono state causa di grande disorientamento. Anche per questo sto cercando di ritrovare un filo di coerenza con l’oggetto dei miei studi. Attualmente sono coinvolta in un progetto di ricerca sulle cosiddette “democrazie illiberali”, con particolare attenzione ai casi di Russia, Ucraina e Polonia. Negli ultimi due anni, abbiamo concentrato la nostra attenzione sul processo di de-democratizzazione che è in corso in Russia da tempo, senza forse renderci conto della contrapposizione che si andava creando tra un paese, l’Ucraina, che con grande fatica è andato verso la democrazia (uso qui il termine democrazia in chiave storica, molto ampia); una transizione complessa, difficile, con molti ostacoli e passi indietro, però decisa, e dall’altro lato invece un paese come la Russia che ha intrapreso il cammino opposto. Una contrapposizione che si è esacerbata al punto da far scoppiare un conflitto armato. Ora, che questo fosse nell’ordine delle cose non so dirlo. Certo è che nel piccolo gruppo di amici e colleghi che si occupano di questi temi il disorientamento è stato abbastanza comune, così come è comune la sensazione di essere di fronte a qualcosa di nuovo, Il sistema putiniano, per come si è configurato negli ultimi vent’anni, ha assunto forme inedite, per cui bisogna rifuggire da facili analogie. Io ad esempio stento ad accettare l’idea che si tratti di un sistema di carattere neoimperiale, o imperiale. Sono convinta che siamo proprio di fronte a qualcosa di nuovo. Allora qui introdurrei subito la questione della “democrazia sovrana”. Cosa si intende per “democrazia sovrana”? Di democrazia sovrana in Russia si è iniziato a parlare a metà degli anni Duemila, prospettando contestualmente un nuovo sistema politico e un nuovo modello statuale. L’idea era quella di costruire un sistema democratico (per quanto paradossale oggi possa sembrare), richiamandosi quindi a quella forma di governo avendo però in mente una democrazia propria, quindi non di imitazione del modello occidentale, ma fondata sul retaggio, sull’eredità della Russia. Questa insistenza sul passato e sul valore del proprio stato è a mio avviso il principale filo conduttore per capire come si è evoluto questo regime. Qualcuno parla di democrazia autocratica. Io non so come si possa definirla, lo dico con grande franchezza, certo è un modello nuovo che si richiama molto alla storia. Non è un caso che lo stesso presidente Putin più volte insista sulla storia, scriva saggi storici. I suoi discorsi non vanno quindi presi sottogamba. Così come andava presa sul serio a suo tempo la nozione di democrazia sovrana, dove si prefigura un nuovo modello di stato che ha molti aspetti di conservazione, autoritarismo, ma soprattutto pone con grande violenza il problema della sovranità. La difesa della sovranità è diventata il punto centrale di tutta l’azione politica, che si tratti di politica estera o interna. Con un’accentuazione sempre più radicale di quelli che sono gli elementi di carattere autoritario. Forse questo è il termine che più si presta a definire la società e il sistema politico putiniano oggi. La categoria della sovranità deriva probabilmente dal grande senso di umiliazione di fronte alla deflagrazione dell’Unione sovietica. La mortificazione, il risentimento sono diventati elementi cruciali delle relazioni internazionali e delle politiche estere, non soltanto nel caso della Russia. Nel momento in cui Putin arriva al potere, il tema della sovranità, e anche di uno stato forte è una reazione al problema della perdita di centralità, del senso di potenza dello stato. C’è un testo di Putin che io continuo a ritenere un punto di riferimento. Si tratta di un suo intervento del 2005. Apro una parentesi: se dovessi datare il momento in cui c’è un’inversione rispetto al percorso della transizione, lo collocherei dalla metà degli anni Duemila. Lì si apre una strada che provoca una serie di consequenzialità. Bene, in questo famoso discorso, Putin si rifà alla fine dell’Unione sovietica come alla “più grande catastrofe geopolitica del secolo”. Non molti, però, hanno prestato attenzione a quello che Putin dice dopo, in particolare a quello che lui definisce “il dramma dei compatrioti”. Qui il tema della sovranità diventa propedeutico alla tutela dei compatrioti, che significa non solo sostenere, aiutare, ma anche riunire quelle decine di milioni di concittadini che con la fine dell’Unione sovietica si sono trovati al di fuori del territorio russo. Devo ammettere che quando Putin nel 2005 pronuncia queste parole, io non le capisco immediatamente. Oggi, a rileggere quella frase con una buona dose di filologia, si capisce come il dramma fosse proprio quel processo di disintegrazione che aveva posto al di fuori dei confini del cosa sta succedendo la fine dell’Unione sovietica come la “più grande catastrofe geopolitica del secolo” LA DEMOCRAZIA SOVRANA La frustrazione della fine dell’impero sovietico e l’involuzione in una democrazia basata sulla sovranità e sulla “civiltà russa“, con forti accenti reazionari e conseguenti epurazioni nella scuola, nel mondo della cultura e della ricerca; la “tutela dei compatrioti”, cioè di coloro rimasti esclusi nella disintegrazione dell’impero; le nuove regole della cittadinanza; la prima volta nella storia russa di un attacco a Lenin. Intervista ad Antonella Salomoni.

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