Una città n. 283

pre un prodotto delle necessità sociali e delle circostanze ambientali che rovesciano libertà apparenti e qualità caratteriali in un destino determinato soprattutto dal denaro, dal potere, dalla collocazione di classe. L’eccellente estetica del film e il giudizio che Bellocchio ne dà restano quasi in secondo piano: sono il presupposto necessario alla scelta di analizzarlo in un saggio così ampio e accurato da risultare uno dei migliori che Bellocchio abbia scritto. Di osservazioni stilistiche ce ne sono molte, a confermare l’unicità del genio di Kubrick nella declinante arte cinematografica di fine Novecento. Ma arte e stile servono anzitutto a illuminare verità sociali e storiche. Centrale è comunque un’osservazione: ciò di cui infine è vittima Redmond Barry è l’efficienza del sistema di potere elaborato già nel Settecento dalla classe dirigente inglese, “all’avanguardia nell’edificazione del capitalismo e che nell’Ottocento raggiungerà l’egemonia mondiale”. Un tale sistema di potere era di per sé così forte da non avere neppure bisogno di individui di valore: “Un gentiluomo con molte migliaia di sterline di rendita poteva anche essere un perfetto idiota, comportarsi da cafone, scialacquare e gozzovigliare, dato che egli era già comunque classe dominante: chi invece aspirava a diventarlo non poteva permetterselo”. Qui la lucidità pessimistica di Bellocchio coincide con quella di Kubrick, ed è in entrambi alla base del loro stile satirico. Per descrivere nel modo più efficace la realtà del potere non c’è metodo più sicuro di quello che mostra quanta poca virtù ci voglia per comandare e vincere quando si è collocati socialmente in alto. Un sistema sociale di potere mostra di assolvere bene la sua funzione quando il suo funzionamento raggiunge un tale automatismo da potersi servire utilmente anche di perfetti imbecilli, purché ubbidienti alle regole imposte e giudiziosamente a loro agio nell’esercizio del ruolo previsto. A volte, anzi spesso, l’inefficienza e l’incapacità di esercitare sulla propria vita un sufficiente autocontrollo è un segno di naturale riluttanza, se non di istintivo rifiuto di adeguarsi all’ordine sociale stabilito. Anche nella tendenza al fallimento e all’isolamento, o nella diffidenza per il successo, si può esprimere un’inconsapevole protesta contro l’idea della vita che il sistema sociale impone e diffonde. Il saggio su Kubrick, uscito nel 1977 su “Quaderni piacentini”, venne incluso nel volume L’astuzia delle passioni pubblicato nel 1995, che si concludeva con “Down and Out” dedicato a Orwell; ma è ricomparso come testo conclusivo anche nel recente Un seme di umanità pubblicato nel 2020, che contiene anche, di nuovo, il saggio su Orwell. Questi ritorni e queste collocazioni privilegiate in due diversi libri segnalano la centralità che per Bellocchio hanno i due autori. Un film come Barry Lyndon non piacque alla sinistra degli anni Settanta, che lo trovava poco “rivoluzionario”. Anche da un punto di vista formale. Orwell poi ha avuto con la sinistra di ogni tipo un rapporto ancora più difficile, sia nel corso della sua vita che in seguito. Il fatto che siano famosi e citati soprattutto un’allegoria politica come La fattoria degli animali e 1984, l’utopia negativa più celebre del Ventesimo secolo, non significa affatto che Orwell sia stato capito e accettato dalla cultura di sinistra a cui si rivolgeva. I suoi libri migliori, le autobiografie saggistiche Omaggio alla Catalogna, Senza un soldo a Parigi e a Londra, La strada di Wigan Pier e gli scritti raccolti con il titolo Nel ventre della balena, sono trascurati o ignorati: C’è da noi un diffuso pregiudizio contro i libri che non appartengono a un genere definito. Il lettore e il critico esigono il romanzo e, nella saggistica, il libro a tema e di sicura appartenenza a una precisa disciplina (storia, filosofia, economia, critica letteraria, ecc.). La mescolanza dei generi, gli ibridi, le zone di confine sono altamente sospette. Le raccolte, poi, siano racconti o saggi, articoli o documenti, sono evitate a priori come merce scadente, di seconda mano, avanzi, scampoli, minestre riscaldate... (in Un seme di umanità, Quodlibet, 2020, p. 153) Bellocchio sottolinea qui che il vero Orwell è andato e continua ad andare di traverso sia ai letterati e ai professori che ai politici di destra e di sinistra: un socialista critico delle organizzazioni socialiste e comuniste, uno scrittore che usa l’autobiografia per riflettere e la saggistica per ricavare idee dalle proprie esperienze personali. Bellocchio parte dal più abusato metodo con cui si è giudicato Orwell in quanto autore della Fattoria degli animali (una parabola dello stalinismo) e 1984 (un futuro mondiale apocalittico dominato da totalitarismi in lotta fra loro). Per liberarsi di Orwell, per neutralizzare e liquidare le sue esperienze e le sue opere, si sono usati diversi argomenti, ma sempre gli stessi: a) ritrarlo come un individuo onesto ma caratterialmente deformato da traumi giovanili, da un pessimismo congenito e da una solitudine dovuta allo sradicamento sociale; b) misurare se le sue previsioni politiche si sono o no realizzate alla perfezione; c) confrontarlo come scrittore con narratori del livello di Joyce, Forster, Lawrence e Virginia Woolf, tutti letterariamente superiori e, loro sì, davvero geniali. E così, il gioco è fatto. Orwell non era altro che un giornalista e un romanziere di scarso valore. Inoltre, dice Bellocchio, “la critica marxista ha fatto largo ricorso ai soliti luoghi comuni dello sradicamento, dell’assenza di legami con la comunità, con le masse, dell’individualismo piccoloborghese, eccetera”, trascurando così “il dato fondamentale che nel nostro tempo l’esilio, l’abbandono, la solitudine rappresentano la condizione normale della stragrande maggioranza degli uomini, delle masse (...) hai un ben volerti legare alla comunità, quando la comunità non esiste più”. Dovrebbe essere noto che da tempo la sociologia ha constatato che fuori del posto di lavoro le “masse” diventano sempre più “folla” e, come è stato detto in un famoso libro di David Riesman, “folla solitaria”. La società novecentesca nasce dalla dissoluzione dei legami “comunitari” e la caratteristica fondamentale della vita nei grandi agglomerati urbani è la solitudine individuale annegata nella anonimia della folla. Quanto alla realizzazione o meno delle sue buie profezie politiche, Orwell stesso precisò: “Io non credo che il genere di società da me descritta si realizzerà necessariamente (...) ma credo che qualcosa di molto simile potrebbe realizzarsi”. Durante la guerra civile di Spagna aveva sperimentato di persona la prassi delle formazioni combattenti comuniste legate a Mosca nei confronti degli antifranchisti non stalinisti, e a partire dai loro metodi Orwell immaginò che tipo di società e di stato (menzogne, diffamazioni, persecuzioni) prevedevano e programmavano. Cito il saggio di Bellocchio su Orwell perché è il più eloquente nel rivelare, molto più che i limiti di Orwell, i limiti e le miserie della sinistra politica in tutte le sue varianti, una città 36 lettere, rubriche, interventi

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