Una città n. 283

una città 35 lettere, rubriche, interventi Critico scrittore, cioè narratore e critico di quella vita che la società ci spinge o costringe a vivere, sempre in regime di libertà limitata e condizionata, Piergiorgio Bellocchio ci ha lasciato una serie di libri che per forma e contenuto, per qualità stilistica e passione morale ne fanno uno dei nostri autori più lucidi e originali di fine Novecento. Non ha scritto romanzi, benché avrebbe potuto scrivere il migliore romanzo sociale italiano che negli ultimi decenni ci è mancato. Simile in questo a scrittori che hanno dato il meglio di sé in una saggistica autobiografica, anche Bellocchio non ha scritto romanzi perché moltissimi ne aveva letti e sapeva bene che cos’è un romanzo, che cosa è già avvenuto nella tradizione di questo fondamentale genere letterario moderno. Grande lettore, il suo genere letterario più naturale era quello diaristico. Tutto ciò che Bellocchio ha scritto può essere letto come un diario ininterrotto che prende di volta in volta la forma della recensione letteraria, della nota a margine di un qualunque testo o fatto di cronaca, di intervento giornalistico, di racconto critico, di saggio o aforisma satirico. Fondatore di due riviste tra loro diversissime come “Quaderni piacentini” (1962-1983) e “Diario” (1985-1993), per Bellocchio scrivere era appunto riempire quaderni e tenere un diario. Mentre nella seconda metà del Novecento il genere romanzo scivolava velocemente verso una inesorabile decadenza, che ne ha impoverito fino all’esaurimento materia narrabile e capacità narrativa, nei suoi quaderni e diari Bellocchio sembrava tornare alle origini del romanzo, ai suoi materiali da costruzione, fatti di appunti, promemoria, frammenti narrativi, aneddoti e osservazioni dal vivo e dal vero, citazioni e documenti. Mentre nei “Quaderni piacentini” fu con il passare degli anni sempre più un direttore-coordinatore che scrive poco e si relega ai margini, lasciando spazio a un ampio, benché selezionato, gruppo di collaboratori, nella sua successiva rivista “Diario” lo scrittore Bellocchio viene in primo piano. I temi sociali e politici non sono più oggetto di studio specializzato, ma di osservazione personale e di scrittura letteraria. Per rintracciare una continuità fra le due riviste bisogna risalire ai primissimi numeri di “Quaderni piacentini”, per esempio a uno scritto come quello dedicato nel 1962 al suicidio di Marilyn Monroe: Marilyn era una diva piuttosto che un’attrice. Qualcosa di meno, di più...; qualcosa di essenzialmente diverso. Nessun’arte o spettacolo più del cinema (...) comprime la personalità dei propri autori, dai registi agli attori (...). Diceva Fitzgerald, l’idolo letterario degli anni Venti, morto solo e in miseria, distrutto dall’alcol, che nei suoi racconti “c’era una piccola goccia di qualcosa -non di sangue, non di pianto, non del mio seme, ma di più intimamente mio-, era l’extra che avevo”. Ciò che rendeva unici e indimenticabili molti momenti di Marilyn era che, oltre i personaggi di maniera cui era costretta e che intrepretava male (una riprova della sua autenticità), ci trasmetteva qualcosa di intimo, “sangue”, “pianto”, “seme”... Era come toccare qualcosa di vivo, di nudo. (“Quaderni piacentini”, ottobre 1962, in L’astuzia delle passioni, Rizzoli, 1995, pp. 3-5) Quello che colpisce in queste righe è quel tanto di vitale fisicità, di indefinibile ma sensibile dato di singolarità che a volte neppure i meccanismi sociali più potentemente coercitivi riescono a cancellare in un individuo: un quid irriducibile che può manifestarsi, rivelarsi in certi momenti in cui il controllo che esercita il mondo produttivo del cinema e l’autocontrollo professionale della recitazione si lasciano sfuggire. Quando questo avviene è “come toccare qualcosa di vivo, di nudo”. La passione per il romanzo si prolunga in Bellocchio nella sua passione per il cinema e le sue narrazioni. Nel migliore dei suoi scritti sul cinema, quello dedicato a Barry Lyndon di Kubrick, forse il capolavoro del regista, tratto dall’omonimo romanzo di Thackeray, il film viene usato da Bellocchio per approfondire ciò che più gli interessa, cioè l’analisi del rapporto fra individuo e società, vita e struttura di classe, carattere, denaro e destino: Protagoniste del film di Kubrick sono le leggi economiche, la struttura sociale, le barriere di classe. Il giovane Redmond Barry ama una cugina, che lo ricambierebbe se le risorse di lui non si limitassero alla gioventù e a un ottimo aspetto. Barry non ha un penny e la famiglia di lei è piena di debiti. S’impone quindi la cessione della ragazza (col pieno consenso di lei) a un capitano dell’esercito, stagionato e vigliacco ma ben provvisto a denari. Per affermare il suo diritto sulla ragazza, Barry sfida il capitano, crede di colpirlo a morte e deve fuggire per evitare l’arresto. (...) Viene quasi subito derubato di armi, cavallo e dei pochi denari (...), e non gli resta che arruolarsi. (...) Ben presto scopre che la condizione del soldato equivale a quella di uno schiavo e la realtà della guerra è la morte. (...) Liberatosi da questa servitù, si mette in società con un giocatore di professione. Ma anche questo è un lavoro da schiavo: non basta barare senza farsi scoprire; per ottenere il pagamento delle somme vinte bisogna spesso battersi in duello. Il successo sembra infine raggiunto (l’affrancamento dalla necessità) quando Barry sposa Lady Lyndon, una ricchissima vedova dalla quale ha anche un figlio. Ma erede del titolo e del patrimonio è il figlio di primo letto, Lord Bullington, che odia e disprezza (anche per ragioni di classe) il patrigno Barry. (...) Per vivere all’altezza del suo rango e nel vano tentativo di procurarsi un titolo nobiliare e assicurare a sé e al figlio l’indipendenza economica, Barry dà fondo al patrimonio della moglie. Alla rovina economica si accompagna il bando sociale; gli muore il figlio ancora bambino in un incidente di cui è in parte responsabile; per il dolore si abbrutisce nell’alcol; Bullington, erede Lyndon, sfida e mutila in duello Barry e lo sbatte fuori di casa, assegnandogli una pensione a patto che non si faccia più vedere. Ho citato così ampiamente questo riassunto sia perché Kubrick e questo suo film sono ai primi posti nelle preferenze di Bellocchio; sia perché nei suoi scritti critici la riesposizione interpretativa delle trame ha un ruolo primario nell’illustrare il tema per lui centrale: che cosa di fatto accade nella concatenazione implacabile di cause e di effetti in cui si realizza il destino sociale dei personaggi. La vita è semBellocchio critico della vita sociale di Alfonso Berardinelli

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==