Una città n. 283

una città 32 in memoria che fu per me la stesura della tesi. Tutto perché ebbi la dabbenaggine di fargli leggere quello che scrivevo. Era uno studio, evidentemente derivato dalle passeggiate col babbo, sulla prima esplosione del macabro e sul perché la gente d’improvviso avesse sentito il bisogno di rappresentare cosa capita del corpo dopo morto, su quale cambiamento di mentalità fosse sotteso a questo. La facevo per metà con Roncaglia e per l’altra metà con uno storico dell’arte, morto da poco, vecchissimo, Geza De Francovich, e però entrambi avevano tantissimo da fare e quindi mi seguivano poco. Avendo il babbo in casa mi sembrava assurdo non parlarne con lui e poi sarebbe stato anche impossibile fare qualcosa senza che lui sovraitendesse. Lo ricordo come fosse adesso: mio padre nello studio a fare le sue cose e io tremebonda che mi avvicinavo con quelle paginette in mano. Il babbo le leggeva, prima le correggeva, poi le accartocciava e le buttava nel cestino. Questo era il babbo in famiglia. Poi c’era anche un’altra faccia, quella che mostrava agli altri. La tremenda severità che aveva verso di me spariva completamente nel rapporto con studenti e collaboratori che lo ricordano affettuosissimo, presentissimo. Li seguiva, li incoraggiava. Naturalmente senza mai derogare dai suoi principi, però era molto positivo. Evidentemente con loro non aveva paura di essere parziale. I suoi allievi lo ricordano con moltissimo affetto. D’altra parte non c’è dubbio che quel suo rigore morale sia stata una lezione molto importante. Rigore nello studio, innanzitutto: non accontentarsi mai delle cose fatte pressapoco, andare sempre in fondo. Finché non aveva capito una cosa lui continuava ad arrovellarcisi. Durante la guerra eravamo andati a Solto dov’era la casa dei miei nonni materni, sul lago d’Iseo. Allora i miei nonni avevano molti campi. Negli anni della guerra mio padre continuò a studiare ma nel frattempo (per dire come fosse una personalità complessa) esprimeva anche una forte inventività nell’adattarsi, per cui, per esempio, facendo tesoro delle nozioni di chimica che aveva imparato al liceo, era riuscito a fabbricare il solfato di rame e lo faceva per tutta la collina. Ricordo che c’era questo deposito di solfato di rame dove bastava immergere le chiavi per tirarle su bellissime, ramate, lucide. Aveva anche fabbricato dei burattini bellissimi, quelli dove ci si infila dentro la mano, e con la mia mamma e con altre persone sfollate faceva delle commedie per tutti i bambini. C’era un grande fondaco con dei mucchi di castagne dove noi bambini stavamo seduti mentre guardavamo i burattini. Mia mamma cuciva i vestiti e mio padre aveva conciato una pelle bianca di coniglio per il re. Aveva imparato anche a conciare, andava a prendere le pelli dal macellaio, le conciava e mia madre ne faceva delle borse. Poi faceva il sapone, insomma faceva tante cose, e aveva un rapporto molto intenso con la gente del luogo. Per esempio era diventato bravissimo a stimare i boschi; lui andava davanti a un bosco e sapeva dire quanto valeva tagliato e poiché era molto onesto la sua valutazione era ritenuta molto preziosa. Solto era un paese che per molti aspetti era rimasto totalmente medioevale anche nella mentalità della gente e mio padre era considerato un “buonuomo”, una specie di giudice di pace capace di comporre le liti, valutare i boschi, un’autorità riconosciuta dai contadini. Mio padre fino ad allora, aveva 26 anni, si era occupato soprattutto di storia del Rinascimento, con particolare attenzione alla storia di Brescia. Credo che proprio quei lunghi anni passati a Solto, insieme a quei contadini poverissimi per via di un’economia mezzadrile tremenda, gli abbiano permesso di capire un altro tipo di uomini, le loro idee, le loro aspettative, la loro religiosità. Credo che proprio quell’intensa frequentazione l’abbia portato ad approfondire i suoi studi sul medioevo. Vorrei sottolineare la sua attenzione, precoce e insolita a quel tempo, per le immagini. Quando stavamo a Solto i nonni mi avevano regalato una lambretta e siccome lui non guidava e non avevamo la macchina, lo portavo in giro e visitavamo tutte le “santelle”, così si dice in dialetto, che sono quelle piccole costruzioni con le immagini. Lì ce sono moltissime perché c’era stata a lungo la peste e perché quei luoghi erano stati ripetutamente attraversati da eserciti. Era frequentissimo che le immagini fossero macabre e riguardassero la morte, la peste. Proprio in quel periodo mio padre si era messo a studiare “Il trionfo della morte” di Clusone, un grandissimo affresco, una specie di antologia dei temi macabri. Così, per situarlo anche in un contesto storico, in una trama di immagini, aveva iniziato a visitare tutte queste chiese e santelle sparse per le montagne. Quindi molto precocemente, perché siamo prima degli anni Sessanta, in lui si era già manifestata una fortissima attenzione alle immagini, del tutto insolita per quel tempo. Ho visto fra i pochi libri rimasti che da giovanissimo si era comprato L’autunno del Medioevo di Huizinga, un libro molto discusso ma estremamente bello, in cui per la prima volta le immagini venivano riconosciute come fonti di pari dignità rispetto allo scritto. Ha sempre avuto questa attitudine alle immagini che evidentemente, ma a livello del tutto inconscio, io devo aver ereditato. Per tanto tempo non ho mai pensato che la mia attenzione alle immagini dipendesse da quelle gite in lambretta col babbo e invece... Lo studio sul trionfo della morte di Clusone è molto impegnativo. C’è questo trionfo della morte calcato sul giudizio universale, c’è la morte sovrana, con gli aiutanti che dovrebbero essere degli angeli e invece sono degli scheletri (oltretutto aggiornati perché non tirano più con le frecce ma con lo schioppo); poi c’è chi invoca la morte e chi invece si dispera (sembrano essere gli eletti e i dannati che respingono questo trionfo); e poi ci sono i cartigli che spiegano e, ancora sotto, c’è una danza macabra con questa alternanza di scheletri e vivi che prendono in giro i morti e li trascinano nella danza. Io ricordo il babbo arrampicato con una scala di fortuna per cercare di capire i particolari e leggere le scritte. Fu uno studio anche pioneristico. Credo che mio padre per molti lati sia stato molto innovatore e forse addirittura troppo in anticipo rispetto al suo tempo, infatti alcuni suoi libri sono stati capiti molto tempo dopo. Per esempio, nel suo libro più bello, Arnaldo da Brescia, lui esaminò tutte le fonti che parlano di Arnaldo da Brescia, visto che di lui non è arrivato niente direttamente, dimostrando che ogni testimone è importante non già per quello che dice ma per quello che è; ognuno, cioè, alla fine è testimone di se stesso. Così Arnaldo è ricostruito attraverso quello che dicono i testimoni, ma ogni testimone è prima indagato per quello che è, per i condizionamenti che aveva, perché ha detto una cosa, o perché non l’ha detta. A un certo punto anche i silenzi diventano degli elementi costruttivi. Questo era nuovo come metodo e c’è voluto molto tempo perché fosse capito. E ancora oggi, devo dire, è più apprezzato all’estero, per esempio in Francia, che non in Italia. Penso che debba passare del tempo perché si ricordi il babbo. È stato una personalità molto forte e per certi versi il suo ricordo è ancora ingombrante. Essendo stato, il mio, un rapporto di grande ammirazione ma anche molto

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