Una città n. 283

una città 31 in memoria Da “Una città” n. 78 - giugno 1999. Di mio padre ho avuto una grandissima soggezione, anche intellettuale. Basti dire che quando facevo l’università arrivai al punto di andare a informarmi per diventare una commessa della Upim, perché non pensavo di riuscire a laurearmi. Mio padre ha sempre avuto paura di viziarmi e alla fine questo ha avuto su di me degli effetti distorti. Alcune cose ancora gliele rimprovero. Per esempio, quando avevo 13 anni mi ammalai di tubercolosi e, pur avendo trascorso l’anno sempre a letto, riuscii a portare a termine la scuola esattamente come gli altri ragazzi. E senza prendere lezioni private. Mi dovetti arrangiare per conto mio, perché non era concepibile né che prendessi una lezione privata né, tantomeno, che per qualche ragione perdessi l’anno. Questo per spiegare l’estremo rigore di mio padre. Lui pensava che anche nel parlare si dovesse essere sempre molto corretti, mai parlare pressapoco, e così, quando a tavola ci piaceva usare le parole orecchiate per caso a scuola, mio padre diceva sempre: “Ma questo cosa vuole dire?”, “Cosa intendi dire?”. Così non c’era pranzo che non finisse con l’ammonticchiarsi del dizionario enciclopedico sul tavolo perché a ogni poco ero spedita a cercare la parola e a spiegarla, anche con fortissime ribellioni da parte mia. E c’erano scontri, lacrime e mia mamma che, giustamente, si lamentava di non riuscire mai a finire un pranzo in pace. Devo dire, però, che l’abitudine a controllare subito il significato delle parole evidentemente mi è entrata dentro e anzi mi sono accorta di averla passata anche a mio figlio Andrea, ma senza che ricordi di averglielo mai detto. Se noi stiamo parlando e ci chiediamo da dove venga quella tal parola, lui prende e va a guardare. È proprio vero: le cose si ripetono e si trasmettono innanzitutto con il modo di fare. Credo che l’estremo rigore di mio padre derivasse dalla vita estremamente difficile che aveva dovuto affrontare da ragazzo. Era figlio unico di madre vedova; mio nonno era morto all’età di 25 anni durante la Prima guerra mondiale. Così lui e la sua mamma erano vissuti nella povertà più nera insieme a una zia che aveva un piccolissimo impiego nei tram di Brescia. Infatti lui mostrò sempre molta gratitudine per la mamma e la zia, sia perché gli avevano riservato sempre le cose migliori da mangiare e poi perché non avevano preteso che andasse a lavorare. Mio padre frequentava allora l’oratorio della pace a Brescia, dove c’era Montini, il quale aveva premuto molto perché continuasse a studiare. Infatti quando mio padre fece l’esame di maturità c’era in commissione il prof. Picotti, un medievista, che suggerì a mio padre di fare il concorso alla Normale, e fu sempre Montini ad andare a casa per perorare l’idea presso la madre. Mio padre era poi talmente bravo che durante le scuole diede sempre lezioni private. Credo che la mancanza del padre, e anche quell’estrema povertà, l’avessero segnato molto e che da lì sia venuta quell’impostazione di vita così rigorosa. Mio padre fin dall’infanzia aveva frequentato la famiglia di un compagno di scuola la cui sorella più piccola divenne poi sua moglie. Era una famiglia di notai, agiata, e forse è anche per la partecipazione a un ambiente dove si parlava sempre di ricorsi e atti, che crebbe in lui l’orrore per il denaro, per il possesso, forse anche al di là di quello che si sarebbe potuto accettare. Ci ha cresciuto così, nell’idea che oltre una minima soglia per stare bene, conviene non avere soldi perché altrimenti si comincia a pensare a farli fruttare e la mente, quindi, va da un’altra parte. Dopo aver lavorato per tanti anni all’Enciclopedia Treccani, un giorno prese e se ne andò sbattendo la porta proprio perché aveva visto allentarsi quel rigore, quell’impostazione scientifica che a lui sembrava assolutamente necessaria; vedeva che venivano fatte assunzioni non perfette, la qual cosa per lui era inconcepibile. Per dire, quando io feci la domanda per il perfezionamento alla Normale (e la potevo fare perché ormai mio padre non ci insegnava più) vinsi, ma mio padre mandò una specie di raccomandazione al contrario, dicendo di non prendermi, perché avevo scarsa salute. In realtà perché non voleva che sembrasse un favoritismo. Questo me lo raccontò Ragghianti. Poi alla fine per fortuna mi presero lo stesso. A volte diventava un handicap avere il babbo come padre, se mi fossi mossa con le mie gambe sarebbe stato meglio. Tant’è vero che avevo scelto di seguire una strada completamente diversa, quella di bibliotecaria, proprio per non essere prima di tutto la figlia di Arsenio Frugoni, di non avere delle facilitazioni che d’altra parte lui non avrebbe ammesso e poi per avere un terreno un po’ più mio nel quale muovermi. Ancor prima, ricordo la tragedia cessiva, quando si ripeté la stessa processione, e ormai ero più in confidenza, le chiesi di quale entità fosse quell’aiuto. Mi disse che al mese le andava via quasi l’equivalente di uno stipendio modesto. “Sì, i pochi diritti che ricevo”. Lì pensai che la padrona di quella casa fredda vivesse da francescana. Del resto il suo amore per Francesco e per santa Chiara era evidente. Sono tante le interviste fatte. In queste pagine riportiamo l’elenco. Ricordo bene quella sull’agricoltura di montagna, dove, volendo anche sfatare un’idea idilliaca della vita “di una volta”, ci raccontò della durezza della vita di quei contadini che al primo dolore si liberavano di tutti i denti, che erano un di più, dato che si mangiava polenta tutta la vita. E sempre riusciva a spiegare “freddamente” e insieme a far commuovere. Un giorno le chiesi se mi fosse sfuggita la recensione del suo libro su un’importante rivista torinese, perché non l’avevo vista. Mi disse che per quella rivista lei non esisteva e che le conventicole accademiche erano tremende. Lei era considerata una specie di “imbucata”. Me ne ricordai quando ci vedemmo dopo che aveva scoperto il volto nella nuvola di Giotto. In tanti secoli nessuno se n’era accorto. Mi disse che la notizia aveva fatto scalpore in tutto il mondo, quello degli addetti e quello francescano. Non lo dava a vedere ma di quella scoperta era sicuramente contenta. Si sarà chiesta se sarebbe stato soddisfatto suo padre di cui racconta in un’altra intervista di quando, in motoretta, la portava da piccola a vedere le immagini delle edicole sulle strade di montagna. La capacità di leggere le immagini forse era nata lì. Nell’intervista su suo padre, il grande Arsenio Frugoni, alla domanda su come avrebbe commentato il suo libro su Francesco, lei rispose: “Avrebbe detto che era una lungagnata, ma -aggiunse- credo che in cuor suo ne sarebbe stato orgoglioso”. Sì, ogni volta che si veniva via da quella casa si aveva la sensazione di essere “migliorati”, nella mente e nel cuore. gs Cosa intendi dire?

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