Prigionieri alleati in fuga e Resistenza (1943-1944)

di Ennio Bonali1

Le relazioni che mi hanno preceduto hanno focalizzato il passaggio della guerra in Appennino, con lo sfondamento della Linea gotica: l’ultima grande linea a difesa della valle padana. Una fase molto significativa dello scontro fra alleati e tedeschi che porterà alla liberazione della Toscana e di gran parte della Romagna dall’occupazione tedesca e dal regime fascista.

Quella del professor Luigi Lotti, Il passaggio della guerra nell’Appennino tosco-romagnolo, si è soffermata sullo scontro fra gli eserciti, dall’alta Toscana al litorale adriatico; quella di padre Ugo Fossa, Camaldoli nella grande bufera (1943-1944), sul coinvolgimento nella guerra e nella “resistenza civile” di quella comunità monastica - già impegnata con l’elaborazione del Codice di Camaldoli nella definizione dei principi della futura democrazia - che favorì concretamente le “parti deboli” trascinate in campo: le popolazioni civili e gli stessi partigiani braccati. I tempi sono quelli che vanno dalla primavera all’autunno 1944.

Per parte sua, il professor Marcello Flores, con la propria relazione, Dalla Resistenza alle resistenze: per una visione più matura della guerra di liberazione, ha analizzato il nascere e il dipanarsi delle componenti diversificate della Resistenza: da quella orientata a una guerra patriottica, rivolta contro l’occupante tedesco; alla guerra civile, aperta fra fascisti e antifascisti; alla guerra di classe, postulata fra proletari e capitalisti. Diversamente non avrebbe potuto essere, tanto vasta è l’articolazione dello scenario, che va dai monarchici ai comunisti, dai liberali ai cattolici, dai socialisti agli azionisti; tanto per restare alle più significative forze in campo che via via si manifestano e si sviluppano nel fronte antifascista. Nell’ultimo anno di guerra (il 1944-’45), mano a mano che le vicende incalzano inesorabilmente verso l’epilogo e allo spontaneismo iniziale si va sovrapponendo la volontà egemonica politico-militare dei singoli partiti e si passa dalle “bande” degli esordi agli “eserciti” di liberazione a ispirazione partitica, lo scenario del campo antifascista si fa progressivamente più articolato e difficile2.

Questa comunicazione prende le mosse dall’anno precedente: il 1943; la fase preparatoria e fondativa, peraltro, delle vicende di cui sopra.
 

Lo scenario politico-militare nazionale e romagnolo nell’estate 1943

Nell’estate ’43 lo scenario politico-militare registra in Italia un radicale cambiamento: il Re Vittorio Emanuele III, dopo che la guerra contro gli anglo-americani è sbarcata in Italia e successivamente all’atto di sfiducia a Mussolini da parte del Gran Consiglio del fascismo, il 25 luglio, depone il dittatore e instaura un Governo militare presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, che proclama la continuità della guerra e dell’alleanza italo-tedesca. Quarantacinque giorni dopo, l’8 settembre, il nuovo governo annuncia l’armistizio con gli Alleati e nel contempo fugge da Roma assieme ai Savoia, abbandonando le istituzioni e il paese allo sfacelo, nelle mani dei tedeschi. C’è chi ha definito quel tornante della storia come “la morte della Patria”.

Sin dalla fine degli anni Trenta, in clandestinità, si delinea in Romagna un movimento democratico: l’Unione dei Lavoratori Italiani (Uli) che raccoglie repubblicani, socialisti, azionisti, cattolici e senza partito, convinti che le pregiudiziali e le divisioni del prefascismo fra i vecchi partiti siano state corresponsabili dell’insorgere della dittatura; un agglomerato unitario potrebbe superarle. Dal 1° maggio ’43data emblematicaè pubblicato alla macchia il giornale La voce del popolo, a elaborare le linee dell’azione futura per la nuova Italia post-fascista. Un mese dopo uscirà il bollettino dell’analogo movimento Popolo e Libertà, tanto affine all’Uli da fondersi con essa nel Partito Italiano del Lavoro (Pil), ai primi del ’44. Dopo l’annuncio dell’armistizio, l’Uli propende per la realizzazione di una “zona franca” in Appennino, difesa con le armi, in cui concentrare le forze disposte a combattere in accordo e con l’aiuto degli Alleati, in autonomia dal governo del Re, ritenuto responsabile della ventennale dittatura fascista.

Il Partito Comunista Italiano (Pci) è in quella fase scarsamente organizzato in Romagna, anche a causa della detenzione sino al 25 luglio di non pochi dei suoi esponenti. Scrive al tempo Ilario Tabarri (Pietro Mauri), che sarà successivamente comandante dell’8a brigata “Garibaldi”: «Fatta eccezione per la bassa Romagna, il Partito non era molto conosciuto dalle masse…»3. Il Pci riconferma comunque la propria scelta autonoma della “forma partito” e, dopo una fase interlocutoria e d’incertezza, si orienta verso la guerriglia.

Dopo essere irresponsabilmente fuggito al sud assieme ai Savoia, dopo aver provocato il vuoto istituzionale e la diaspora delle forze armate, mettendosi sotto la protezione degli anglo-americani, Badoglio dichiara il 18 ottobre ’43 la “cobelligeranza” dell’Italia con gli alleati – una cobelligeranza sostanzialmente priva di un esercito – ribaltando le alleanze: da quella italo-tedesca, detta “ferrea” sino a poche settimane prima, allo schieramento opposto. Questa disastrosa sequela di eventi provoca in Romagna dissenso fra l’Uli, che avversa radicalmente la Monarchia, e il Pci.

L’Uli decide di non avviare azioni militari sino all’uscita di scena del governo Badoglio, per non legittimarlo. Costituirà due formazioni in Appennino nel giugno ’44, dopo le dimissioni del Maresciallo, la delega del potere regio da parte di Vittorio Emanuele al figlio Umberto come Luogotenente e la costituzione del Governo di Ivanoe Bonomi, espresso dalla coalizione antifascista nell’Italia liberata. Il Pci romagnolo, pur condividendo il giudizio negativo dell’Uli sul Governo e sulla Casa Savoia, conferma di voler procedere autonomamente con l’organizzazione armata.
 

I militari alleati prigionieri e il “corridoio umanitario”

Fra le clausole d’armistizio, Winston Churchill, primo ministro inglese, aveva posto all’Italia, quale condizione irrinunciabile, la protezione dei militari alleati qui prigionieri (circa 85.000) disseminati in una sessantina di campi di concentramento, oltre che in una ventina di ospedali militari4. Di questi uomini, circa la metà sono inglesi e la gran parte dei restanti dei dominions britannici. Lo sfacelo delle istituzioni fa venir meno l’impegno assunto dall’Italia: è un “tutti a casa” e i prigionieri sono alla mercé dei tedeschi, nel frattempo calati in forze sulla penisola.

Un ordine maldestro è allora fatto pervenire clandestinamente ai prigionieri dal generale Bernard Montgomery, comandante delle truppe britanniche sul fronte occidentale: «Rimanete fermi e tenetevi in forma». L’illusione è che la campagna d’Italia si sarebbe conclusa in breve tempo e non diciotto mesi dopo, come in effetti avvenne. Fortunatamente, quasi due terzi dei detenuti non obbedisce all’ordine e si dà alla fuga, mentre la disfatta delle istituzioni italiane perdura, prima che l’esercito tedesco prenda saldamente nelle mani la situazione e si possa realizzare il drammatico sbocco temuto da Churchill: la cattura e la strage da parte del Terzo Reich dei militari alleati detenuti. Circa 50.000 di questi vagano lungo la penisola alla metà di settembre ’43.
 

Una parte rilevante di quelli che intraprendono la fuga, scriverà lo storico inglese Roger Absalom,

[…] in risposta alle voci di sbarchi in forze su entrambe le coste della penisola, […] si diresse verso quelle che si supponeva sarebbero state le teste di sbarco; altri decisero, comprensibilmente, di aspettare e vedere come la situazione si sarebbe evoluta […] Sebbene la campagna fosse piena di profughi e vagabondi di ogni genere, i prigionieri fuggiti generalmente ricevettero il più caloroso benvenuto5.
 

Per quei militari che si trovano a nord del Po la fuga avviene prevalentemente verso la Svizzera. Si mobilita a loro soccorso l’organizzazione “Bacigalupi” del Partito d’Azione, a prezzo di perdite fra i propri membri. Dai “campi” ubicati a sud del Po, la direzione prevalente è verso l’Italia meridionale nella quale si trova la linea del fronte di guerra. Gli itinerari sono sostanzialmente tre: lungo i litorali tirrenico o adriatico, nell’aspettativa di convergere verso ipotetici luoghi di sbarco, oppure lungo l’impervio Appennino che, per la sua stessa configurazione e la scarsità di vie di accesso, rende difficile il controllo del territorio da parte dei tedeschi e dei fascisti della Repubblica Sociale.

Nell’area tosco-romagnola, l’alto Bidente e il Casentino sono un percorso privilegiato, nel quale si mobilitano generosamente i montanari e si realizza una “trafila democratica”, messa in atto dall’Uli, che richiama quella garibaldina di metà ottocento. Il litorale adriatico fra Cervia e Cattolica è a sua volta luogo di fuga e di accoglienza per i transfughi. Il tutto a rischio della vita di quelli che gli alleati definiscono “cooperanti” italiani. In effetti, così è. Nell’individuazione di quell’epopea convengono fonti inglesi, americane e tedesche, di cui si tratterà in seguito.
 

Generali inglesi sull’Appennino tosco-romagnolo

Caratterizza la vicenda tosco-romagnola il ruolo strategico che vi ha un folto gruppo di generali britannici, già detenuti nel Castello di Vincigliata, presso Fiesole6.

Il 10 settembre ’43, caduta la vigilanza italiana, fuggono da quel luogo di prigionia 11 generali e 15 alti ufficiali e soldati. Fra di loro tre “generalissimi”: Philip Neame, già comandante in capo nel bacino del Mediterraneo e governatore della Cirenaica; Richard O’Connor, già comandante della Western Desert Force, in nord Africa; Owen Tudor Boyd, già maresciallo dell’aria. Un vero e proprio Stato Maggiore britannico è tratto in salvo nel Casentino prima, nell’alta Romagna poi. Transitati per Arezzo, sono condotti al Monastero e quindi all’Eremo di Camaldoli dove godono della protezione dei religiosi e dell’accoglienza del Priore Generale, Pierdamiano Buffadini. Alcuni giorni dopo si scatena un rastrellamento tedesco per la loro cattura.

Queste vicende sono raccontate dalla comunicazione di padre Ugo Fossa, documentate nel Liber Chronicus del Monastero e dal Diario di guerra del padre superiore, Antonio Buffadini: Casentino in fiamme7.

Per metterli in salvo dai tedeschi in caccia, i generali sono accompagnati da padre Leone Checcacci, romagnolo d’origine, in un piccolo borgo del più alto Appennino: Seghettina, un pugno di case arroccate a monte di S. Sofia, nella Romagna toscana8. Qui sono accolti dai montanari, tra cui è personaggio emergente Lorenzo Rossi, in gioventù monaco a Camaldoli poi tornato allo stato laicale, e dai partecipanti alla “trafila”, fra cui l’avvocato santasofiese Torquato Nanni, Tonino Spazzoli, animatore dell’antifascismo romagnolo, Bruno Vailati, giovane ufficiale amico della famiglia Nanni, fra i principali protagonisti del salvataggio dei generali prima e agente dell’Oss (il Servizio segreto americano), paracadutato nell’Appennino e posto ai propri vertici dalla Resistenza armata poi. Vailati diverrà nel dopoguerra noto regista cinematografico, naturalista ed etnografo. Egli scriverà nel marzo 1946, sul quotidiano romano Il Tempo, una serie di articoli su vicende significative della Resistenza in Romagna:
 

A metà settembre 1943, per la vallata di Santa Sofia (Forlì), era un continuo passaggio di ufficiali e soldati inglesi, ex prigionieri liberati o evasi dopo l’armistizio dai campi di concentramento del Settentrione, in viaggio verso sud. Costoro venivano accompagnati dalle nostre guide fino al confine della Toscana, affidati ad altri che li inoltrassero, oppure venivano invitati a stabilirsi in montagna, sotto la protezione dei nostri reparti partigiani in formazione. Furono alcuni ufficiali inglesi i primi a parlarci dei loro generali che ritenevano fossero al riparo dalle nostre parti. Un’informazione più precisa la ottenne dal Priore dell’eremo camaldolese l’avvocato Torquato Nanni, noto socialista del posto, che mi riferì il suo colloquio col religioso: alcuni ufficiali Generali inglesi, fuggiti da un campo di concentramento presso Fiesole, si trovavano nella zona di Camaldoli. Era per noi la tanto sospirata occasione per dimostrare agli alleati la nostra decisione, la nostra lealtà, la nostra buona fede9.
 

Riguardo al comportamento verso gli alleati da parte degli uomini dell’Uli, che li assistevano, e dei montanari, Neame scriverà nelle proprie memorie: «Può sembrare che io dipinga troppo ottimisticamente gli italiani che ho incontrato, ma non bisogna dimenticare che essi erano tutti antifascisti filobritannici, volontari nel pericoloso compito di assistere i prigionieri di guerra fuggitivi; avevano una tendenza naturale all’avventura»10.

I salvataggi di militari alleati sono un rischio mortale per i “cooperanti”. Un esempio fra i tanti: Don Francesco Babbini, parroco meno che trentenne di Donicilio, nell’alto Savio, è imprigionato, quindi fucilato dai nazifascisti assieme ad altri patrioti sulla strada Cervese, oltre Carpinello, per aver soccorso il pilota sudafricano Hinton Brown, precipitato sull’Appennino. Nel cippo-ricordo sulla Cervese è scolpito il suo nome; la Medaglia d’oro al valore civile è conferita alla sua memoria. Il sacerdote già aveva soccorso il capitano George Rex Day e il sottotenente Bob Wilders, fuggiti dai “campi” e avviatisi poi al sud dopo il rastrellamento di Donicilio del 14 luglio ’44.

Neame, Arpinati e le strategie di guerra

A Seghettina, i generali inglesi incontrano fra gli altri Leandro Arpinati, romagnolo e gerarca fascista della prima ora, poi frondista e infine avversario di Mussolini sin dagli anni Trenta. Quest’ultimo lo convoca nei giorni di fine settembre ’43 alla Rocca delle Caminate per proporgli un ruolo di vertice nel costituendo Governo della Repubblica Sociale. Arpinati rifiuta e, condotto da Nanni a incontrare Neame, gli comunica segreti militari di valore strategico appresi dal duce:

- la fabbricazione in corso nell’area baltica da parte tedesca delle “bombe volanti V1”, a Peenemunde, poi bersagliata dall’aviazione inglese. Queste saranno lanciate su Londra solo nel giugno successivo, consentendo l’apprestamento sulla Manica di difese antiaeree di una certa efficacia; sbarramenti che non consentirono d’intercettare nel successivo settembre i “missili V2”, per le loro diverse caratteristiche balistiche;

- la disputa strategica fra i generali tedeschi Rommel e Kesselring. Il primo deciso a portare la linea difensiva germanica sulle Alpi; il secondo per la difesa palmo a palmo dell’Italia. Kesselring ha la meglio per l’appoggio di Hitler, “regalando” all’Italia diciotto mesi di guerra;

- le linee di fondo della strategia di guerra del Terzo Reich.

Neame scriverà nelle proprie memorie di aver puntualmente riferito quanto appreso da Arpinati a Churchill e al generale Alexander a fine dicembre ’43, al suo rientro alle linee alleate11.
 

Odissea per la libertà

L’itinerario di fuga dei tre “generalissimi”, dall’alto Bidente a Termoli, nel sud liberato, ha le caratteristiche di una vera e propria “odissea”, con l’appoggio decisivo e costante della “trafila” e sotto la minaccia continua di cattura da parte tedesca: da Campominacci12 al Convento della Verna, a Pesaro, a Cattolica, a Riccione, a Cesena, a Forlì, a Coccolia, a Cervia-Milano Marittima, a Riccione ancora, a Cingoli (Macerata), di nuovo a Riccione, a Cattolica. Dal 30 ottobre al 20 dicembre: a piedi, in bicicletta, in automobile, per imbarcarsi il 19 dicembre verso la libertà. Senza che da parte alleata si rispettino gli impegni precisi presi con la Resistenza romagnola per il recupero in mare degli alti ufficiali. è stata opera rischiosissima dei soli antifascisti romagnoli fra cui spiccano, prima, Bruno Vailati, Torquato Nanni, Tonino Spazzoli; poi, sulla riviera adriatica, Ettore Sovera, Carlo Saporetti, Ida Paganelli, Aldo Spallicci, Giusto Tolloy. Tanto per citare i più esposti13.
 

I “cooperanti”: credenziale per il dopoguerra italiano

Alla Conferenza di Pace di Parigi del 1946, il presidente del consiglio italiano, Alcide De Gasperi, evocherà l’epopea dei salvataggi di tanti ex prigionieri alleati, a dimostrazione della convinzione antifascista del popolo. Quella spontanea e rischiosa mobilitazione della élite resistenziale e di larghi strati popolari fu valutata a merito dell’Italia, sgravando le condizioni di pace ad essa riservate; condizioni che furono molto meno onerose di quelle imposte alla Germania.

Lo stesso Winston Churchill, scrisse in proposito nel dopoguerra:
 

Non fu certo fra le minori imprese della Resistenza italiana l’aiuto dato ai nostri prigionieri di guerra che l’armistizio aveva colto nei campi di concentramento dell’Italia settentrionale. Di quasi 85.000 uomini, con indosso uniformi palesemente riconoscibili e in complesso ignari della lingua e della geografia italiana, almeno 10.000, in gran parte soccorsi con abiti civili dalle popolazioni locali, furono condotti in salvo, grazie ai rischi corsi da membri della Resistenza italiana e dalla semplice gente di campagna14.
 

In risposta all’occupazione tedesca, data l’impossibilità di un’azione diretta a salvaguardia dei prigionieri, il 27 settembre ’43, il generale Dwight Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, ordina un «[…] immediato proclama via radio e tramite volantini, che ingiunga alle popolazioni di prestare loro assistenza in tutti i modi, di dirigerli verso sud e di fornire loro cibo e rifugio. Possono essere promesse ricompense in denaro per l’aiuto»15.

Un riscontro a quel proclama lo si ritrova nel forlivese. Lo documenta Antonio Mambelli il 26 novembre ’43, nel suo Diario degli avvenimenti in Forlì e Romagna dal 1939 al 1945, riproducendo un volantino diffuso clandestinamente16. Nel giugno ’44 sarà costituita dagli alleati la Allied Screening Commission (Asc) [Commissione Alleata di Verifica] allo scopo di favorire un ulteriore aiuto ai fuggiaschi da parte delle popolazioni e di rispettare l’impegno a rimborsare i “cooperanti”.
 

Due generali partigiani

In vista della partenza dall’alto Bidente, Neame ordina a due suoi uomini di continuare sul posto, nei mesi seguenti, operazioni importanti e delicate: coordinare il soccorso, l’ospitalità e la destinazione verso il sud liberato dei numerosi ex prigionieri alleati di passaggio e promuovere e sostenere la nascente organizzazione armata partigiana. A tale compito sono destinati i generali John Combe e Joseph Todhunter, che si dedicano prevalentemente fino al dicembre ’43 alla prima incombenza, quando il flusso dei militari tende a scemare, per orientare i propri sforzi sulla seconda sin dai primi giorni del gennaio del ’44. Il loro ruolo nella brigata partigiana romagnola in formazione è quello di veri e propri componenti – con i nomi di battaglia, rispettivamente, di Giovanni e Giuseppe – e anche di esperti consiglieri politico-militari di Libero, primo comandante partigiano17. La loro missione in Appennino si conclude il 13 marzo ’44, quando vengono condotti alle linee alleate, a Ortona, da due giovani forlivesi dell’Uli: Arturo Spazzoli e Giorgio Bazzocchi.

Come per il primo gruppo di generali, guidati a sud nel novembre-dicembre ’43, anche il loro viaggio sarà un’avventura, che inizierà il 13 marzo 1944 e terminerà circa due mesi dopo, il 10 maggio successivo.
 

La grande sorpresa degli anglo-americani

L’alleanza inattesa, il titolo del libro dello storico inglese Roger Absalom che tratta del rapporto fra il mondo contadino e i prigionieri alleati in fuga in Italia, fotografa icasticamente la grande sorpresa dello schieramento delle Nazioni Unite, così si definiva allora l’alleanza anti Asse, alla pronta mobilitazione degli italiani a sostegno dei transfughi dai campi di concentramento. Lo storico avanza un’interpretazione delle motivazioni che sottendono il fatto inatteso: «Sulla base delle limitate testimonianze di cui disponiamo, pare probabile che fossero in gioco tre principali moventi: quello economico, quello ideologico e quello psicologico»18. Ove si identifica il movente economico nella necessità per le famiglie contadine d’integrare con i militari stranieri la scarsa forza lavoro presente in campagna, a causa del richiamo alle armi degli uomini validi; quello ideologico come riflesso di un credo religioso o millenaristico o di una sensibilità pre-politica; quello psicologico come conseguenza di un rapporto subalterno rispetto a una cultura “altra”, più evoluta.

L’immersione totale di Combe e Todhunter per ben sei mesi nell’humus montanaro, anche facendosi poi garanti verso le autorità britanniche del reale svolgimento degli avvenimenti, fornisce elementi per un giudizio meditato.
 

Il nascente movimento partigiano e la “missione” inglese

All’indomani dell’armistizio, mentre l’Uli e le popolazioni montane tosco-romagnole si mobilitano per mettere in atto quella che Churchill definirà come una delle maggiori imprese della Resistenza e dei semplici contadini italiani (il salvataggio degli ex prigionieri alleati), il Partito comunista avvia l’organizzazione della lotta armata. Superata una fase d’incertezza, dopo l’arrivo in Romagna a metà ottobre ’43 di Antonio Carini (Orso o Orsi), membro del Comando generale delle Brigate Garibaldi delle quali, secondo Luigi Longo, è quinto in linea gerarchica, un primo esiguo gruppo di resistenti si raggruppa attorno a Salvatore Auria (Giulio), a monte di Galeata, alla Collinaccia, nell’aspettativa di un uomo che possa assumerne ufficialmente il comando.

A fine novembre, Riccardo Fedel (Libero Riccardi), un militare di idee comuniste, è comandato dal Comitato provinciale forlivese del Pci ad assumerne la guida per dar vita alla Brigata Garibaldi romagnola19.

Del processo di formazione e di azione della brigata danno un resoconto puntuale, al loro rientro nelle linee alleate, i generali inglesi Combe e Todhunter, impegnati sin da settembre a organizzare il “corridoio umanitario”, nel loro Rapporto sull’attività partigiana e sovversiva nell’Italia occupata dalla Germania, dal 10 settembre 1943 al 14 maggio 1944, reso alle massime autorità politiche e militari britanniche il 1° giugno 1944 e classificato “secret”20. Dopo un incontro diretto con Churchill, i due alti ufficiali stilano il Rapporto che dà in undici paragrafi un riscontro dettagliato degli accadimenti nell’Appennino tosco-romagnolo-marchigiano e dei possibili sviluppi politico-militari e costituirà la base di riferimento della futura azione strategica britannica rispetto al movimento partigiano presente nei territori italiani ancora occupati dai tedeschi. Eccone la scansione:
 

«1. Storia; 2. Area; 3. Entità numerica e tipologia degli uomini; 4. Organizzazione, amministrazione, finanze; 5. Armi ed equipaggiamento; 6. Attività; 7. Contromisure tedesche e fasciste; 8. Situazione politica; 9. Obiettivi e possibili sviluppi; 10. Ulteriori attività; 11. Indicazioni».
 

Riteniamo che l’articolato documento possa rappresentare un valido riferimento storiografico, per la neutralità della fonte, rispetto alle querelles che si svilupperanno in seguito e sino ad oggi sulle vicende resistenziali romagnole. Osservano i generali:
 

[…] sentimmo voci sul fatto che un’altra banda di partigiani si stava formando nell’area […] prendemmo contatto con il loro capo che si faceva chiamare Libero. Come tutti sanno, in questo tipo di lavori, non sono mai usati nomi veri. Quindi, il vice di Libero era conosciuto come Falco e i sottoscritti usavano il nome di Giovanni e Giuseppe […] Non visitammo il suo quartier generale fino al 6 gennaio 1944 e la nostra impressione è che le sue forze a quella data ammontassero a non più di 150 uomini, ma poco dopo aumentarono rapidamente, in particolare in conseguenza della chiamata alle armi delle classi del 1923-’24-’25 da parte dell’esercito repubblicano fascista […] Da gennaio a marzo siamo stati in stretto contatto con Libero ed è nostra opinione che le sue forze dovessero ammontare a 2.000 uomini alla metà di aprile. [i Generali, partiti per il sud il 13 marzo, quando scrissero il Rapporto, il 1° giugno, non erano a conoscenza del fatto che, alla vigilia del rastrellamento nazifascista dell’aprile che distrusse la brigata, gli uomini di Libero ammontassero a 1.000] […] Questo piano [il loro rientro alle linee alleate] fu discusso con Libero e si arrivò all’accordo che lui potesse inviare il suo commissario politico Mitro e due altri italiani, Dario e Mario, con noi (entrambi veterani del partito comunista) […] Libero voleva essere rappresentato al G.h.q. (General head quarter) e anche presso la missione russa in Italia21.
 

Sull’organizzazione, l’amministrazione e le finanze della brigata, gli inglesi scrivono:
 

[…] La banda di partigiani di Libero è agli ordini del Comitato di Liberazione di Forlì, del quale il Comitato di S. Sofia è una diramazione […] un servizio regolare di messaggeri (staffette) fu mantenuto fra i partigiani in Romagna e Santa Sofia due volte al giorno, giornalmente con Forlì, due alla settimana con Bologna, e settimanalmente con Milano e Torino. Da Milano era possibile passare messaggi e informazioni attraverso la frontiera della Svizzera, dove si prendeva contatto con un trasmettitore della “A” force in collegamento con Londra […] Trovammo che l’amministrazione fosse buona […] In dicembre Libero cominciò a riscuotere tutte le tasse del distretto per uso proprio [della banda] rilasciando ricevuta al contribuente. Nello stesso tempo diede ordine che tutti i prodotti alimentari che erano requisiti [dall’autorità fascista] per la [loro consegna] all’Amasso [sic; in italiano; recte; Ammasso] (magazzino locale del Governo) fossero consegnati a lui. Ciò incontrò una risposta favorevole da parte dei contadini, soprattutto dal momento che il prezzo pagato era del 10% superiore al prezzo dell’Amasso, e speciali sussidi furono istituiti per le famiglie numerose. Aspetto singolare e di un certo interesse nell’Italia oggi occupata [dai nazifascisti]: le ricevute – sia per le tasse, sia per i prodotti alimentari – rilasciate da Libero venivano accettate senza obiezioni dagli “uffici del Comune” [in italiano, Ndt]22.
 

La descrizione individua la brigata e la “missione” inglese come integrate e in contatto sistematico con i Cln locali e nazionali, nonché con i Comandi alleati di Londra. La straordinaria importanza delle “staffette”, sia per quanto riguarda la comunicazione, sia per gli approvvigionamenti, è da attribuire prevalentemente alla dedizione e al rischio assunto dalle donne nella Resistenza. Ne sono state fondamentali protagoniste. Il Rapporto descrive pure la convivenza della brigata con le stesse istituzioni del luogo, dando notizia della costituzione del primo territorio italiano ad amministrazione partigiana: il Dipartimento del Corniolo. Una “primizia” per quanto riguarda l’intera Italia.

Circa le armi e l’equipaggiamento se ne rileva scarsità ed eterogeneità, non ovviate dai lanci di rifornimenti alleati dell’aprile, mal riusciti a causa dell’attività tedesca. Pertanto, le armi in dotazione ai partigiani sono frutto dei raid nelle caserme dei Carabinieri e della Milizia, salvo una piccola quantità presa ai tedeschi23. Circa l’attività della formazione si annota che:
 

All’inizio l’attività di Libero era limitata al saccheggio di armi nelle caserme dei Carabinieri e della Milizia […] I Carabinieri erano solitamente avvertiti prima di venire attaccati ed era loro detto che se si fossero arresi con tutte le armi e gli equipaggiamenti non si sarebbe fatto loro alcun male […] In caso di resa, che quasi sempre avveniva, era loro offerta la scelta di unirsi a Libero o di tornare alle proprie case […] Ai militi fascisti, invece, non era dato alcun avvertimento essendo scontato che i fascisti andavano uccisi senza patteggiamento di sorta. Oltre ai raid nelle banche, alcune sporadiche operazioni venivano portate a termine sulla strada fra Bagno di Romagna e Santa Sofia: alcune piccole postazioni tedesche vennero attaccate e i loro occupanti uccisi […] Dal principio alla fine il nostro consiglio a Libero è stato che dovesse trattenere la sua mano per quanto potesse. Egli non ha né armi né munizioni per combattere una battaglia campale contro i tedeschi24.
 

Sulle contromisure tedesche e fasciste, Combe e Todhunter esprimono giudizi e previsioni che risulteranno puntualmente confermate nei mesi successivi, sottolineando una corretta visione prospettica.
 

Fin dalla fine del gennaio 1944 i tedeschi non avevano posto un attento interesse all’attività dei partigiani in Romagna, benché ci fosse un presidio fascista di 150 uomini a Santa Sofia. è nostra opinione che nessuna unità fascista, senza il supporto tedesco, sarà mai dell’idea di sferrare un attacco serio contro le forze partigiane in Italia, e che se i tedeschi volessero fare una qualche azione dovrebbero farla da soli. Alla fine di gennaio […] i tedeschi trattennero a Cesena un battaglione […] Con l’aiuto di guide locali si mossero a colonne nell’area […] in cui erano in parte dislocate le forze di Libero […] Fortunatamente, l’unità [partigiana] in questione si era spostata in un’altra area due giorni prima e […] non ci furono contatti fra le forze opposte. I prigionieri inglesi del distretto ebbero momenti difficili, ma soltanto due militari di truppa furono catturati dai tedeschi e consegnati ai Carabinieri del luogo che li rilasciarono la notte stessa25.
 

Sulla combattività delle milizie fasciste la stroncatura è radicale. Interessante è anche l’informazione data sul comportamento dei Carabinieri che, nella gran parte dei casi, rifiutano di obbedire alla Repubblica Sociale e ai tedeschi, mentre non pochi di loro entrano nelle formazioni partigiane, costituendo una componente fra le più efficienti dal punto di vista militare. Circa gli sviluppi in corso, annotano:
 

[…] i tedeschi nel mese di aprile avrebbero compiuto un ulteriore raid nella zona: raid il quale era atteso ancora prima che noi partissimo […] Se effettivamente il raid è avvenuto, i lanci di materiale – che erano stati concordati prima che noi lasciassimo Libero – sono entrambi compromessi26.
 

Effettivamente, il rastrellamento di cui i generali scrivono avviene nel lasso di tempo durante il quale è in corso il loro avventuroso viaggio verso il fronte di guerra, a sud, avendo il risultato di determinare la disfatta della brigata. Esatta è pure la loro previsione sugli esiti distruttivi del raid nazifascista in rapporto ai rifornimenti alleati. Invece, nel Rapporto non si dà segno di conoscere un fatto dirompente; a fine marzo ’44 Libero viene rimosso per far posto a un nuovo comandante: Ilario Tabarri (Pietro), già garibaldino in Spagna e comunista ortodosso. Ciò nella strategia globale di acquisizione delle formazioni alla linea del Pci, ribadita poi dalla “svolta di Salerno”.

Sorprendente è constatare che due alti ufficiali inglesi, rimasti prigionieri per oltre due anni, quindi tagliati fuori dal “sentire” degli italiani, sappiano cogliere e valutare correttamente la situazione politica del Paese, anche nella proiezione futura. Leggiamo:
 

La situazione politica nell’Italia occupata dai tedeschi è estremamente complessa, ma in teoria i partigiani della Romagna sono controllati dal Comitato di Liberazione di Forlì, sotto il controllo centrale del Comitato Nazionale di Liberazione di Milano. Essi chiamano se stessi, e Libero chiama se medesimo, comunisti, e hanno un gran daffare a cantare “Bandiera rossa” e a far mostra di “falce e martello” come simbolo ogni qual volta possibile. Tuttavia non sarebbe veritiero definire questa una formazione comunista, poiché vi sono reclutati uomini di ogni opinione e sfumatura politica, eccettuata quella fascista. Il vice di Libero, Falco, è figlio di un uomo molto ricco della zona di Ancona [recte; Mezzano di Ravenna] e non simpatizza affatto per le idee socialiste, né per quelle comuniste […] C’è senza dubbio all’interno del partito un nucleo, piuttosto modesto, di autentici comunisti sul modello russo, ma la grande maggioranza ha le stesse visioni di sinistra del partito conservatore in Inghilterra! Il nostro parere, dopo matura riflessione, è che non c’è da aspettarsi alcun pericolo del prevalere del comunismo, o di una guerra civile al termine del conflitto in corso, per aver armato queste cosiddette bande comuniste […] Riguardo al futuro, nord e centro Italia sono indubbiamente repubblicani e antimonarchici: per dirla con le parole di Libero, il Re e Badoglio non sarebbero in grado di mobilitare un gatto. Egli, comunque, con l’autorizzazione del Comitato di Forlì, ci ha detto che lui e i suoi uomini sono pronti a dare piena collaborazione e tutto l’aiuto possibile agli alleati, sia prima che dopo l’occupazione dell’Italia, anche qualora il Governo Badoglio rimanesse in carica, alla condizione di essere sotto controllo alleato e non italiano27.
 

Circa gli obiettivi e i possibili sviluppi, i generali affermano come fondamentale e realizzato il coordinamento delle brigate romagnola, marchigiana e toscana, sotto il comando di Libero; spazzando il campo da quelle voci postume, divulgate dallo stesso Pietro, che hanno raccontato e raccontano come una millanteria di Libero stesso l’accordo partigiano interregionale.

Sarebbe interessante ritrovare il progetto relativo al coordinamento fra le formazioni dell’Italia centrale che lo stesso Tabarri, nel proprio Rapporto generale, ha scritto di aver ricevuto in pianura e archiviato prima della rimozione di Libero e prima di assumere lui stesso il comando della brigata28. Tabarri afferma pure che il progetto aveva ricevuto l’approvazione di Orso, che per questo viene da lui pesantemente criticato. In quale archivio si troverà il piano, visto che quelli attentamente esplorati sinora hanno delusa l’attesa?

Scrivono i generali:
 

Nel febbraio 1944 ci giunse voce che c’erano altre bande di partigiani in Toscana, a ovest, e nell’area di Pesaro, a est. Noi spingemmo perché le bande in Toscana, Romagna e Pesaro potessero almeno coordinare le loro attività e, se possibile, elaborassero un piano d’azione combinato sotto un comando unificato. Ciò comportò un mucchio di trame politiche, ma alla fine si arrivò all’intesa che le tre bande, pur rimanendo entità separate e responsabili verso i rispettivi Comitati di Firenze, Forlì e Pesaro, avrebbero coordinato le attività sotto una autorità militare centrale indicata in Libero. Una formula questa che tacitava opinioni [politiche] conflittuali e gelosie. Ammesso che nel frattempo nulla sia accaduto a scombinare il piano d’azione concordato, 10.000 partigiani ora dovrebbero essere sotto il controllo di Libero in un’area che spazia da Firenze, a ovest, fino alla costa di Pesaro, a est29.
 

Quindi, Combe e Todhunter non hanno precisa conoscenza del fatto che un rastrellamento nazifascista aveva chiuso in una morsa e distrutto, quaranta giorni prima, la formazione romagnola e le unità partigiane dislocate nel vicino Casentino, massacrando oltre 400 persone fra partigiani e civili e mettendo a ferro e a fuoco interi borghi e paesi. Un’operazione di “pulizia” dai partigiani delle aree destinate alle fortificazioni della Linea Gotica e di terrorismo preventivo nei confronti delle popolazioni.

I due generali concludono il proprio Rapporto dando alle autorità politiche e militari britanniche le indicazioni maturate nella propria esperienza partigiana, circa le strategie da adottare in rapporto alle formazioni della Resistenza presenti nell’Italia occupata dai tedeschi. E che effettivamente saranno seguite.
 

Da quel che abbiamo visto, siamo convinti che le attività dei partigiani possano essere utilizzate con risultati eccellenti. Si è sostenuto che l’attività partigiana tutto sommato possa essere un di più, noi invece crediamo che con un’appropriata organizzazione e l’adeguato aiuto essa possa risultare vincente […]: le bande partigiane nell’Italia occupata dai tedeschi devono stare sotto il controllo diretto degli Alleati. Qualsiasi proposta [tesa a sostenere] che esse dovrebbero operare sotto il controllo del Governo Badoglio e del Re, non produrrà risultato alcuno. Per ottenere migliori risultati, le bande più grandi devono avere un ufficiale britannico nel loro interno […] È nostra esperienza che i leader partigiani siano preparati ad accettare consigli e persino ordini, quasi senza porre domande, da qualsiasi ufficiale britannico, e siano pronti a fidarsi di lui ciecamente dal momento in cui lo incontrano […] È essenziale che ci sia una comunicazione senza fili [radio ricetrasmittente] tra bande ribelli e G.h.q. [Comandi britannici]. Al momento ci sono un certo numero di apparecchi operanti sotto “A” Force e il S.o.e. [Servizi segreti britannici], ma salvo la possibile eccezione di Cingoli [nelle Marche], non abbiamo sentito parlare di apparecchi operanti direttamente coi partigiani […] pertanto suggeriamo in primo luogo che debbano essere ufficiali britannici a venire spediti tra i partigiani sotto il comando di Libero e nella zona di Cingoli […] Essi dovrebbero rivestire il grado di Maggiore o Luogotenente Colonnello, e dovrebbero essere accompagnati da un apparecchio senza fili con un operatore che potrebbe essere italiano […] Infine, siamo convinti che, se gli equipaggiamenti e gli aerei sono disponibili e se può essere concesso tempo sufficiente per l’organizzazione, i partigiani del Centro Italia potrebbero dare un notevole contributo alla causa alleata. Nella migliore delle ipotesi, essi saranno in grado di bloccare la ritirata tedesca attraverso gli Appennini. Nella peggiore, essi saranno in grado di renderla un’operazione estremamente rischiosa, lenta e difficile30.
 

A conclusione di sei mesi di permanenza nell’Appennino tosco-romagnolo, si chiude con questi ultimi giudizi e indicazioni il Rapporto dei due alti ufficiali, che era stato preceduto da un contatto diretto con Churchill. La larga citazione del documento mette un punto fermo sullo stato della Resistenza armata nella Romagna toscana all’inizio della primavera ’44.
 

Il Governo Badoglio, l’Urss e la “svolta di Salerno”

Quantunque alla Conferenza di Teheran del novembre ’43 fra le tre grandi potenze (Urss, Gran Bretagna e Stati Uniti) si fosse iniziato a delineare le rispettive “sfere d’influenza” che avrebbero caratterizzato l’Europa post bellica, in cui l’Italia sarebbe stata collocata nell’area “occidentale”, le parti in causa non rinunciano affatto a cercare di ritagliarsi propri ulteriori ruoli e influenze. Così, dopo la Conferenza di Bari di fine gennaio ’44 fra i partiti antifascisti, nella quale, in particolare, comunisti, socialisti e azionisti sottolineano con forza la propria avversione politica alla Casa Savoia e al governo Badoglio, la diplomazia badogliana cerca di rompere l’isolamento politico con un accordo diretto con l’Unione Sovietica. Renato Prunas, segretario generale degli Esteri, concorda con Andrej Vyshinsky, vice ministro agli Esteri sovietico e rappresentante di quel governo in Italia, il reciproco riconoscimento. Ciò, nonostante la riaffermata avversione di Palmiro Togliatti a Badoglio e al Re31. Pertanto, nella notte del 4 marzo ’44, Togliatti stesso è convocato da Stalin al Cremlino e, accettata la rinuncia del Pci all’abdicazione di Vittorio Emanuele III, si decide la partecipazione comunista al governo Badoglio, ribaltando la linea precedente ma accrescendo l’influenza sovietica e il ruolo del Pci in Italia. Del resto, che si stesse anticipando quella che sarebbe stata la “guerra fredda” fra oriente e occidente è confermato da un documento di Georgi Dimitrov, presidente del Comintern (Internazionale comunista), presentato nel precedente mese gennaio:
 

I comunisti [italiani] non possono rifiutarsi apertamente di collaborare con i comandi angloamericani nel condurre le azioni oltre la linea del fronte, ma devono ridurre questa collaborazione al minimo indispensabile e soprattutto adottare tutte le misure necessarie contro l’infiltrazione degli agenti dei servizi segreti angloamericani nel partito e nei suoi reparti clandestini32.
 

Sarebbe assai difficile immaginare un comportamento più divergente dalla “svolta” e dal dettato del Comintern di quello espresso sinteticamente a parole agli alleati e realizzato nei fatti da: «Il Re e Badoglio non sarebbero in grado di mobilitare un gatto».

Dopo la decisione assunta al Cremlino, Togliatti rientra in Italia e l’accordo del reciproco riconoscimento fra Urss e governo Badoglio è annunciato da Radio Mosca il successivo 14 marzo, aprendo una fase di aperto e profondo dissidio nello stesso Pci e fra questo e la sinistra antifascista. Mauro Scoccimarro, responsabile comunista per l’Italia liberata, afferma: «Questa politica la farete voi», all’unisono con i socialisti Nenni e Pertini33. Nel frattempo, il 1° marzo, la direzione del Pci per l’Italia occupata aveva dettato una direttiva per la costituzione del nucleo di partito in ogni unità combattente:
 

[…] qualora i responsabili di partito ritenessero che l’operato di un comandante o di un commissario comunisti non sia conforme alle direttive del partito e non faccia gli interessi dell’unità e non riuscissero con un’azione persuasiva presso questi compagni a farli mettere sulla buona via, essi devono segnalare la cosa agli organi di partito perché questi intervengano, se del caso, attraverso gli organi superiori militari a far cambiare l’orientamento di questi compagni o a destituirli dal posto occupato34.
 

è “l’autorizzazione a procedere” per la “messa in riga” dei capi partigiani della prima ora che non sottostanno all’allineamento. Scrive in proposito Santo Peli: «Di fianco a una linea “morbida” di accantonamento dei comandanti […], in caso di fallimento si attua la “linea rigida” che culmina nella rimozione o nell’eliminazione»35. Sono conosciuti i casi di Nicola Pankov, Nello Pini, Raffaele Menici, Angelo Del Bello, Angelo Prete, Onit Nass, Sandro Costantino, Dante Castellucci e del nostro Riccardo Fedel (Libero).
 

La rimozione di Libero e le false prove “postume”

Nella prima settimana del marzo ’44, dopo la cattura presso Meldola da parte delle SS italiane acquartierate alla Rocca delle Caminate, la tortura e l’uccisione di Antonio Carini (Orso) – in accordo con Libero e per questo pesantemente criticato post mortem da Tabarri – matura nell’ultima decade di quel mese la rimozione di Fedel e la designazione di Pietro a nuovo comandante della Brigata Garibaldi romagnola. Fortissimi sono i contrasti e le minacce di ribellione da parte dei comandanti di secondo livello a questo diktat del partito, tanto che un ammutinamento è evitato solo ed esclusivamente per la spontanea, formale accettazione da parte di Libero del proprio spostamento in Toscana, a organizzarvi in brigata gruppi sparsi.

Le più infamanti accuse rivolte da Tabarri a Fedel – contenute nel Rapporto generale inviato il 7 luglio all’ufficiale di collegamento con il Comando bolognese, oltre tre mesi dopo la rimozione – successivamente al rastrellamento nazifascista che distrugge la brigata, comandata da Tabarri stesso, saranno poi “pilotate” nella Gazzetta Ufficiale e divulgate a due anni di distanza: fra esse quelle di «ladro e spia dell’Ovra», la polizia segreta fascista.

Il ricorso della famiglia contro la pubblicazione di quelle accuse ebbe la seguente risposta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, investita del caso:
 

Con decisione del 28 gennaio 1948 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 55 del 5 marzo 1948) detta Commissione, in accoglimento del ricorso, «ordina la cancellazione del nome di Fedel Riccardo dall’elenco dei confidenti dell’Ovra, pubblicato nel supplemento alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 2 luglio 1946, n. 145».

Nella motivazione, senza mezzi termini, si afferma che: «Da tutti gli atti non risulta essere stato il Fedel assunto a confidente dell’Ovra e avere spiegato come tale attività informativa36.
 

Dopo il rastrellamento che distrugge la brigata, Libero viene richiamato in Romagna, dal Veneto dove era andato a “operare”: l’11 maggio ’44 gli è proposto da Arrigo Boldrini (Bulow), tramite la partigiana Zita, di ritornare nell’Appennino romagnolo a riorganizzare la brigata37. Al suo ritorno a Forlì è catturato e fucilato dalla 29a Gap forlivese.

La notizia è comunicata al Comando generale delle formazioni Garibaldi dal forlivese Sergio Flamigni, commissario politico della 29a.

L’eliminazione fisica di Libero, il primo e principale interlocutore dei due alti ufficiali britannici, è il motivo per il quale il generale John Combe, rientrato alle linee alleate e messo al comando della 2a brigata corazzata dell’8a armata che sfonda la Linea Gotica a fine settembre ’44, è tanto indignato da ordinare il disarmo della brigata partigiana prima della sua discesa in pianura. Forlì è l’unica città capoluogo della regione in cui non è consentita l’entrata in città di partigiani armati.
 

La verità sui fatti romagnoli nei ventotto faldoni di documenti del fondo di Aldo Cucchi

La prova definitiva di quanto accadde in Emilia-Romagna ci viene da ventotto faldoni di documenti e di rapporti partigiani contenuti nel fondo “Aldo Cucchi”, che riguardano la nostra regione, depositati dalla famiglia del comandante partigiano Cucchi, dopo la sua morte, presso l’archivio dell’Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza (Irsifar). Nel 2013, i documenti relativi alla Romagna sono stati individuati e divulgati in rete38.

Libero è incolpevole e viene fucilato quale “capro espiatorio” dell’insipienza del nuovo comando che l’ha estromesso e che porta la brigata al disastro; gravi errori che Libero denuncia, così come altri vice comandanti, e individua con precisione in un rapporto contenuto nel fondo39, nel quale è presente anche il carteggio fra Tabarri e la dirigenza del Pci romagnolo, nel quale si costruisce progressivamente la calunnia a danno di Fedel, con coperture politiche sino a livelli di vertice. Calunnia che persiste tuttora.La contrarietà di Libero alla collaborazione con il governo Badoglio, il suo persistere nello stretto rapporto con gli alleati, nonostante la linea del Comintern, la sua pervicacia su posizioni di “sinistra”, in antitesi con la scelta “moderata” del Pci, la contestazione argomentata delle responsabilità del nuovo comando nel disastro operato dal rastrellamento sono i veri motivi della sua condanna, della sua uccisione e della sua “demonizzazione”, che perdura da settant’anni.

Perché proprio Aldo Cucchi ha conservato le prove? Era stato comunista sin dagli anni Trenta, poi ufficiale medico nell’esercito, infine comandante della 7a Gap bolognese e commissario politico della Divisione partigiana emiliana, nonché dirigente nel Comando regionale partigiano (Cumer). In quelle vesti comandava la liberazione di Bologna e per questo è decorato di Medaglia d’oro al Valor Militare. Deputato comunista nella prima legislatura repubblicana, pubblica nel 1952 un libro critico sulla politica del Pci, che prende ispirazione da un suo viaggio in Urss e che propone per l’Italia l’unità socialista fra le sinistre. Dimessosi dal Pci, è successivamente espulso (come costumava a quei tempi) con accuse grottesche: «Pidocchio nella criniera di un purosangue», sintetizza Togliatti.

Evidentemente, Cucchi non distrugge i documenti per non essere complice di una falsificazione che peraltro è avvenuta per scelta del partito. Dopo la sua morte, la famiglia li pone a disposizione dell’Irsifar. Si apre così un nuovo orizzonte di ricerca, non solo sulla liberazione della Romagna, ma dell’intera regione.
 

Nuove ipotesi di ricerca

La storiografia romagnola si è dedicata soprattutto alla resistenza armata, in montagna nel forlivese, in pianura nel ravennate, mettendo sullo sfondo l’antecedente e la contemporanea lunga trama dell’antifascismo politico democratico che, in realtà, è il cuore del movimento locale e che si colloca soprattutto in pianura: partiti, movimenti, comitati di liberazione. Senza questi le formazioni partigiane non avrebbero potuto nascere, sopravvivere ed espandersi. Qui come altrove. Senza supporto politico e informativo, flussi di finanziamento, fornitura di armi e materiali, le brigate in Appennino, formate in gran parte da giovani che vi si rifugiano dopo il disfacimento dell’esercito o rifiutando la chiamata alle armi della Repubblica Sociale, non avrebbero avuto possibilità di insediamento e di sopravvivenza. Prova di questa osmosi “pianura-montagna” sta nel fatto che dalla montagna partono staffette quotidiane verso la pianura e viceversa, portando e ricevendo documenti “per e da” Forlì, Bologna, Milano; e da qui per la Svizzera, dove si incontravano le “missioni” alleate. Questo scrivono Combe e Todhunter.

La constatazione ci pone una domanda: perché questa massa informativa relativa all’8a Garibaldi non la si è ritrovata? Il responsabile della brigata per l’informazione, Luciano Marzocchi, ha scritto nel 1981: «I documenti riguardanti il periodo ottobre 1943-maggio 1944 vennero distrutti durante il drammatico rastrellamento dell’aprile 1944 allo scopo di sottrarli all’affannosa ricerca dei nazisti e dei fascisti»40. Poniamo pure che questa giustificazione sia vera e valida per quanto riguarda l’archivio della brigata; ma gli innumerevoli messaggi e documenti inviati quotidianamente ai diversi referenti di cui sopra dove sono finiti? Il “fondo Cucchi” è una prima e parziale risposta. E gli altri destinatari? È domanda che pare persino retorica.

Nonostante accurate ricerche, gli archivi canonici della Resistenza sono risultati sinora “puliti” o “ripuliti”. E poi, come mai l’eclissi dalla documentazione e dalla pubblicistica resistenziale di figure di prima grandezza come Antonio Carini (Orso), quinto nel Comando generale delle Garibaldi? O dello stesso Riccardo Fedel (Libero), comandante della più importante brigata dell’Italia centro settentrionale, come documentano ancora una volta i generali inglesi? A questo proposito, rilevanti sono gli studi condotti da Nicola e Giorgio Fedel41.

Infine, tornando al tema della ricerca storiografica sui partiti e movimenti antifascisti di area democratica – a parte l’ottimo saggio di Dino Mengozzi, del 1982, contenuto ne La Romagna e i generali inglesi, relativo all’Unione dei Lavoratori Italiani, importante al tempo, ma una meteora politica del dopoguerra – molto resta da ricercare su quell’area. Basti pensare all’archivio personale di Tina Gori, forlivese di area azionista, tutt’ora assolutamente intonso e in pericolo di dispersione.

In questo “fondo”, tanto per esemplificare, sono contenuti i suoi rapporti clandestini intrattenuti sin dagli anni Trenta con l’antifascismo nazionale e internazionale (i fratelli Rosselli, tanto per citare), con il fascismo frondista (Ettore Muti, negli anni ’40-’43), con i Servizi alleati (lo provano i rapporti segreti dell’Intelligence Service redatti da Giorgio Spini, giunto a Forlì con l’8a armata) e la pubblicistica alleata.

A integrazione del lavoro da più parti svolto per portare alla luce della conoscenza le drammatiche vicende della Resistenza in Romagna, è illuminante la recentissima Edizione critica del Rapporto Tabarri. Rapporto generale sull’attività militare in Romagna (dall’8 settembre 1943 al 15 maggio 1944), di Nicola Fedel e Rita Piccoli42. C'è tanto da rimboccarsi le maniche.

 

BIBLIOGRAFIA
 

 

1* Giornalista e saggista, membro della Società di Studi Romagnoli.

1 Cfr. Ennio Bonali, Oscar Bandini, Renato Lombardi, Popolazioni, alleati in fuga, movimento partigiano in Romagna (settembre 1943-aprile 1944), in Luigi Lotti (a cura di), La guerra in Romagna (1943-1945), Cesena, Quaderni di Studi Romagnoli (29°), 2014.

2 Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità della resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.

3 Rapporto generale del comandante dell’8a brigata Romagna, Pietro Mauri, sull’attività militare in Romagna fino al 15 maggio 1944, in Dino Mengozzi (a cura di), L’8a brigata Garibaldi nella Resistenza. Documenti 1943-1945 (volume primo); Catalogo dell’archivio (volume secondo), Milano, La Pietra, 1981, vol. I, p. 35.

4 In appendice, la dislocazione dei campi di prigionia in Italia (p. 79).

5 Roger Absalom, L’alleanza inattesa. Mondo contadino e prigionieri alleati in fuga in Italia (1943-1945), Bologna, Pendragon, 2011, p. 25.

6 Cfr. Ennio Bonali e Dino Mengozzi (a cura di), La Romagna e i generali inglesi (1943-1944), Milano, ed. Franco Angeli, 1982. In appendice l’immagine del castello di Vincigliata (p. 80).

7 Cfr. Antonio Buffadini, Casentino in fiamme (1943-1944), Stia (Ar), Edizioni Fruska, 2005. In appendice, il Monastero di Camaldoli (p. 80).

8 In appendice, l’immagine a Seghettina di montanari, militari alleati in fuga e uomini della trafila dell’Uli (p. 81). Le straordinarie immagini dell’epoca che documentano la vicenda sono state scattate da Torquato Nanni junior.

9 Bonali e Mengozzi (a cura di), cit., 1982, p. 194.

10 Ivi, p. 48-49.

11 Cfr. Philip Neame, Autobiografia di un soldato, in Bonali e Mengozzi (a cura di), 1982, p. 44;

12 Località non lontana da Seghettina.

13 In appendice, l’itinerario di fuga dei “generalissimi” (p. 82).

14 Winston Churchill, La campagna d’Italia, Milano, Mondadori, 1951, pp. 201-202.

15 Absalom, cit., 2011, p. 33.

16 Cfr. Message to members of the British and American forces in Italy. Formerly prisoners of war in Italian bands [Messaggio ai membri delle forze britanniche e americane in Italia. Ex prigionieri di guerra in mani italiane], in Dino Mengozzi (a cura di), Antonio Mambelli. Diario degli avvenimenti in Forlì e Romagna dal 1939 al 1945 (due voll.), Manduria – Bari – Roma, Pietro Laicata editore, 2003, vol. I, pp. 390-391.

17 Cfr. Natale Graziani, Appendice, in La prima resistenza armata in Romagna (autunno 1943-primavera 1944), Cesena, Studi Romagnoli, 2006, 2009, 2010. In appendice, Combe e Todhunter e Libero Riccardi (p. 83).

18 Roger Absalom, Per una storia di sopravvivenze. Contadini italiani e prigionieri evasi britannici, in «Italia contemporanea», settembre 1980, n. 140, p. 106.

19 Cfr. Archivio Istituto Storico della Resistenza – Ravenna: documento C.III o.i 06109.

20 Graziani, cit., 2010, Appendice, pp. 25-36.

21 Ivi, p. 26.

22 Ivi, pp. 27-28-29.

23 Ivi, p. 29.

24 Ivi, pp. 29-30.

25 Ivi, p. 30.

26 Ivi, p. 31.

27 Ivi, pp. 31-32.

28 Rapporto generale del comandante dell’8a brigata Romagna, Pietro Mauri […], in Dino Mengozzi (a cura di), L’8a brigata Garibaldi nella Resistenza. Documenti 1943-1945, cit., vol I, p. 58.

29 Graziani, cit., 2010, Appendice, pp. 32-33.

30 Ivi, pp. 34-35-36.

31 Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 62-70.

32 Ivi, p. 69.

33 Cfr. Giorgio Amendola, Lettere a Milano 1939-1945. Ricordi e documenti, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 300 e ss.

34 Istituto Gramsci: documento (IG 1131005461-462) datato 1° marzo 1944.

35 Santo Peli, “Vecchie bande e ‘nuovo esercito’. I contrasti fra partigiani nella ‘grande estate’ del ’44”, in La Resistenza difficile, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 32. Cfr. anche Luca Madrignani, Il caso Facio. Eroi e traditori della Resistenza, Bologna, il Mulino, 2014.

36 Graziani. cit., 2010, p. 294.

37 Cfr. Arrigo Boldrini, Diario di Bulow. Pagine di lotta partigiana 1943-1945, Milano, editrice Odradek, 2008.

a Roberta Mira e Simona Salustri, Partigiani, popolazione e guerra sull’Appennino. L’8 brigata Garibaldi Romagna, Cesena, il Ponte Vecchio, 2011, p. 87.

38 Cfr. Nicola Fedel e Rita Piccoli, www.lulu.com, 2013.

39 Irsifar, Fondo Cucchi, b. 5, Reg. 21, doc. 15, «Relazione» di Libero, dattiloscritto 4 cc., s.d., ma post 18 aprile e ante 26 maggio 1944, senza firma autografa ma dattilograf. in calce «Firmato Libero Riccardi».

40 Mengozzi (a cura di), cit., p. 13.

41 Centro Studi Ettore Lucini – Istituto per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea della Marca Trevigiana – Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea, Il caso Libero: Riccardo Fedel l’antifascista veneto fondatore e primo comandante della brigata Garibaldi “Romagna” ucciso da altri partigiani nel giugno 1944. Relazione introduttiva di Nicola e Giorgio Fedel, Padova, 20 novembre 2009 (Convegno).

4243 Nicola Fedel e Rita Piccoli, Edizione critica del Rapporto Tabarri. Rapporto generale sull’attività militare in Romagna (dall’8 settembre 1943 al 15 maggio 1944), Milano, Fondazione Riccardo Fedel – Comandante Libero, 2014.

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tratto da Camaldoli e la guerra in Appennino - Popolazioni, Alleati e Resistenza sulla Linea Gotica (1943-1945), atti della Giornata di studi nel 70° della Liberazione, Monastero di Camaldoli (ed. Una città, 2015)