Una città n. 282

una città 13 truppe mercenarie più o meno camuffate, si è introdotta nel Donbass, nelle regioni orientali dell’Ucraina, scatenando una guerra che, come ci hanno ricordato gli ucraini in queste settimane, durava ormai da otto anni. Una guerra a bassa intensità, ma sempre una guerra. Che dire? Pur con tutte le mie riserve rispetto alla Nato, a chi comanda la Nato, io resto pienamente convinto che noi occidentali nel dopoguerra ci siamo in fondo un po’ accomodati su questa idea che tanto c’erano gli americani che ci difendevano. Intendiamoci: una difesa tutt’altro che disinteressata. L’appartenenza alla Nato ha avuto un costo, delle conseguenze; pensiamo a Gladio, a certe trame che ci sono state e che hanno messo in seria discussione la nostra democrazia. Insomma, l’appartenenza alla Nato non è una cosa tutta rose e fiori. Detto questo, in una situazione di confronto che non è mai finito, perché poi negli anni Sessanta viene costruito il muro di Berlino, c’è il ’68 in Cecoslovacchia; ecco, in una situazione del genere, appartenere alla Nato dà delle garanzie, come del resto riconobbe anche Enrico Berlinguer in una famosa intervista al “Corriere della Sera” che fece molto scalpore; io allora militavo nel Pci e ricordo che si rischiarono scissioni… Quella sua frase -io mi sento più sicuro sotto i missili della Nato che non nel Patto di Varsavia- che era una verità quasi banale, per le tante persone che continuavano a credere che il comunismo e l’Unione sovietica fossero la stessa cosa rappresentò un grande scandalo. Putin, già prima dell’invasione, aveva detto: “Noi non ci fermeremo all’Ucraina”. Infatti, i paesi baltici e la Polonia sono spaventati. Ovviamente nel loro caso è veramente difficile che succeda qualcosa perché la Nato, essendo quello il confine, ha installato basi, ci sono missili… Certo, è anche un cane che si mangia la coda: la Russia sostiene che proprio la presenza di missili e basi costituisce un pericolo; al contempo le basi sono esattamente la garanzia per questi paesi che, una volta che si fosse eventualmente mangiata l’Ucraina, la Russia non si riprenda i paesi baltici, in particolare la Lettonia, dove la teoria romantica secondo la quale dove c’è uno che parla la mia lingua lì c’è il mio paese, che è una delle più grandi disgrazie dell’Europa, potrebbe scatenare nuovi disordini... Anche Milosevic lo diceva… È una delle teorie del romanticismo quella che lega la lingua alla nazionalità. Ora, siccome per molti paesi nell’Ottocento la nazione non c’era, basti pensare alla Polonia, si sviluppa la teoria per cui, anche in assenza di confini definiti, dove si parla quella lingua lì c’è la nazione. Questo, se da una parte può essere positivo, dall’altra introduce un elemento devastante. Anche Hitler rivendicava Danzica, e aveva pure ragione, perché Danzica è una città tedesca, c’era nata la mamma di Schopenhauer, per dire. Tuttavia, se si diffonde questa idea che dove si parla una lingua lì io posso avanzare delle pretese, per cui visto che in Transilvania si parla ungherese, non mi importa che ora si chiami Romania; o, ancora, visto che in Alto-Adige si parla tedesco... Insomma, questo introduce un elemento di instabilità terribile. Oggi Putin, da buon ultimo, ripropone questo criterio, per cui dove si parla russo è Russia. La Lettonia, per esempio, è un paese dove esiste una minoranza russofona molto consistente, ed essendo molto più consistente è anche più tartassata, perché i lettoni si ricordano cos’è stata l’Urss, e vogliono evitare che torni la Russia, per cui trattano effettivamente male questi russi, nel senso che la loro lingua Palinchak visto che in Transilvania si parla ungherese, non mi importa del fatto che ora si chiami Romania Kiev

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