Una città n. 282

può durare diverse settimane, il corpo inizia a consumare i propri grassi, e l’organismo s’indebolisce drasticamente. Nella terza fase, il corpo divora le sue proteine, cannibalizzando tessuti e muscoli. Infine, la pelle diventa sottile, gli occhi si dilatano, le gambe e il ventre si gonfiano, perché squilibri estremi inducono il corpo a trattenere l’acqua. Piccoli sforzi prostrano fino all’estenuazione. Lungo il percorso, possono affrettare la morte diversi tipi di malattie: scorbuto, kwashiorkor, marasma, polmonite, tifo, difterite, e una vasta gamma di infezioni e malattie della pelle causate direttamente o indirettamente dalla mancanza di cibo. - - - Alcuni, per parlare di quello che avvenne, hanno fatto ricorso a delle metafore. Tetjana Pavlycka, che viveva allora nella provincia di Kiev, ricordava che sua sorella Tamara “aveva una grande pancia gonfia, e il collo lungo e sottile come quello di un uccello. Le persone non sembravano persone, erano più simili a spettri affamati”. Un superstite raccontava che sua madre “sembrava un barattolo di vetro pieno di chiara acqua di fonte. Tutto il corpo che le si poteva vedere [...] era trasparente e pieno d’acqua, come un sacchetto di plastica”. Un altro ricordava il fratello sdraiato, “vivo ma completamente gonfio, il corpo luccicante come se fosse di vetro”. Un altro riferiva di come tutti si sentissero “intontiti”: “Tutto era come annebbiato. Avevamo terribili dolori alle gambe, come se qualcuno ci stesse strappando i tendini”. Un altro non riusciva a liberarsi dell’immagine di un bambino seduto, che dondolava il corpo “avanti e indietro, avanti e indietro”, recitando a mezza voce un unico, interminabile “cantico”: “Magiare, mangiare, mangiare”. Anche un militante proveniente dalla Russia, uni di quelli mandati in Ucraina ad aiutare nelle requisizioni, avrebbe ricordato i bambini: Tutti uguali: le teste come pesanti gusci, il collo magro come quello di una cicogna, ogni movimento delle ossa visibile sotto la pelle su braccia e gambe, la pelle stessa come una garza gialla tesa sui loro scheletri. E le facce di quei bambini erano vecchie, esauste, come se avessero già vissuto sulla terra per settant’anni. E i loro occhi, mio Dio!” - - - In una situazione del genere, le norme della morale comune non avevano più senso. Rubare ai vicini, cugini, fattorie collettive, sui posti di lavoro divenne una pratica estremamente diffusa. Tra coloro che soffrivano, il furto era ampiamente giustificato. Vicini rubavano a vicini i polli, dopodiché si difendevano in tutti i modi possibili. La gente chiudeva a chiave la porta di casa dall’esterno di giorno e dall’interno di notte. Come lamentò una lettera anonima inviata al comitato provinciale di Dnipropetrovs’k: “Non c’è alcuna garanzia che qualcuno non entri con la forza, si prenda l’ultimo cibo che vi resta e magari vi ammazzi. Dove chiedere aiuto? Gli uomini della milizia sono affamati e spaventati”. - - - Prima o dopo, la fame rese tutti apatici, incacapi di muoversi e di pensare. La gente stava seduta su panche nell’aia, sui bordi delle strade, a casa, e non faceva un passo. Villaggi prima pieni di vita si fecero silenziosi, ricordava Mykola Proskovcenko, che sopravvisse alla carestia nella provincia di Odessa. “C’era ovunque uno strano silenzio. Nessuno gridava, gemeva, si lamentava […]. Dappertutto c’era indifferenza: la gente era gonfia o completamente esausta. […]. Per i morti si sentiva addirittura una specie di invidia”. Nella primavera del 1933 Oleksandra Radcenko scrisse nel cuore della notte nel suo diario: “Sono già le tre del mattino, il che significa che oggi è il 27 aprile. Non dormo. I giorni scorsi sono stata in preda a una terribile apatia”. “Nessuno prova dispiacere per nessuno” scrisse un’altra superstite, Halyna Budanceva. “Non si desidera niente; nessuno ha più voglia neanche di mangiare. Si vaga senza meta per il cortile, per le strade. Ma dopo un po’ non si ha più voglia di camminare, mancano le forze. Ci si sdraia e si aspetta la morte”. - - - In un lungo rapporto inviato a Kaganovic e Kosior nel giugno 1933, un funzionario del partito che lavorava in una stazione di macchine e trattori nel distretti di Kam’- jans’kyj riferì che nella sua zona le persone stavano morendo di fame a migliaia. Portò esempi su esempi di gente che moriva nei campi durante il lavoro o mentre ne tornava, o non riusciva nemmeno a uscire di casa. Ma anch’egli aveva notato la crescente indifferenza. “La gente si è spenta, non mostra la benché minima reazione” scrisse. “Né alle morti né al cannibalismo, a niente”. L’indifferenza si estese ben presto alla morte stessa. Nei funerali ucraini tradizionali avevano avuto un ruolo sia la Chiesa sia tradizioni popolari: essi implicavano un coro, un pasto, il canto di salmi, letture dalla Bibbia, a volte le tradizionali prefiche. Ora tutti quei riti erano vietati. Inoltre, nessuno aveva più la forza di scavare una fossa, partecipare a una cerimonia o suonare. Insieme a chiese e sacerdoti scomparvero le pratiche religiose. Per una cultura che aveva dato grande importanza ai suoi rituali, l’impossibilità di dare al defunto un degno saluto fu un altro trauma: “Non c’erano funerali” avrebbe ricordato Kateryna Marcenko. “Non c’erano preti, né funerali, né lacrime. Mancavano le forze per piangere”. - - - Nei registri della polizia segreta si può leggere di più casi di cannibali finiti in prigione, giustiziati o linciati. Una singolare memorialista del Gulag ha raccontato un incontro nel 1935 con alcune donne detenute per cannibalismo nel campo di prigionia delle isole Solovki, nel mar Bianco. Olga Mane era una giovane polacca, arrestata quello stesso anno mentre varcava il confine con l’Unione Sovietica (voleva studiare medicina a Mosca) e condannata per spionaggio. Dopo un periodo nel campo, venne mandata a Muksalma, una delle isole dell’arcipelago delle Solovki. Oppose resistenza, perché aveva sentito dire che vi erano detenute circa trecento “cannibali ucraine”. Ma quando infine le incontrò i suoi sentimenti mutarono. Lo shock e l’orrore per le cannibali passarono in fretta; bastò vedere quelle sventuuna città 38 Dapprima la fame scaccia di casa, perché in un primo tempo ti brucia, ti strazia come il fuoco, ti strappa le budella e l’anima -allora l’uomo scappa di casa. La gente estrae i vermi dalla terra, raccoglie l’erba; hai ben visto, fino a Kiev strariparono. Tutti si allontanano da casa, se ne vanno tutti. Ma poi arriva il giorno che l’affamato torna indietro, trascinandosi alla sua capanna. Questo significa che la fame lo ha sopraffatto, ormai quell’uomo non si salva più: si mette a letto e là giace. Una volta che la fame lo ha sopraffatto, quell’uomo non lo rialzi più, non solo perché non ne ha la forza: è che gli manca l’interesse, non ha più voglia di vivere; sta lì steso, zitto zitto, e non si muove, e non ti venga in mente di toccarlo. L’affamato non vuole mangiare […], non vuole essere disturbato: vuole che lo lascino in pace. Vasilij Grossman, in Tutto scorre ricordarsi

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