Una città n. 282

rate ucraine scalze e seminude. Venivano tenute in vecchi edifici del monastero: molte avevano il ventre gonfio per la fame e, per la maggior parte, soffrivano di malattie mentali. Mi presi cura di loro, ascoltavo i loro ricordi e le loro confidenze. Mi raccontarono di come i loro figli fossero morti di fame e loro, molto vicine a morire di fame anch’esse, ne avessero cotti i cadaveri e li avessero mangiati. Era accaduto quando si trovavano in uno stato di shock causato dalla fame. Più tardi, quando erano giunte a capire che cosa era successo, avevano perso la ragione. Ne provai compassione e cercavo di essere gentile, di trovare parole affettuose per loro, quando venivano sopraffatte dal rimorso. Questo per un po’ le aiutava. Le calmava e iniziavano a piangere, e io piangevo con loro . - - - Nonostante il divieto di viaggiare e commerciare, i contadini ucraini, come si è già osservato, cercavano di fare entrambe le cose. Aggiravano i blocchi e strisciavano sotto le recinzioni per raggiungere città dove elemosinare qualcosa da mangiare. Chi aveva qualcosa da vendere si accovacciava nella polvere con la merce esposta davanti a sé su un fazzoletto o su una sciarpa. Le merci andavano da una manciata di chiodi arrugginiti a una trapunta logora, o un boccale di latte acido venduto a cucchiaiate, mosche comprese. Capitava di vedere una vecchia a sedere per ore davanti a un uovo di Pasqua dipinto e un pezzetto di formaggio di capra rinsecchito. Oppure un vecchio, coi piedi nudi coperti di piaghe, che tentava di barattare i suoi stivali laceri per un chilo di pane nero e un pacchetto di tabacco rustico mahorka. Pantofole di canapa, e persino suole e tacchi strappati dagli stivali e sostituiti con bende cenciose, erano frequenti oggetti di scambio. Alcuni vecchi non avevano niente da vendere; cantavano ballate ucraine e di quando in quando venivano ricompensati con un copeco. Alcune delle donne tenevano i bambini per terra accanto a loro, o in grembo, e li allattavano; le labbra dei bambini, piene di mosche, si serravano sulla mammella coriacea da cui sembravano succhiare bile invece che latte. - - - Per sopravvivere, la gente mangiava qualsiasi cosa. Mangiava qualunque scarto o cibo andato a male che le brigate avevano trascurato. Mangiava cavalli, cani, gatti, topi, formiche, tartarughe. Cucinava rane e rospi. Mangiava scoiattoli. Cuoceva ricci sul fuoco, friggeva uova di uccelli. Mangiava la corteccia delle querce. Mangiava muschio e ghiande. Mangiava foglie e denti di leone, nonché calendule e atreplici, sorta di spinaci selvatici. Uccideva corvi, piccioni e passeri. Nadija Lucysyna avrebbe ricordato che “le rane non durarono a lungo. La gente le catturò tutte. Furono mangiati tutti i gatti, e i piccioni, e le rane; la gente mangiava di tutto. Mentre mangiavamo erbacce e barbabietole, io m’immaginavo il profumo di cibi deliziosi”. Le donne preparavano zuppe di ortiche e pane di amaranti. Pestavano le ghiande, ne facevano un surrogato di farina che usavano per cuocere frittelle. Cuocevano le gemme dei tigli: “Erano buone, morbide e non amare” ricordava una superstite. Mangiavano bucaneve, le cui radici hanno la forma di una cipolla e “sembravano più dolci dello zucchero”. Si facevano frittelle anche di foglie ed erba. Alcuni mescolavano foglie di acacia e patate marce, spesso trascurate dalle brigate addette alle requisizioni, e le infornavano per fare un surrogato di perepicky, tradizionali salsicce avvolte nel pane. L’amido contenuto nelle patate marce poteva essere estratto e fritto. La zia di Nadija Ovcaruk faceva gallette di foglie di tiglio: “Seccava le foglie nel forno, toglieva le vene e le cuoceva”. una città 39 ricordarsi La grande carestia - la guerra di Stalin all’Ucraina, di Anne Applebaum, traduzione di Massimo Parizzi (Mondadori, 2019) Un libro da leggere

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