Una città n. 282

una città 40 Umberto Saba, che per il suo stile poetico è così singolarmente antinovecentesco e tradizionalista, e che irride il Novecento dicendo che non aspirava ad altro che arrivare al Duemila, è stato invece, in prosa, un intellettuale d’avanguardia. Le sue angosce lo portarono precocemente a usare Freud e perfino Nietzsche, che lui definiva, non filosofo, ma psicologo. Per metà ebreo (ma non conobbe mai suo padre) e nato a Trieste nel 1883, era cresciuto come cittadino dell’impero austroungarico, consapevole perciò della cultura centroeuropea. Se il suo Canzoniere, vero e proprio romanzo autobiografico in versi, è ben noto, citato, antologizzato e studiato, le sue prose raccolte sotto il titolo Scorciatoie e raccontini, sono invece ingiustamente trascurate, benché non manchino i loro ammiratori. Guido Piovene, per esempio, disse che “Saba è altrettanto grande come prosatore che come poeta, e tra poeta e prosatore non esiste confine netto”. Nel suo scritto del 1911 intitolato Cosa resta da fare ai poeti, che rimase purtroppo inedito, Saba diceva la cosa essenziale: e cioè che restava da fare “la poesia onesta”. In apparenza fedele alle forme stilistiche tradizionali (metrica regolare, rime e una chiarezza prosastica) Saba è provocatorio, sorprendente e scandaloso proprio per l’onestà del suo pensiero, che non si ferma mai alla superficie delle cose, proprio perché studia e vede bene che cosa le superfici dei fenomeni sanno rivelare. Come ha scritto Silvio Perrella nella prefazione all’edizione di Scorciatoie e raccontini uscita da Einaudi nel 2011, “Saba ha la necessità di abbreviare. I poeti sono fatti così: mettono quanto più mondo possibile nel minor numero di parole possibile. Sono poeti anche quando scrivono in prosa. Non perché cerchino la frase lirica, il tono alto. Al contrario, perché cercano l’essenziale. Perché sono sintetici. Perché gli sta a cuore un’onestà di sguardo”. La quale richiede che si scriva eliminando ogni superfluo, distraente “di più”. E questo modo diretto e vocale di dire le cose rende la prosa aforistica e scorciata di Saba uno degli insuperabili esempi di prosa italiana novecentesca. Montale (anche lui eccellente prosatore e critico, benché diversissimo) ha scritto di queste prose: “Stringate come sono, spesso ellittiche, portano alle estreme conseguenze quello stile parlato ch’è il segreto di Saba prosatore. Hanno le stesse inflessioni della sua voce [...]. Non conosco una prosa meno scritta, non ne conosco altra che risulti così continuamente in presa diretta anche quando la sintassi si aggroviglia e sembra smarrirsi nelle parentesi per poi ricadere a piombo, impeccabilmente”. Resta da dire che i temi di Saba prosatore sono anche più essenziali. Saba ci parla di storia e di politica rivelandone il rovescio psicologico. Fa ciò che gli storici e i politologi evitano di fare o non sanno fare. Si può perciò cominciare citando quella che forse è la più nota delle scorciatoie, e che riguarda il rapporto degli italiani con la rivoluzione: STORIA D’ITALIA Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuta in tutta la sua storia -da Roma a oggi- una sola vera rivoluzione? La risposta -chiave che apre molte porte- è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... “Combatteremo -fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto- fratelli contro fratelli” [...] Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, e avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli. C’è in queste righe, mi pare, anche una microgenealogia dell’individuo italiano, o dell’italiano come individuo a metà. Per liberarsi delle autorità paterne, cioè del passato, l’individuo deve formarsi prendendosi non solo la libertà, ma anche la responsabilità di occupare il posto avuto dai padri. Deve assumersene l’eredità, reinterpretandola nel presente. L’individualismo italiano sembra incapace di questo: vuole la libertà senza la responsabilità. Dopo aver fatto fuori i fratelli, evita il rischio di impegnarsi con responsabilità di padre. Ancora a proposito di storia italiana, di certe sue caratteristiche o apparenti misteri, ecco un’altra scorciatoia: UN AVVOCATO Un avvocato molto vecchio, molto abile, molto (anche al tempo del fascismo) antifascista, potrebbe tentare ancora questa DIFESA DI MUSSOLINI. “Voi non sapete -potrebbe dire- voi non potete sapere cosa fosse in Italia la generazione che ha preceduta la sua! Siete troppo giovani per saperlo. “Fu una terribile generazione di vecchi. I quali una sola virtù avevano: essere inamovibili; un solo compito: impedire ai giovani di occupare anche il più modesto (come si diceva) posto al sole. Io lo vedo di qui uno di quei vecchi (si assomigliavano tutti); lo vedo come fosse ancora vivo e presente. Sedeva immobile in una grande poltrona rossa (‘Dieu, quel etre!’ avrebbe esclamato Stendhal); ascoltava le tue ragioni guardandoti con l’occhio atono e, per la sua fissità, agghiacciante; sembrava nutrire i più profondi, a lui solo accessibili, pensieri: e quel solo pensiero, quella sola volontà aveva: QUI DOVE SIEDO IO, NESSUN ALTRO DEVE SEDERE, IN ETERNO” In questo caso entra in scena un vero personaggio teatrale o romanzesco, che spiega certe ragioni o radici di un evento patologico con il quale l’Italia anticipò nel Novecento diversi altri paesi. Quando il corso della storia sembra bloccarsi, paralizzato da una sinistra gerontocrazia statale e politico-burocratica, allora l’organismo sociale all’improvviso cerca di ringiovanire cantando “Giovinezza, giovinezza!”. Scorciatoia, questa, che va integrata con un’altra: TUBERCOLOSI, CANCRO, FASCISMO Ogni epoca ha la sua malattia, alla quale risponde un’altra (ma è probabilmente la stessa) nel campo morale. L’Ottocento ebbe la tubercolosi e gli sdilinquimenti sentimentali; il Novecento ha il cancro e il fascismo. Tutto il processo del fascismo -manifestarsi della sua vera natura quando è già tardi per un’efficace intervento chirurgico; sua impossibilità di morire se non assieme alla vittima alla quale si è abbarbicato; tendenza a riprodursi in posti lontani dalla sua prima sede; disperate sofferenze che genera in quelli che ne sono colpiti; guasti profondi che si rivelano all’esame necroscopico dei corpi (o paesi) sui quali abbia totalitariamente imperato -tutto, dico, il suo processo ha sorprendenti somiglianze con quello del cancro. Ma in un’altra cosa gli somiglia ancora. Saba, storia e politica di Alfonso Berardinelli lettere, rubriche, interventi

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