Una città n. 282

una città 46 Caro Prezzolini, non mi sento proprio di fare un articolo sull’Ucraina: con asserzioni superficiali e imprecise farei troppo dispiacere ai miei amici ucrainici (nonchè ai miei amici polacchi). Ma forse non sarà inutile un accenno al problema, aspettando che un “ucraino” autentico e competente ce lo venga a chiarire. Giammai, credo, avvenimenti giganteschi hanno sorpreso la coscienza pubblica così poco informata delle gravi questioni sollevate, come questa guerra. Così come è evidente l’ineluttabile logica degli eventi esteriori scatenati quasi dall’inerzia di molti materiali (armamenti, pletora di energie gregge; accumulazione caotica di interessi contrastanti) così le direttive intelligenti, i rinnovamenti meditati, le mete dello spirito insomma soprannotano appena come rottami dispersi dalla tempesta. Confessiamolo pure: sulla sistemazione prossima dell’eredità austriaca, sulla spartizione del bottino turco, sull’organizzazione del mondo slavo, sui rapporti da stabilire tra la Russia e l’Europa moltissimi tra noi, che pure vorrebbero orientare l’opinione popolare verso delle soluzioni conformi a vasti e generosi ideali - non hanno che spunti di idee, che concezioni più imprecise, forse, di quelle che ispirarono i democratici del 1848. Appunto perché a noi sembrano ingenue, romanticamente noncuranti della realtà storica le ideologie di Mazzini, Michelet, Mickievicz, Herzen (eppure tramezzo agli errori enormi di quelle visioni vi sono tante geniali intuizioni, per le quali, a noi uomini critici manca purtroppo il soffio). Noi siamo cresciuti in un mondo, ove poco o punto si credeva nelle realizzazioni poderose e catastrofiche; ci siamo abituati a studiare anche i fenomeni attuali minutamente, specializzando e riservando sempre le conclusioni. Abbiamo in sufficienza materiali, monografie, polemiche su tutte le questioni sociali o nazionali immaginabili. E appena gli avvenimenti ci pongono dinanzi un hic Rhodus - si rivela un’ignoranza, uno smarrimento generale - quali si potè constatare e per la rivoluzione russa e per la guerra balcanica, per la Boemia, per la Macedonia, per l’Albania... È un dolore e una vergogna sentir oggi un “colto europeo” parlare della Polonia! Martiri! Varsovie echevellé! Il sangue polacco bevé col polacco! Cose un po’ fradicie. Ma s’intende che simpatizziamo ancora di tutto cuore! Lo Zar gli dona la libertà!? Tanto meglio, così tutto è risolto! Intanto Bobrinski inaugura la russificazione della Galizia. È colpa nostra! Colpa di tutti quelli che qualche cosa sapevano e non si preparavano e non preparavano l’opinione. Quando in un interludio dei congressi internazionali socialisti si votava un ordine del giorno di (platonica) simpatia ai popoli oppressi, ammucchiando -per non perdere troppo tempo- la Polonia e la Finlandia magari con la Persia e l’India, era commovente l’unanimità quanto l’assolta indifferenza dei votanti. Domani al congresso europeo lasceremo ai diplomatici di decidere (o di lasciare indecise) le sorti della nazione polacca, come quelle della nazione ceca, della nazione armena. Con quale autorità potrà imporsi loro l’opinione pubblica? Come potrà ricordare loro altre nazioni che pure aspirano a vita nuova? Volevo parlare dell’Ucraina. Per molti l’Ucraina -trentacinque milioni di uomini- non esiste neanche! - - - Quando si percorre la storia russa nell’esposizione ufficialmente consacrata, si è colpiti dalla strana soluzione di continuità tra l’epoca del Gran ducato di Kiev (che va dal IX a1 XIII secolo) e il periodo moscovita (che incomincia nel XII sec.). Nell’assetto sociale e politico, nei costumi e nella civiltà non vi è quasi nulla di comune tra la splendida e turbolenta società cavalleresca e urbana che si sviluppò nella vallata del Dniepr in stretti contatti con Bisanzio, con Venezia, con l’Europa tutta e il pesante despotismo patriarcale, che completamente, sospettosamente appartato dal mondo civile, poco a poco plasmò le rare, povere, primitive popolazioni delle tristi pianure e foreste del Centro. Il fatto è che il granducato di Vladimir (poscia divenuto granducato di Mosca) non fu un prolungamento naturale dello stato slavo-normanno di Kiev ma una creazione affatto nuova: conquista di esuli, amalgama di colonizzatori non tanto numerosi con genti finniche, sistema sociale e amministrativo quasi imposto dai mongoli dell’Orda d’oro; più tardi autocrazia ordinata da Giovanni il Terribile sul modello dell’impero Osmano ( basta ricordare l’analogia tra gli “opricniki” e la milizia dei giannizzeri). La civiltà russo-normanna aveva d’altronde avuto due centri assai distinti. A Kiev -aristocrazia di guerrieri possidenti- si opponeva Novgorod oligarchia di mercatanti. La repubblica di Novgorod fu il vicino civilizzato e ostilissimo della Monarchia Moscovita. Allorché decrebbe la potenza delle città anseatiche, gli Zar di Mosca poterono schiacciare Novgorod e annettersi i suoi vasti territori. Però lo spirito delle comunità libere si mantenne nella Russia settentrionale, le franchigie del Pomorie (o regione del mare) non furono che lentamente fiaccate. Significativa anche la circostanza che in quelle regioni si conservò l’antica poesia epica russa, le “byline” su il contadino guerriero, e quelle su Sadko il ricco mercante e su Wassili Buslaiof condottiero dell’irrequieta gioventù novgorodiana. Ultima espressione dell’indomito spirito d’indipendenza e di più alta spiritualità furono le numerose sette religiose, fermento vivificatore di una Russia non tartara. Dall’unione violenta di Mosca con Novgorod si formò la Grande Russia. Invece l’invasione mongola distruggendo Kiev, aveva incuneato un deserto tra la Moscovia e gli slavi del Dniepr. Sopravvissero però le tradizioni di Kiev nel regno di Galizia. A questo stato -la cui grandezza fu breve- venne applicato per primo (se non erro da storici bizantini) il nome di “piccola Russia”. Continuò a gravitare in quel incerto sistema, nel quale quasi sospesi tra Costantinopoli e il Sacro Romano Impero, cercavano il loro assetto la Valacchia, l’Ungheria, la Boemia, i ducati polacchi e la Lituania. Quando nei primi anni del trecento si unificò il reame di Polonia, anche una parte della Galizia vi fu incorporata. Il resto dei territori già governati da Danilo dì Galizia cadde più tardi sotto il dominio dei granduchi di Lituania -potenza nuova e vigorosamente ascendente. Da allora tra i ruteni (annessi alla Polonia) e gli ucraini propriamente detti (uniti alla Lituania) dovevano sorgere disparità di civilizzazione e anche di dialetto. In Lituania i “malo-russi” eredi dello splendore di Kiev rappresentavano una civiltà superiore. Degli storici recenti hanno illustrato (non senza esagerare un po’) l’importanza degli elementi ruteni e delle tradizioni slavo-normanne nello stato liil reprint Marca, terra di confine di Andrea Caffi

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