Una città n. 282

una città 8 missili russi, nel bombardare la loro contraerea, insomma, nel condurre una guerra aperta. Sicuramente le sanzioni potrebbero essere inasprite, e personalmente lo auspico; se domani scoprissi di non poter più letteralmente fare rifornimento alla mia auto, o che in casa mia non ci fosse più elettricità, beh, mi piace pensare che sarei ancora solidale con l’Ucraina, ma temo che per molte persone questo non sia vero e posso capirle. È una questione politica e le opinioni pubbliche dei paesi membri della Nato hanno un loro peso nelle decisioni dell’organizzazione, anche se questo può disturbare le élites della politica estera. Per quanto riguarda Zelensky, il suo problema è fino a dove potrà spingersi nei negoziati pur mantenendo la legittimità di rappresentare il proprio paese. Sono sicuro che in questo momento ci sono consiglieri e membri del suo governo che, anche senza dirlo pubblicamente, gli fanno pressioni perché si impegni a ritornare allo status quo ante, a permettere ai russi di restare nel Donbass, dove peraltro sono presenti da almeno otto anni. Ma ci saranno anche altri consiglieri che invece gli suggeriscono di non cedere nulla a un invasore che li ha attaccati e ha portato la devastazione nelle loro città. La situazione è politicamente molto complessa, ma è anche un disastro umanitario, e non so se in questo momento il fatto che Biden abbia accusato Putin di essere un criminale di guerra abbia aiutato. Voglio essere chiaro: Putin è un criminale di guerra, ma ora il nostro obiettivo dev’essere fermarlo e temo che accusarlo in questo modo non sia il modo migliore per farlo. Negli ultimi giorni Biden si è spinto oltre, concludendo il suo forte discorso di Varsavia dicendo, in quella che sembrava essere un’osservazione “a braccio”, che cioè non faceva parte del discorso preparato, “Dio mio, quest’uomo [Putin] non può certo restare al potere”. Ritengo questa un’escalation estremamente pericolosa nella retorica della guerra, e la Casa Bianca, che ha immediatamente diramato una smentita anonima, sembra pensarla come me. Di nuovo, certo che possiamo sperare che il potere di Putin vacilli in Russia, ma questo non può essere un obiettivo di politica estera enunciato da un presidente Usa, e più la retorica si farà infiammante, meno probabile sarà una rapida risoluzione di questa guerra. Se non ci fossero potenze nucleari coinvolte, sarei certamente a favore di un intervento diretto degli Stati Uniti in questo conflitto, proprio come ero favorevole all’intervento in Kosovo. Ma la situazione è diversa. Adam Michnik, che è un amico, oltre che un mio eroe personale, una volta mi disse una cosa che mi rese tutto molto chiaro. Eravamo insieme a un convegno a Budapest quando cominciarono i bombardamenti Nato in Serbia e stavamo discutendo di questo: “Perché intervenire in Serbia e non in Georgia, o in Cecenia?”. Adam rispose semplicemente: “Perché in Kosovo si può”. Non perché ciò che Milosevic stava facendo in Kosovo fosse peggiore di quanto accaduto in Cecenia; la differenza è che la Cecenia non si poteva bombardare, mentre la Serbia sì. Ci sono forme di ingiustizia cui ti puoi opporre e ce ne sono altre in cui il prezzo sarebbe troppo alto. Dobbiamo sempre fare i conti con i limiti della possibilità. Certo penso che i confini della Nato siano importantissimi, per cui se il conflitto dovesse travalicarli, allora sì, ci sarebbe necessariamente un’escalation che condurrebbe alla devastazione globale. Prima dell’invasione russa, molti commentatori in Europa si dicevano sicuri che Putin stesse bluffando, che non si sarebbe mai spinto fino all’invasione, e che Biden, che invece dava credito a quella possibilità, fosse solo paranoico o, peggio, che volesse usare questa “scusa” per rafforzare la Nato ed espanderne i confini. I timori di Biden si sono tragicamente rivelati corretti; cosa ne pensa del presidente Usa? Uno dei suoi primi atti eclatanti è stato il ritiro dall’Afghanistan, e ora sembra alla guida della coalizione contro Putin, spingendosi fino a definirlo “criminale di guerra”. È diventato più “falco”? No, non direi che Biden sia diventato un “falco”. Ha assunto la carica in un momento incredibilmente precario, con molti repubblicani accodatisi a Trump nel non riconoscergli la vittoria e nel cercare di minare alle fondamenta gli stessi meccanismi del sistema elettorale democratico e, a parte questo, non è che abbia vinto con un gran margine. Quella situazione di precarietà persiste tuttora; credo che gli Stati Uniti si trovino in una situazione molto complicata, in cui la democrazia liberale sopravvive a malapena, appesa a un filo. In un certo senso, quanto sta accadendo ora in Ucraina è una distrazione da tutto ciò; Biden non è mai stato una figura politica energica, capace di ispirare le folle, ma credo che parte del motivo per cui è riuscito prima a conquistare la nomination democratica e poi la presidenza, sia proprio perché non era fatto così, perché incarnava il desiderio diffuso di un ritorno alla normalità, un’alternativa netta al cinismo e all’imprevidibilità di Trump. Ma tutti i presidenti, per quanto audaci, o energici, o dotati di grande carattere e moralità, quando assurgono alla carica scoprono che il mondo è in preda al caos, che tutto è complesso e che gli Stati Uniti devono operare considerando gli impegni già presi, i limiti all’azione politica. Insomma, che non si può fare tutto ciò che si vuole! Per cui ogni presidente si ritrova a dover improvvisare e Biden, di sicuro, sta improvvisando molto. Non mi è piaciuto il modo in cui ha gestito il ritiro dall’Afghanistan; certo doveva ritirarsi, ma avrebbe potuto farlo in macosa sta succedendo “perché intervenire in Serbia e non in Cecenia?”. Michnik rispose semplicemente: “Perché in Kosovo si può” fotoreserg Kharkiv

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