Una città n. 285

una città 16 storie di lavoro sta meglio qui. Da delegata sindacale, come hai visto cambiare la situazione dopo l’apertura delle frontiere? Come sappiamo, negli anni passati molte aziende hanno aperto all’estero, dove la manodopera non è pagata niente, per cui si crea una concorrenza sleale. Del resto basta andare nei negozi e lo vedi: Samsung, quando manda sul mercato una lavatrice, ti ci aggiunge in regalo il telefonino, perché ha dei margini che tu non hai e poi ha aziende che producono di tutto. Competere con queste realtà non è facile. Electrolux fatica a essere competitiva nei confronti della coreana Lg o della turca Beko, rispetto ai prezzi. Qualche anno fa alcuni stabilimenti italiani hanno rischiato di essere trasferiti in Polonia... Nel 2014 con un accordo abbiamo salvato lo stabilimento di Porcia, in Friuli. Poi c’è stato il caso di Solaro, vicino a Milano: nel giro di un anno c’è stato un declino pazzesco: produceva 500.000 apparecchiature l’anno rispetto ai due milioni che produce Forlì. Pare ci sia stato un problema con un componente, un chip, comunque alla fine si è dimezzata la fabbrica e ancora adesso lo stabilimento è in crisi. Nel 2014 abbiamo lottato parecchio per mantenere le produzioni in Italia, dopo che Electrolux aveva già aperto in Polonia, Romania, Ungheria, dove tra l’altro quando ci vado come delegata del Comitato aziendale europeo, il Cae, e chiedo quanto prendono gli operai, non me lo dice nessuno! Però si sa che prendono stipendi con cui fanno fatica ad arrivare a fine mese… Infatti, in Ungheria, dove arriva un sacco di gente da fuori, che va alla ricerca di chi offre di più, c’è un turnover altissimo. Comunque ormai è da anni che esistono le cosiddette fabbriche gemelle. Cosa vuol dire “fabbriche gemelle”? Significa che in quattro e quattr’otto possono prendere una catena di montaggio a Forlì, smontarla e portarla in Polonia o altrove. Ci sono già arrivati. Poi io rimango dell’idea che l’operaio italiano sia uno dei migliori al mondo… anche rispetto alle condizioni sindacali. In Romania l’azienda mangia da una parte e l’operaio dall’altra. Da noi si mangia tutti insieme alla mensa. Ma lì hanno proprio un’altra concezione: l’ultima volta, il problema del delegato rumeno era che gli avevano tolto il parcheggio privato, privilegio che qui nessuno di noi ha, capito? D’altra parte loro vengono da un regime comunista, per loro avere il parcheggio è fonte di grande orgoglio… Ricordo che c’era un gruppo di operai che, per via dell’orario di lavoro, perdeva regolarmente la corriera e quindi doveva tornare a casa a piedi. Non ci potevo credere. Ho detto: “Scusate, ma chiedete che vi organizzino una corriera oppure fatevi cambiare l’orario dei turni di lavoro”. Loro sono ancora nella logica che il lavoro è guadagno, punto. Su questo ho l’impressione che le multinazionali ci marcino parecchio. Comunque, per stare aperti in Italia, abbiamo dovuto incrementare le catene di montaggio e la velocità. Abbiamo aumentato di undici pezzi l’ora, che non son pochi; come dicevo, abbiamo cicli di lavoro di 42 secondi, sono movimenti ripetitivi, per cui in un mese di rodaggio lo si riesce a fare, in due mesi si guadagna anche qualcosina… se non mi si ferma il robot! Però i ritmi sono comunque alti. Anche per questo ci si rompe, ci si spacca… Dicevi che come delegata hai visitato vari impianti e sei stata anche a Stoccolma, nella sede centrale... Sì, è pazzesco. Qui noi aumentiamo i ritmi, gli straordinari… Loro invece calano! In Svezia poi hanno praticamente sei mesi di luce e sei mesi di buio. Io, essendo la delegata a livello Europa, quando mi muovo sono a carico dell’azienda. È un’esperienza che mi appassiona molto, facciamo le riunioni con i dirigenti, pure con Samuelson, che è il capo dei capi. L’ultima volta ho portato delle lamentele perché a noi avevano dato delle mascherine che erano praticamente sacchi dell’aspirapolvere tagliati a metà, perché li produciamo noi, dei cosi rettangolari verdi… un’oscenità. Invece i capi avevano tutti la Ffp2 bellina… Al Cae poi i delegati sono quasi tutti degli impiegati, come delegata di catena c’ero solo io. A un certo punto, visto che tutti ridevano di ’sta mascherina, sono intervenuta e ho detto, proprio a Samuelson: “Guardi, io sono contenta che vi faccia ridere, ma qualcuno di voi ha provato a venire in catena di montaggio con quella addosso? Lo sapete cosa vuol dire produrre con quella roba sulla faccia?”. L’ho detto sorridendo, ma gli ho ricordato che i lavoratori delle catene di montaggio andavano rispettati perché se durante la pandemia avevamo tenuto aperto era per merito loro e che era ora che qualcuno facesse qualcosa. Lui ci è rimasto un po’ così, evidentemente non si era reso conto. Dopo un mese mi hanno chiamato per dirmi che ci consegnavano le nuove mascherine. Un’altra volta ci hanno detto che avevano messo il wifi nel forno, così si può accendere mentre sei al lavoro. Io lo guardo e dico: “Sono contentissima del vostro wifi del forno, ma se nessuno mi gira le patatine, mi si bruciano!”. Cioè, a volte hanno delle idee, mah! Come la moltiplicazione dei programmi per la lavatrice. Come se non si sapesse che noi alla fine usiamo tutti i 30, i 60 gradi e l’esclusione della centrifuga. Per il forno: sopra, sotto, ventilato, punto. Tutte le altre funzioni per me possono anche non esserci! Ma loro son dei maschi, cosa vuoi che ne sappiano! Anche questo gliel’ho fatto presente: “Ci sono gli stabilimenti, avete mai chiesto alle donne cosa vogliono da un forno? Chiedetelo alle vostre dipendenti!”. A Stoccolma hanno anche l’asilo dentro: vedi le donne che arrivano con il bambino o la bambina e li lasciano lì; è una bella scena da vedere. Io sarei favorevole all’asilo in azienda, anche se è una cosa che sindacalmente va gestita. Ci sono i pro e i contro, perché poi sei legata a filo doppio all’azienda; non solo, qualcuno può pensare che puoi fare delle ore in più “perché tanto c’è l’asilo”. Viaggiare mi piace molto. Grazie al fatto di essere delegata in Europa, ho preso l’aereo per la prima volta! Non l’avevo proprio mai preso. E le mie colleghe: “Ma non hai paura?”, “Paura? Col cavolo!”. Ho trascorso tutto il viaggio a guardare fuori, come i bambini dell’asilo, a cinquant’anni! Mi sono anche messa a studiare l’inglese, ma non ce la posso fare, quindi ho sempre la traduttrice. Prima del Covid giravo molto, sono stata in Polonia, Romania, Ungheria, a Stoccolma più di una volta. Anche questa opportunità di confrontarti con i capi è gratificante. Samuelson è il capo dei capi, quello che Fantozzi metteva in cima… hai presente? Insomma, io sono un’operaia e mi trovo lì a discutere con il capo dei capi di Electrolux, e ti dirò che è uno che ascolta anche. Tanto più che loro conoscono poco la situazione delle donne nelle catene, dell’anziano nelle catene… Mi ricorderò sempre la visita allo stabilimento polacco di Olawa: prima faccio un giro di sotto, poi andiamo di sopra a fare la riunione e allora chiedo: “Scusate, ma cosa state facendo per l’ergonomia? Perché ci si spaccano i polsi…”. Quello delle risorse umane mi guarda e mi risponde: “No, no, quello, Guidi, è un problema solo italiano”. “Beh, allora mi spieghi come mai le vostre operaie di sotto avevano tutte i tutori ai polsi!”. Anche lui è rimasto un po’ così. Con i sindacati, in quei paesi sono un po’ in ritardo. Noi qui se vediamo qualcosa che non va bene, fischietto e si sciopera. Loro non ce l’hanno ancora questa cosa… ci arriveranno! Io ogni tanto gliela butto lì: “Ma fischietto e scioperare?” (a cura di Barbara Bertoncin) “beh, allora mi spieghi come mai le vostre operaie di sotto avevano tutte i tutori ai polsi!”

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