Una città n. 285

una città n. 285 mensile di interviste luglio-agosto 2022 euro 8

una città 2 sommario Sono loro Sull’Italia e via d’Amelio intervista a Enrico Deaglio (p. 3) Chi ha guardato e chi non ha guardato L’America e le audizioni sul 6 gennaio di Michael Walzer (p. 8) Quel vuoto di senso Sulla fatica di essere madre intervista a Sarah Viola (p. 10) La catena delle nonne La storia di lavoro di un’operaia intervista a Elisa Guidi (p. 13) La Russia, l’Ucraina, la Nato e la sinistra di David Ost (p. 18) Quello che è accaduto a Mariupol si avvicina a un genocidio La città che non c’è più intervista a Hanna Tryfonova (p. 21) Il prezzo della pace Ai confini con l’Ucraina intervista a Krzysztof Czyzewski (p. 25) Sem Terra, eredi di schiavi ribelli Le lotte dei contadini brasiliani intervista ad Aldo Marchetti (p. 29) La città, all’inizio La lettura delle situle intervista a Luca Zaghetto (p. 34) Georges Sorel, scioperi e rivoluzione Alfonso Berardinelli (p. 38) Carte e cartine Andrea Pase (p. 39) 30 giugno 1960, Genova Matteo Lo Presti (p. 40) Dove sono finite tutte le donne? Vicky Franzinetti (p. 41) Aborti nel mondo Patrizia Farina, Neodemos (p. 43) Una bomba a orologeria Belona Greenwood (p. 43) Noi no! Wlodek Goldkorn (p. 45) Ricordiamo Srebrenica (p. 46) La visita è alla tomba di Emilio Lussu (p. 47) luglio-agosto 2022 Redazione Una città via Duca Valentino 11, 47121 Forlì tel. 0543/21422 unacitta@unacitta.org Mi sono molto meravigliato di come alcune delle persone che sono andate a Sarajevo [...] siano tornate da quella esperienza estrema e singolare, di grandissimo significato umano, con lo stesso discorso aprioristico che facevano prima, e con lo stesso atteggiamento solo declamatorio sul valore universale della pace e dei diritti umani. A differenza delle testimonianze assai veraci e problematiche di alcuni partecipanti [...], altri reduci da Sarajevo non apparivano intaccati più di tanto dal fatto che i bosniaci assediati chiedano disperatamente un aiuto contro gli aggressori assedianti (e armi per difendersi da sé se l’aiuto esterno non viene). Una sanguinosa epurazione etnica a suon di massacri, stupri, deportazioni e devastazioni va avanti a tappeto, la popolazione di per sé largamente inter-etnica viene costretta a schierarsi con una parte contro l’altra, un baratro profondo rischia di riaprirsi tra est e ovest, tra cristiani e musulmani, tra europei da difendere ed europei che possono essere macellati tranquillamente. Tutto questo non può trovare come unica risposta l’invocazione astratta della non-violenza. Alexander Langer, “Aam Terra Nuova”, 6 aprile 1993 Dalla cronaca notizie atroci, dalla vita pubblica una notizia che a molti pare drammatica e non dovrebbe, perché votare per l’uno o per l’altro è la normalità di una democrazia. Ma siamo normali? Una notizia passata quasi inosservata può aiutarci a dare una risposta: l’assoluzione dei poliziotti accusati di essere implicati nel depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio. A questo dedichiamo l’apertura e a Borsellino una copertina sbiadita e sgranata. L’intervista, sconvolgente per noi che stiamo dimenticando tutto, è a Enrico Deaglio, fatta prima della conclusione del processo. Qui, dalla sua pagina fb, aggiungiamo il commento alla sentenza: Ieri il tribunale di Caltanissetta ha piantato l’ultimo chiodo nella bara del giudice Paolo Borsellino, ucciso, insieme al suo amico Giovanni Falcone, trent’anni fa. Le loro facce le potete vedere in molti luoghi della nostra Italia: piazze, strade, scuole e addirittura sulla moneta da due euro messa recentemente in circolazione, dove i due, con aria complice, si guardano sorridenti e sembrano consci di quello che gli sarebbe successo. Non era un gran processo, peraltro. Erano accusati tre poliziotti, all’epoca giovani, della squadra speciale del capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, cui il governo di Roma diede pieni poteri per le indagini sulle stragi del 1992. Quelle indagini furono da subito inquinate e depistate, per assicurare all’opinione pubblica un colpevole e per proteggere i veri colpevoli, in uno dei più grandi scandali della Repubblica italiana. Quindici anni dopo i fatti, venne alla luce l’impostura commessa, ma nessuno pagò mai per quello che aveva fatto. Trent’anni dopo, al termine di un faticoso processo durato quattro anni, questi poliziotti, davvero le ultime ruote del carro, sono stati prescritti dall’accusa di aver volontariamente depistato il delitto del secolo. Prescritti, come una medicina. Quel processo, dimenticato, solitario, era però l’ultima speranza di poter tenere aperto un uscio di verità su quanto era successo. A Borsellino, e a noi tutti. Credo di essere l’unico giornalista che si è occupato del caso, scrivendone da vent’anni sui giornali e addirittura con due libri: in completa solitudine. Ho sperimentato quanto lo scandalo del delitto Borsellino fosse protetto, dai magistrati per primi, dal potere politico poi e quanto sia lentamente scivolato nel tempo, fino a non interessare più nessuno, e tantomeno l’opinione pubblica. Peccato, avremmo potuto essere un paese civile e coraggioso. E invece le morti di Borsellino, e quella di Falcone, ci insegnano alcune amare verità. Il delitto perfetto esiste; occultare la verità è possibile; gli assassini sono tra noi. Sottoscriviamo. Dalla pagina 17 alla 28 parliamo di Ucraina con David Ost, della sinistra americana, con Hanna Tryfonova di Mariupol e con Krzysztof Czyzewski, polacco, impegnato al confine coi profughi ucraini. Laggiù i crimini di guerra da parte dei soldati russi si succedono quotidianamente. Lo si è visto fin dall’inizio che sarebbe stata una guerra contro i civili e tuttavia noi italiani ci dobbiamo vergognare di essere uno dei paesi, ivi compresa la sua sinistra, più comprensivi verso la Russia di tutto il mondo libero. Riportiamo dal nostro sito: ci rivolgiamo a chi ha in orrore le armi, anche se in mano a chi si difende; a chi riserva all’America tutto l’odio di cui è capace; a chi ha nostalgia di Lenin e di Stalin; a chi ragiona solo di interessi e vuol pensare che così facciano tutti: se fosse vero che stanno deportando i bambini, se fosse vero che a Bucha hanno ucciso tutti gli uomini abili, come a Srebrenica, se fosse vero che gli stupri sono di fatto autorizzati, come in Bosnia, se fosse vero che l’obiettivo è un genocidio analogo a quello armeno, cosa direste? Cosa proporreste? E se tutto questo, e non sia mai, si rivelerà vero, come ci sentiremo? In questo numero Michael Walzer riflette sulle audizioni sul tentato colpo di Stato che stanno dividendo l’ America. Poi si parla di sindrome di Medea, di “nonne” alla catena di montaggio, di contadini brasiliani eredi degli schiavi ribelli dei secoli passati, finanche di “situle”, cioè di secchi antichi che ci raccontano di come nacquero le città. Poi Alfonso Berardinelli di Sorel, Vicky Franzinetti e Patrizia Farina di femminismo e di aborto, Matteo Lo Presti del 30 giugno 1960 a Genova, Belona Grenwood di trasfusioni e Hiv, Wlodek Goldkorn di elezioni e “paria”. Nelle ultime ricordiamo Srebrenica e facciamo visita alla tomba di Emilio Lussu. Infine una buona notizia: Khalida è a casa!

Enrico Deaglio, torinese, dal 2012 risiede a San Francisco. Si occupa di mafia da quarant’anni. Nel 2021 è stato consulente della Commissione antimafia della Regione Sicilia sul depistaggio del delitto Borsellino, diretta da Claudio Fava. Ha raccontato storie di mafia con Il figlio della professoressa Colomba, Sellerio, 1992, Raccolto rosso, Feltrinelli, 1993, Il vile agguato, Feltrinelli, 2012, Indagine sul Ventennio, Feltrinelli, 2014 e la trilogia di Patria, La bomba, Cinquant’anni di Piazza Fontana, Feltrinelli. Il libro cui ci si riferisce nell’intervista è Qualcuno visse più a lungo, Feltrinelli, 2022. Il tuo ultimo libro è avvincente come un grande libro giallo, ma purtroppo racconta cosa è successo in Italia negli ultimi quarant’anni a proposito di mafia e quant’altro ed è sconvolgente. Già dieci anni fa avevi pubblicato un libro incentrato sull’omicidio di Borsellino e sul depistaggio delle indagini, che in qualche modo resta al centro anche di questo tuo ultimo. Premetto che seguo da quarant’anni questi avvenimenti, diciamo che come giornalista la mafia e tutto il resto è la mia area di intervento. Ora, mi ero stupito che a un certo punto, nel 2009 più o meno, fosse venuto fuori questo Spatuzza, così dal nulla, a raccontare di essere stato lui a fare l’attentato e che Scarantino, in galera da anni per via d’Amelio, non c’entrava nulla. Tutti e due, Scarantino e Spatuzza erano stati arrestati da tempo, il primo nel 1992, il secondo nel 1997, quindi erano passati poco meno di vent’anni. Spatuzza, nei primi verbali che vennero resi pubblici, diceva che un ruolo importante, nella strage di via D’Amelio, l’aveva avuto un certo Vitale, un inquilino della casa scoppiata che, quella domenica mattina, aveva portato via tutta la famiglia e soprattutto aveva spostato la sua macchina dal parcheggio per far posto alla famosa 126. E allora mi ricordai che in quei giorni della strage il mio amico Bebo Cammarata, con cui collaboravo -a quei tempi lavoravo sia per la televisione che per “La stampa”- mi aveva accennato a questo Vitale “che in qualche modo c’entrava”: era una storia di scuderie e cavalli, in cui si incontravano la Palermo bene e la Palermo di Cosa Nostra. All’epoca io mi ero già trasferito negli Stati Uniti, ma proposi lo stesso alla Feltrinelli di scrivere un librettino al volo su questa cosa qui, e uscì Il vile agguato, in cui raccontavo l’assurdità di tutte le indagini che avevano seguito via D’Amelio, compreso il fatto che questo Vitale non fosse mai stato interrogato, che avessero lasciato cadere tutte le piste e soprattutto che nei cinquantacinque giorni che separano l’uccisione di Falcone da quella di Borsellino, quest’ultimo avesse avuto innumerevoli annunci di quello che stava per succedere. Insomma, era il delitto più annunciato che ci fosse stato. Il libro uscì nel 2012 ed ebbe anche un buon successo. Lì chiedevo: qualcuno riesce a dare una spiegazione di questo depistaggio? La vulgata generale era che sì, c’era stato un depistaggio, ma perché il commissario La Barbera, che gestiva tutte le indagini, aveva -la definirono così- un’ansia di prestazione a fronte di un paese in uno stato pressoché comatoso. In effetti stava crollando la Borsa, stavano crollando i partiti per Mani pulite, stava crollando la politica, l’economia, insomma stava crollando l’Italia e bisognava trovare subito qualcosa. E lui trovò questo Scarantino, un ragazzo, si disse, che aveva rubato la macchina e via dicendo. Ma per rassicurare l’opinione pubblica il risultato grosso da raggiungere era la cattura di Riina e così fu. Riina venne arrestato nel gennaio ’93 e tutti gridarono: “Vittoria, vittoria, la mafia è finita, hanno preso il capo”. Solo che poi, invece, ci sarà una coda di tutta questa vicenda, che sono le bombe del ’93, a Firenze, a Milano, a Roma, e si scoprirà che c’erano stati anche tanti altri episodi più piccoli che all’epoca non erano stati neanche considerati, ma che avevano creato un’aria di trame eversive, di colpo di stato. Il fatto più grave fu il black-out che ci fu a Palazzo Chigi, dove saltarono le linee telefoniche, e la macchina piena di esplosivo che trovarono lì davanti. Insomma, questo era il clima. L’altra cosa che mi aveva interessato era la scoperta che tutta la storia di Scarantino era stata un’impostura. Dieci anni dopo la morte di Borsellino, nel ’92, viene fuori questo Spatuzza che dice: “Sono stato io a piazza D’Amelio, non solo, sono quello che ha messo le bombe in continente”, il che, insomma, cambiava molto. Ebbene, non ci fu una particolare levata di scudi, nessuno si stupì più di tanto. “Ah, va beh, non è stato Scarantino, ci siamo sbagliati, è stato Spatuzza”... Ma poi Spatuzza subito dopo tirò fuori che i suoi capi erano questi fratelli Graviano che erano in rapporti d’affari con Berlusconi e lì, allora, la cosa cominciò a diventare torbida. Non so se ti ricordi, ma Spatuzza disse proprio: “Io mettevo le bombe perché erano gli industriali del nord, era Berlusconi che ce l’aveva ordinato”. Così sono andato avanti nella ricerca. Mi aveva colpito che questo Spatuzza fosse stato arrestato a Palermo nel ’97, quindi solo cinque anni dopo le stragi, e di lui non si era saputo mai niente, era uno dei tanti, non fece neanche notizia, mentre lui, in realtà, parlò subito, appena arrestato, ma la cosa venne tenuta segreta per una dozzina d’anni! E alla Procura nazionale antimafia, che lo andò a trovare nel carcere speciale, lui non solo confessò tutta la cosa, ma raccontò molto di più. E allora cominciò praticamente una trattativa fra Vigna, quello di Firenze, del mostro di Firenze, che era il Procuratore nazionale antimafia, e Piero Grasso, il suo vice, e Spatuzza, su cosa poteva ottenere se diceva quello o quell’altro. Praticamente si è scoperto che la Procura nazionale antimafia, già nel ’97, ma secondo me da prima ancora, era al corrente che tutta la pista Scarantino era una bufala totale. E se ne stette zitta. Se ne stette zitta mentre restavano in galera una quindicina di persone, accusate da Scarantino, che erano innocenti! Io nel libro, quest’ultimo, ho messo in appendice la registrazione del colloquio investigativo che ci fu. È un documento di ottanta pagine, da cui si vede che tutti sapevano tutto. E hanno lasciato correre. C’era chiaramente un coinvolgimento da parte della magistratura, ma anche della politica, peruna città 3 Due fratelli che se ne stavano al nord e hanno fatto tutto loro per decenni, indisturbati, perché godevano di una “favolosa protezione”, e quando sono stati presi tutto è cessato, nessuno è statopiù ucciso e nessuno hapiù indagato su dove fossero finiti i soldi prodotti per un decennio dal narcostato più importante del mondo; Sindona, Calvi, la consegna di Riina e chi mise l’esplosivo a Capaci, legato ai Servizi, “suicida” in carcere... Intervista a Enrico Deaglio. SONO LORO storia italiana poi Spatuzza subito tirò fuori che i suoi capi erano questi fratelli Graviano che erano in rapporti d’affari con Berlusconi

ché non è pensabile che una cosa del genere non fosse nota ai governi che si erano succeduti, non fosse nota al capo dello Stato, ai servizi… Quindi eravamo di fronte a un grande inganno che andava avanti da vent’anni. Così ho cominciato a interessarmi della vicenda in termini generali. Ho scritto diversi articoli con un po’ di notizie e un po’ di attenzione su questo tema l’avevo ricevuta. Sono stato chiamato a testimoniare in commissione antimafia da Rosi Bindi, e poi dall’ultima istituzione che ha seguito questa vicenda, che è la commissione antimafia della Regione siciliana, presieduta da Claudio Fava, che mi ha chiamato ufficialmente come consulente. Da tutte queste esperienze è nato questo secondo libro. Nel libro, una delle figure centrali è il commissario Arnaldo La Barbera, che fu il primo grande depistatore, un personaggio a dir poco inquietante... La presunta ansia da prestazione è verosimile? Ma no, non ci fu alcuna ansia di prestazione! La Barbera, per il fatto di aver scoperto l’assassino e aver risolto il caso, fece una carriera strepitosa. Già è una bella stranezza che fossero stati dati pieni poteri nelle indagini a un capo della Squadra mobile, già da allora associato ai Servizi, che tra l’altro aveva fatto tutta la sua carriera a Venezia, dove ne aveva combinate di tutti i colori con la banda di Felice Maniero, coi confidenti, compiendo illegalità di ogni genere, ma poi diviene responsabile della sicurezza di Falcone e Borsellino e ambedue vengono uccisi; è nominato capo delle indagini di via d’Amelio, annuncia di aver risolto il caso ed era tutto falso, diopodiché, forte del presunto successo, è nominato questore di Palermo, poi questore di Napoli, poi capo dell’Ucigos, cioè di tutto l’antiterrorismo: insomma, una carriera formidabile. Infine ottiene la vicedirezione del G8 di Genova come capo dell’antiterrorismo ed è lui a entrare materialmente alla Diaz e poi a costruire le falsità, ma per questo non ha avuto nemmeno un’incriminazione, anzi venne nominato vice-capo dei servizi segreti italiani. Dopodiché, per un tumore al cervello dal decorso rapidissimo, morì nel 2002 e, praticamente, ebbe dei funerali di Stato: ci andarono tutti, magistrati, politici, senatori, insomma, tutta l’Italia ufficiale, l’antimafia, e tutti lì a sperticarsi in lodi, pur sapendo tutti di quale specie fosse il personaggio. Impressionante! Ma perché è successo tutto questo? Chi volevano proteggere? Beh, questa è stata la chiave di partenza per il libro. La vera essenza di quello che è successo sta nel fatto che in quel periodo l’Italia si era trasformata praticamente, in Sicilia e in Calabria, in un narcostato. Il traffico di eroina, poi di cocaina, era diventato il principale asset dell’economia italiana e non sto esagerando, quindi dobbiamo immaginare un volume d’affari finanziari, economici e politici enorme, che pertanto non poteva essere rivelato. Lì ci fu proprio un patto, sottoscritto da tutti i grandi del cemento, in cui ognuno aveva il proprio interesse. C’era la Calcestruzzi, c’era Gardini, che all’epoca era il primo o il secondo industriale italiano, c’erano le cooperative come la Cmc di Ravenna, la Confindustria Sicilia, la Regione... D’altra parte è anche logico, se uno ci pensa, che un industriale edile del nord che ha bisogno di soldi per lavorare possa incontrarsi con chi detiene una quantità di liquidi enorme da investire e riciclare. Pensa solo a cosa vuol dire costruire Milano 2, quanti soldi servono, e di che enormità di finanziamenti hai bisogno per realizzare una televisione commerciale su scala nazionale. Ecco, in quel periodo gli unici ad avere i liquidi sono loro, i mafiosi. D’altra parte non c’è solo lo “stalliere” Mangano a testimoniare di questi rapporti, sono gli stessi fratelli Graviano a dire di aver prestato i soldi a Berlusconi e che, fra l’altro, “non li ha mai restituiti”… Quando poi le elezioni del ’94 le vinse a sorpresa Berlusconi, diventava assolutamente irrealistico che la magistratura si mettesse a perseguire il Presidente del consiglio. E quindi si inventarono un’altra pista, un’altra soluzione per far contenti tutti. Ecco, i due fratelli, i Graviano, del tutto sconosciuti al grande pubblico sembrano al centro di tutto... Questa è l’altra cosa impressionante, che, cioè, allo snodo di tutta questa vicenda, dal lato criminale, ci siano questi due fratelli Graviano. Sono loro i capi di questo Spatuzza e si arriva a loro tramite lui. È lui che dice: “Sono loro”. E questo è l’altro aspetto incredibile di tutti quegli anni, perché, come hai visto nel libro, erano sulla piazza da sempre e nessuno se n’era accorto. Se ne stavano al nord… Se ne stavano latitanti al nord, a Omegna, allora provincia di Novara, e da lì hanno gestito tutto. E poi evidentemente dovevano essere andati un po’ fuori dalle righe, perché quando vengono arrestati tutto l’impianto militare di Cosa Nostra finisce. Se ci facciamo caso, loro vengono arrestati il 27 gennaio del ’94, a Milano, tra l’altro mentre stavano preparando un grande attentato allo Stadio olimpico, dopodiché sono passati ben ventotto anni e non è più successo niente, nessuno è stato più ammazzato, nè un poliziotto, nè un carabiniere, nè un giudice, nè un uomo politico. Solo in Calabria ci fu l’omicidio di Fortugno, ma è un’eccezione, la realtà è che queste regioni sono praticamente pacificate, ma con il potere della mafia praticamente intatto. Ma Falcone e Borsellino cos’erano? Due persone del tutto incompatibili con l’Italia di quel tempo… Incompatibili. Falcone è molto intelligente, molto preparato e ha importanti contatti internazionali, aspetto decisivo vista la dimensione internazionale, soprattutto americana, del fenomeno, e quindi, come nel film, “L’uomo che sapeva troppo”, si trova nella situazione tragica di uno che capisce tutto, capisce l’entità della cosa e si rende conto che la cosa sarebbe andata a finire male. Se ne rende conto con il caso Sindona, perché lui è il primo a capire che cosa era successo. D’altra parte la vicenda Sindona è assolutamente fantastica. Quest’uomo -nel libro lo descrivo a lungo- che nasce proprio con lo sbarco americano, viene associato alla mafia e così comincia a fare grandi affari internazionali su queuna città 4 storia italiana nominato capo delle indagini, La Barbera annuncia di aver risolto il caso Borsellino ed era tutto falso l’unica possibilità che aveva di venire a capo di questa cosa era quella di fondare finalmente l’Fbi italiana

st’asse Sicilia-Stati Uniti, capisce che lì non basta fare affari, bisogna dominare la grande finanza, e lui ci riesce! Diventa uno dei più grandi banchieri americani e uno dei più grandi banchieri italiani e tutti a far finta di prenderlo sottogamba, anche dopo che aveva dato la scalata ai più grandi centri finanziari italiani, da Mediobanca alla Bastogi ed essere diventato il banchiere del Vaticano. Godeva dell’appoggio di Andreotti, della massoneria, da quel giro lì, ma era certamente un genio della finanza, che sapeva raccogliere denaro e poi usarlo su tutte le piazze possibili. Certo, era un gioco delle tre carte e a un certo punto questa cosa gli è andata male. Falcone aveva capito il giro, aveva capito cosa ci stava sotto. Poi glielo conferma Buscetta, siamo a metà degli anni Ottanta, glielo confermano gli americani, quindi lui si va a trovare in una situazione molto pericolosa, in cui tutti lo odiano, i suoi colleghi, i politici, tutti. Credo che l’unica persona con cui alla fine si sia confidato sia stato Borsellino. Camminava sul filo del rasoio e l’unica possibilità che aveva di venirne a capo sarebbe stata quella di fondare finalmente la Procura nazionale antimafia, per centralizzare le indagini, avere cioè un corpo di polizia giudiziario assolutamente autonomo, una Fbi italiana. Si trattava di dichiarare uno stato di emergenza nazionale con le dovute conseguenze. Ovviamente questo non piaceva alla mafia e neppure a tutta la parte di politica e di economia che a quel mondo è legata. E quindi la sua fine, a mio avviso, è segnata dall’inizio. E ci sono sicuramente molti indizi che lo dicono. Borsellino era a parte delle inchieste di Falcone. Ci sono altre persone, che erano a parte delle inchieste, che hanno cercato di salvarlo, però insomma, alla fine è stato tutto insabbiato. Questa è la storia. Dell’omicidio di Cassarà, un altro protagonista della lotta alla mafia, fai una descrizione veramente impressionante… In quegli anni, lì a Palermo, sembra di essere nel Far West. La guerra di mafia è provocata essenzialmente dal fatto che i denari del traffico di eroina sono troppi e le varie famiglie non sono abituate a gestire una tale mole di denaro, non hanno dei buoni consiglieri, perdono la testa e si odiano tra di loro. Ricordiamolo, è una guerra che provoca migliaia di morti. Ebbene, lì alla procura, alla squadra mobile di Palermo e anche nell’Arma dei Carabinieri, c’è un piccolo gruppo che fa riferimento a Falcone, alle sue indagini, poi al servizio centrale di Polizia, che piglia a cuore la cosa. È il tempo della preparazione del maxiprocesso. Fra questi c’è Cassarà, che è giovane, intelligente, politicamente è di sinistra, ha voglia di fare e usa pure metodi spicci. Non solo seguiva gli ordini di Falcone che gli chiedeva riscontri sulle dichiarazioni di Buscetta e di Contorno, soprattutto di Contorno, ma aveva messo le mani su un altro grandissimo e sconosciuto giro di traffico di eroina, quello del clan Cuntrera-Caruana, una famiglia tuttora poco valutata, poco trattata, di broker di eroina, sia negli Stati Uniti che, soprattutto, in Canada. Il loro rappresentante più importante era questo Francesco Di Carlo, morto poco tempo fa di Covid. Anche di lui si è sempre sottaciuta l’importanza, mentre è stato l’artefice di tutto questo sistema di brokeraggio che partiva dalle raffinerie italiane e andava in Canada e negli Stati Uniti. Ed era, questo lo dice lui, un membro sia di Cosa Nostra che del Sisde, in amicizia intima sia con Miceli che con Maletti e Santovito, i capi del Sisde e del Sismi negli anni Settanta, uno quindicoperto, protetto. Cassarà aveva intuito tutto questo. A un certo punto Di Carlo viene arrestato a Londra, dove era una potenza, gestiva un traffico di eroina nascosto in mobili d’antiquariato, e però l’accusa regge e non regge e quindi la giustizia inglese chiede agli italiani di venire a dare una testimonianza su chi sia questo Di Carlo. E gli italiani mandano Cassarà. Lì c’è una scena molto drammatica perché Cassarà spiega loro che Di Carlo è un delinquente, ricercato dalla polizia, un grande boss mafioso, eccetera, e Di Carlo, presente lì, nella gabbia dell’aula, lo minaccia di persona, dicendo che lo uccideranno. Cassarà capisce che a causa di quel viaggio a Londra la sua fine è segnata, e così è. E lo uccidono nel modo più spettacolare, con più di una decina di killer, appostati su tre piani del palazzo prospiciente a quello dove abita, con 250 proiettili di kalashnikov sparati… Lì, con Cassarà morirà l’agente Antiochia. Bisogna tener conto, per capire l’importanza di questo omicidio, di che tempi stiamo parlando. Temo che la gente si dimentichi abbastanza presto di quel che è successo in quegli anni. Quelli sono i tempi in cui Calvi, il capo della più grande banca privata italiana, viene ucciso a Londra. Calvi era il Banco Ambrosiano, una banca cattolica, la banca della borghesia milanese più conservatrice, più tradizionalista, che lì, insomma, ha i suoi depositi, le sue cassette di sicurezza e Calvi è quello che si mette in società con la mafia, con Gelli, con Ortolani, con tutta questa banda di delinquenti che gli spolpano la banca, fino a quando lui si trova nella situazione di dover restituire soldi che non ha più, e cerca l’ultima avventura a Londra dove viene ucciso dalla mafia medesima. Se uno pensa di fare quel mestiere, il banchiere soprattutto, deve essere una persona che non parla e purtroppo per lui Calvi non aveva più questa reputazione. Avevano paura che parlasse e che raccontasse tutto. Quindi lo uccidono. E chi lo uccide? Di Carlo. Lo strangola personalmente. una città 5 storia italiana Di Carlo è lì presente, in aula, davanti a lui, nella gabbia, e lo minaccia di persona, dicendo che lo uccideranno...

Io racconto queste cose perché quel che è successo in quegli anni in Italia è abnorme e sconosciuto! Hanno attaccato veramente i capisaldi della democrazia italiana: il sistema bancario, l’indipendenza della magistratura, tutto è stato messo in discussione e quando si arriva al fatto che Andreotti fa arrestare i vertici della Banca d’Italia per salvare Sindona, quando si arriva al punto che il più grande banchiere viene ucciso a Londra e si maschera un suicidio e i servizi segreti sono coinvoltissimi… Insomma, tutto questo sembra dimenticato. Di quel periodo resta solo la versione che c’era un contadino di Corleone, semianalfabeta, feroce, dominato dallo spirito di vendetta. Tutto qui. La politica non c’entrava, non c’entrava l’economia e i soldi di tutto questo grande traffico non si sa dove siano finiti. Ma i Graviano c’entrano anche con l’arresto di Riina? Certo, anche questo è un grande scandalo. Nel libro faccio molti riferimenti al cinema, in particolare al “Padrino”, un vero capolavoro, e la storia dell’arresto di Riina è la stessa di Salvatore Giuliano che venne raccontata magistralmente da Rosi nel suo film. Riina è stato consegnato. A un certo punto Riina non andava più bene a nessuno, era veramente esagerato, era pazzo, tra l’altro odiato anche dai suoi perché aveva promesso che avrebbe fatto assolvere le persone in Cassazione e non c’era riuscito. Quindi è stato consegnato. E lì devo aggiungere qualcosa sulla mia attività di “investigatore dilettante” a cui, in realtà, è capitato un colpo di fortuna. Mi aveva stupito da subito che Giuseppe Graviano avesse detto: “No, io ho l’alibi, non stavo neanche a Palermo, perché ho fatto tutta la mia latitanza a Omegna”. Ora, Omegna è questo paese magnifico sul Lago d’Orta che io frequentavo un po’ perché lì avevo un carissimo amico, Carlo Torre, il famoso perito, medico legale, che ogni tanto andavo a trovare. Lui aveva una casa sull’isola e passavamo qualche giorno lì. Allora mi aveva incuriosito il fatto un po’ strano che Graviano stesse lì e poi che questo Di Maggio, grazie al cui tradimento Riina, di cui era l’autista, sarà catturato, fosse stato arrestato a Borgomanero, che dista da Omegna dieci chilometri. Sono due palermitani che stanno lì… Mi parve curioso. E poi mi ricordo che Carlo, una volta che eravamo andati in gita, mi aveva fatto vedere un grande castello, di quelli che costruivano all’inizio del Novecento copiando i castelli medievali -in Piemonte ce ne sono parecchi- e mi aveva detto: “L’ha comprato Pasquale Galasso”, che è un eminente boss della camorra. E io: “Mah, strano…”, e lui: “Sì, non solo! Ma a un quando venne incarcerato, dopo essersi pentito fu messo agli arresti domiciliari qua, nel castello medievale. Lo si vedeva in giro”. Insomma, era tutto un po’ strano. Poi succede che siccome una clinica di Omegna è un’eccellenza nella sostituzione delle anche e mia moglie aveva bisogno di una sostituzione, sono stato lì una ventina di giorni. Così, non sapendo come passare il tempo, ho cominciato a informarmi su questa presenza di Graviano tanti anni prima. E dei vecchi giornalisti, perché sono storie di trent’anni fa, qualcuno si ricordava le cose e quindi ho raccolto un po’ di informazioni. La prima delle quali era che l’arresto di Balduccio Di Maggio non era avvenuto come l’avevano raccontato. Era avvenuto in un’altra maniera, era stato anche questo concordato... Nel libro ci sono i dettagli su questa vicenda. Poi, l’altra cosa che mi ha aiutato, siamo nel 2020, è la lettura delle dichiarazioni che Graviano rende quando è accusato, a Reggio Calauna città 6 storia italiana resta solo che c’era un contadino di Corleone, semianalfabeta, feroce, dominato da spirito di vendetta

una città 7 bria, di aver fatto un patto con la ’Ndrangheta e di aver ucciso due carabinieri, che è tutto vero. Lui approfitta di questo processo per fare dichiarazioni spontanee che durano ininterrottamente per tre giorni. Racconta tutta la sua vita. Nella storia della mafia non si è mai vista una cosa del genere, racconta proprio tutto: il papà, la mamma, i fratelli, come ha ucciso questo, come ha ucciso quell’altro e via di seguito. A un certo punto, però, ed è quello che mi ha colpito, si mette a parlare di Omegna, della sua latitanza lì, e dice: “Io qui godevo di una favolosa protezione”, e lo ripete tante volte. E colpisce che nessuno gli chieda niente su chi fosse a proteggerlo. Finché si mette a parlare apertamente dell’arresto di Balduccio Di Maggio, e racconta che loro, Graviano e i suoi amici, stavano giocando a poker quando vennero avvertiti che lo avevano arrestato e che lo tenevano lì in una villa, ma era prima della data dell’arresto ufficiale, e aggiunge: “Io lo sapevo che stavano preparando l’arresto di Riina perché nel mio albergo a Palermo erano arrivate le squadre speciali per preparare l’irruzione nella sua casa e la mia gente nell’albergo mi aveva avvertito”. Ancora: “Certo, avrei potuto avvertire Riina, ma non l’ho fatto”! Praticamente fa capire che l’ha tradito e forse quello è il patto per cui godeva di una favolosa protezione. Concludendo? Guarda, se vogliamo essere realisti, uno potrebbe anche vederla così: c’è stata una situazione, negli anni Ottanta, che è andata completamente fuori controllo. Però alla fine, anche se in maniera, come possiamo dire, molto eterodossa, molto illegale, la soluzione s’è trovata. La mafia non è più un pericolo, non è più una forza militare, il paese è in pace, i cattivi sono in galera al 41bis… Se uno vuole, può sostenere questa tesi. Non regge tanto rispetto alla Calabria, dove i calabresi sono a detta di tutti i più grandi importatori di cocaina dal Messico, dalla Colombia e hanno in mano la distribuzione in tutta Europa, però è vero che i siciliani hanno sicuramente diminuito il loro volume d’affari; il mercato dell’eroina non lo posseggono più, quindi si può dire che il pesce grosso è stato preso. Però nello stesso tempo vediamo com’è andata l’elezione recentissima per il sindaco di Palermo. La lancetta dell’orologio è stata riportata esattamente a trenta-quaranta anni fa, quando le persone legate alla mafia davano indicazione di voto e venivano elette queste figure che al tempo si chiamavano Lima, Ciancimino, eccetera. Diciamo che il potere amministrativo sulla Sicilia rimane assolutamente in mano a questi con tutto quello che vuol dire per la spesa pubblica, la corruzione dei politici, adesso col piano Pnrr, e tutto quanto. E la magistratura? Ecco, questa fa un po’ impressione, anche dal punto di vista culturale, sociologico. Con Falcone e Borsellino abbiamo pensato veramente che la magistratura potesse essere l’elemento fondamentale per vincere questa battaglia. E quindi abbiamo dato molto credito ai magistrati che sono venuti dopo. Nessuno avrebbe mai pensato che fossero, non dico corrotti, ma così incapaci. Tutte le indagini condotte negli ultimi trent’anni sono quasi ridicole. Noi abbiamo passato i primi quindici anni sul delitto Borsellino con l’impostura di Scarantino. Quindici anni! Una pista falsa a cui hanno partecipato tutti, tutti i magistrati! Questo ragazzo accusato era uno che non sapeva fare la propria firma e nessuno se n’è accorto in quindici anni? L’hanno manipolato in tutte le maniere. Sono cose da pazzi! Poi questo processo “della trattativa” che ormai va avanti da una ventina d’anni e dove si spiega che tutto quello che è successo in Italia lo si deve a una trattativa per eliminare il carcere duro del 41bis, una cosa che non sta né in cielo né in terra. Tutto l’aspetto reale, decisivo, della questione, quello economico, i soldi, gli interessi, scompare. E hanno montato su un castello di sciocchezze, coinvolgendo addirittura Napolitano, con le telefonate segrete, Conso, e, tra l’altro, venendo sempre bocciati. Adesso questo processo è alla fine, e hanno sempre assolto tutti, perché la cosa non sta in piedi. E nello stesso tempo questi magistrati, in particolare Di Matteo, che ha condotto questa inchiesta, sono diventati delle star politiche. Di Matteo è l’uomo dei Cinquestelle, chiede che gli sia data la direzione delle carceri, mentre in realtà non ha mai combinato nulla. Faccio un ultimo esempio, un caso su cui nel libro mi dilungo e che mi sta a cuore, quello di Nino Gioè. Un altro scandalo mostruoso. Gioè è una persona che partecipa a tutti i fatti più gravi, a cominciare da Capaci, voglio dire che l’ha fatta lui materialmente, ha messo lui l’esplosivo. Ebbene, viene fuori che è arruolato dai servizi segreti fin da quando era giovane! E poi lo ammazzano a Rebibbia e dicono che si è ammazzato per il rimorso e nessun magistrato ha mai indagato! Francamente non so cosa pensare. Quello che vorrei è che ci fosse, da parte della magistratura in particolare, un atto di contrizione, di pentimento, perché queste persone sono state degli irresponsabili. Hanno dato al popolo italiano un’idea sconvolgente di che cosa sia la giustizia nel nostro paese. Perché si sono comportati così? Non lo so, un po’ perché ci si sono trovati in mezzo, e ognuno ha pensato solo a salvaguardarsi, a non denunciarsi l’uno con l’altro, a fare carriera, poi ci sono tutte le cose venute fuori con Palamara, ognuno che si spia con l’altro, le correnti... Purtroppo è così. Uno poi immagina che ci sia sempre un grande male, ma spesso è la banalità della vita di questi corpi separati a fare la parte principale... (a cura di Gianni Saporetti) storia italiana e parla di Omegna, della sua latitanza lì, e dice: “qui godevo di una favolosa protezione”, e lo ripete più volte questo ragazzo accusato era uno che non sapeva fare la propria firma e nessuno se n’è accorto in quindici anni? UNA CITTA’ Redazione: Barbara Bertoncin, Giorgio Calderoni, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (direttore), Giuseppe Ramina (direttore responsabile). Collaboratori: Isabella Albanese, Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Oscar Bandini, Luca Baranelli, Michele Battini, Amalia Brandi Campagna, Dario Becci, Antonio Becchi, Alfonso Berardinelli, Sergio Bevilacqua, Guia Biscàro, Stephen Eric Bronner, Thomas Casadei, Flavio Casetti, Alessandro Cavalli, Giada Ceri, Luciana Ceri, Francesco Ciafaloni, Luciano Coluccia, Francesca De Carolis, Carlo De Maria, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Fausto Fabbri, Roberto Fasoli, Adriana Ferracin, Enzo Ferrara, Bettina Foa, Vicky Franzinetti, Andrea Furlanetto, Iacopo Gardelli, Wlodek Goldkorn, Belona Greenwood, Joan Haim, Massimo Livi Bacci, Giovanni Maragno, Emanuele Maspoli, Lisa Massetti, Franco Melandri, Annibale Osti, Cristina Palozzi, Cesare Panizza, Irfanka Pasagic, Andrea Pase, Lorenzo Paveggio, Edi Rabini, Alberto Saibene, Ilaria Maria Sala, Massimo Saviotti, Sulamit Schneider, Massimo Tirelli, Fabrizio Tonello, Alessandra Zendron. In copertina: via d’Amelio, 19 luglio 1992. Hanno collaborato: Martino Fabbri, Maria Giorgini, Matteo Lo Presti, Giulia Mengolini, Oxana Pachlovska, Michael Walzer, Monika Weissensteiner. Proprietà ed editore: Una Città società cooperativa. Questo numero è stato chiuso l’8 agosto 2022.

una città 8 Come milioni di americani, sono rimasto incollato allo schermo televisivo a guardare le audizioni del Comitato speciale della Camera dei Rappresentanti sul tentativo di colpo di Stato del 6 gennaio 2021: emozionato, arrabbiato, spaventato, non sono riuscito a distogliere lo sguardo. Ma avrei potuto cominciare questo articolo in un altro modo. A differenza di milioni di americani, sono rimasto incollato allo schermo della tv... Molti di coloro che non hanno guardato erano al lavoro (tutte le udienze si tenevano di pomeriggio), alcuni erano indifferenti; ma per milioni di persone, ancora una volta, il non guardare la tv è stato deliberato, programmatico, un esplicito rifiuto di sostenere in qualsiasi modo questo attacco ai “patrioti” del 6 gennaio. Chi ha guardato e chi si è rifiutato di guardare: ecco l’America divisa. Per quelli di noi che hanno guardato, e soprattutto per i liberal di sinistra come me, ci sono stati momenti straordinari, rivelatori e istruttivi. Abbiamo imparato a conoscere gli uomini e le donne che hanno fermato il colpo di Stato, che hanno detto no a Donald Trump -uomini e donne integri e coraggiosi, molti dei quali hanno avuto e tuttora hanno posizioni politiche che trovo ripugnanti. È davvero possibile credere in uno Stato laissez faire che ostacola la sindacalizzazione, rifiuta qualsiasi politica redistributiva che non arricchisca i già ricchi, che non fornisce alcuna assicurazione sanitaria, che non fa nulla per fermare il riscaldamento globale, e tuttavia sostenere con fermezza una transizione costituzionale che insedia un presidente con progetti completamente diversi? Sì, ci sono stati uomini e donne che sono rimasti saldi, e spesso non erano quelli che noi (sinistra liberale) ci aspettavamo. È importante dire che dal novembre 2020 al gennaio 2021 il centro ha tenuto; la democrazia è sopravvissuta. Le forze armate e tutte le agenzie di sicurezza, lo “Stato profondo”, hanno sostenuto la transizione costituzionale; migliaia di americani, di destra e di sinistra, hanno contato e ricontato le schede elettorali e hanno insistito per ottenere un conteggio corretto; i funzionari statali si sono rifiutati di manomettere i risultati; i giudici nominati dai presidenti democratici e repubblicani si sono pronunciati più volte contro i ricorsi degli avvocati di Trump. Persino il vicepresidente, che per quattro anni era sembrato infinitamente obbediente e ossequioso, è riuscito all’ultimo minuto a fare la cosa giusta. Eppure, le udienze ci hanno mostrato in modo spaventosamente dettagliato quanto siamo stati vicini al disastro politico, quanto fragile possa essere la democrazia. Il narcisismo di Trump e la sua demagogia sono solo, per così dire, la copertina della storia, i primi paragrafi. Il resoconto complessivo include il gran numero di americani bianchi e religiosamente conservatori che credono che il “loro Paese” sia stato loro sottratto, che è in atto una “sostituzione” che li vede rimpiazzati da un assortimento di elitari, socialisti, ebrei, immigrati, musulmani e messicani, tutti organizzati dal Partito democratico, a cui bisogna opporsi, se necessario con la violenza. Il risentimento plasma la politica di troppi americani. Trump è il loro leader e loro le sue truppe di terra. Alcuni di loro pensano che il 6 gennaio sia stata solo una prova generale per una futura presa di potere autoritaria. Ma in questo momento mi preoccupa di più il Partito repubblicano, uno dei due unici partiti del nostro sistema politico, metà del Paese, che è stato preso in mano dai trumpisti o, forse meglio, da politici che credono di poter cavalcare l’onda del risentimento razzista e religioso per raggiungere il potere politico. Molti di loro probabilmente non credono che i bianchi americani siano stati “rimpiazzati”, né adorano realmente il Leader, ma percepiscono la possibilità di prendere il controllo del Paese anche se non riescono a conquistare i voti della maggioranza dei loro connazionali. Sono persone in cerca di potere e che hanno perso fiducia nella democrazia. Hanno gli stessi progetti di destra degli uomini e delle donne che ho già descritto e che hanno detto no a Trump, ma senza la loro integrità. In Trump e nei suoi seguaci vedono un’opportunità politica. I giudici della Corte Suprema di estrema destra, ora maggioranza della Corte, hanno il loro programma, di cui non posso parlare in questa sede, ma stanno dimostrando di sostenere il trumpismo senza crederci veramente. Immagino che il tentativo di colpo di Stato li abbia messi a disagio, ma le loro recenti sentenze hanno certo rallegrato i seguaci di Trump e rafforzato la percezione dei repubblicani che il potere sia a portata di mano. La prossima significativa sentenza della Corte, prevista per l’autunno, probabilmente convaliderà molte delle nuove leggi elettorali progettate dalle legislature statali controllate dai repubblicani per ridurre la partecipazione degli elettori neri e poveri. La sentenza potrebbe garantire sconfitte democratiche per decenni a venire. Negli Stati repubblicani, i funzionari che hanno insistito per tutelare l’integrità delle elezioni del 2020 sono stati sostituiti da persone convinte che le elezioni siano state rubate e che le prossime dovranno produrre il risultato “giusto”. Gli americani che si impegnano per la democrazia hanno tutte le ragioni per preoccuparsi. Le audizioni sono volte a rispondere alle nostre preoccupazioni. Cosa dobbiamo sperare da esse? Poiché gran parte della politica americana di questi tempi offre poche speranze, forse nutriamo troppe aspettative verso questo Comitato speciale: speriamo in una vittoria legale sul trumpismo e anche in una vittoria politica. La maggior parte delle persone con cui parlo ogni giorno di politica si concentrano sull’aspetto legale; vogliono vedere Trump incriminato e assistono con impazienza all’apparente riluttanza del procuratore generale Garland a iniziare il processo legale. A loro sembra ovvio che Trump abbia cospirato per rovesciare le elezioni del 2020 e che abbia incitato la violenza della folla il 6 gennaio. Io sono scettico, non sulla colpevolezza di Trump (le udienze hanno presentato un caso straordinariamente persuasivo), ma piuttosto sulle prospettive di successo legale. Le leggi sulla cospirazione e sull’istigazione sono complesse e aperte all’interpretazione legale. Non è chiaro se le sottigliezze delle argocosa sta succedendo CHI HA GUARDATO E CHI NON HA GUARDATO Le audizioni del Comitato della Camera dei Rappresentanti degli Usa sul fallito tentativo di colpo di Stato del 6 gennaio 2021, che stanno dividendo l’opinione pubblica; il rischio che l’incriminazione, ed eventualmente l’incarcerazione, evitino a Trump la perdita della sua onorabilità e credibilità e creino un pericoloso precedente politico. Di Michael Walzer.

una città 9 mentazioni sentite in aula avrebbero risonanza presso un vasto pubblico o presso una giuria di coetanei di Trump; un verdetto di colpevolezza, se dovesse arrivare, verrebbe appellato e c’è comunque un’alta probabilità che il verdetto venga ribaltato da giudici conservatori a qualche livello del sistema federale. Il Paese ha tratto beneficio dalle sentenze di novembre e dicembre 2020 sulle frodi elettorali. La cospirazione e l’istigazione sono questioni molto più complesse. Ora il processo sarebbe rischioso: si pensi alla possibilità che Trump venga assolto e trionfi. Ma c’è un altro motivo di scetticismo rispetto al portare Trump in tribunale. Ricordiamo le elezioni del 2016 e l’appello, incoraggiato da Trump, “Rinchiudetela!”. Il motivo immediato per mandare in galera Hillary Clinton era la faccenda delle sue email. Non l’ho mai capita bene; di certo non si trattava di qualcosa di così grave come la cospirazione e l’istigazione. Ma quelle grida segnalavano una specifica ambizione: vincere le elezioni e mandare in prigione l’avversario. Nella lunga storia delle successioni e delle transizioni politiche, la prigione e la morte erano il destino comune di re e regine rovesciati, pretendenti al trono sconfitti, oligarchi e cortigiani che perdevano nella lotta per il potere. La politica era un’attività ad alto rischio. Il liberalismo e la democrazia sono stati concepiti per ridurre i rischi: se si perdono le elezioni si va a casa. Mi piace l’idea di una politica a basso rischio e quindi diffido di appelli tipo “Rinchiudetelo!”. Mandare Trump in prigione potrebbe essere un trionfo della giustizia, ma potrebbe anche essere un pessimo precedente politico. D’altra parte, i crimini di Trump non hanno precedenti nella storia americana e forse neanche nella storia delle democrazie occidentali, quindi forse questo è il momento di tracciare un confine. Non manderemo in galera i presidenti sconfitti per nessuno dei comuni peccati politici; comprendiamo la forza dell’affermazione dell’Hoederer di Sartre in Mani sporche, secondo cui nessuno può governare in modo innocente, e promettiamo di non perseguire i normali “cali di innocenza”, per così dire. Si potrebbe dire che Trump, tuttavia, è un’eccezione; non possiamo lasciarlo libero. Potrebbe essere giusto. Tuttavia, temo che non sarà facile tracciare una linea di demarcazione abbastanza chiara da convincere gli americani che l’incriminazione di Trump è un’eccezione necessaria alla normale politica democratica e non un esempio di rozza partigianeria. Un Trump disonorato e sconfitto sarebbe probabilmente meglio di un Trump incriminato. Ma tale disgrazia e sconfitta sono davvero all’orizzonte? È difficile giudicare l’effetto delle audizioni del Comitato speciale. Alcuni sondaggi mostrano solo un leggero spostamento del sentimento contro Trump; alcuni studi basati su focus group suggeriscono uno spostamento molto più ampio. Trovo difficile credere che molti elettori indipendenti e repubblicani inquieti, tra coloro che hanno guardato la tv, non siano rimasti inorriditi o almeno turbati dalla testimonianza di tanti trumpisti disillusi. Si potrebbe dire che il primo obiettivo politico del Comitato sia stato quello di dare a uomini e donne che hanno votato per Trump una via d’uscita; possono unirsi ai funzionari e ai dipendenti che alla fine (in ritardo, direi) hanno detto no. È la cosa più onorevole da fare e anche, in questa fase, relativamente facile. Le persone che si sono rifiutate di assistere alle udienze sono una causa persa, ma è sufficiente una piccola rivolta contro Trump per salvarci dalla catastrofe di un secondo mandato (nell’ipotesi di elezioni libere e regolari nel 2024). Più di così mi sembra che non possiamo aspettarci. A questo punto di una triste analisi politica, è consueto invocare la frase di Max Weber: la politica è “il lento e tenace superamento di dure difficoltà”. Gli americani come me hanno davanti a sé una lunga battaglia contro una pericolosa politica di estrema destra. Errata corrige. Il pezzo di Micahel Walzer apparso sullo scorso numero con il titolo “La guerra giusta” è stato pubblicato per gentile concessione del “Wall Street Journal”. Rob Olivera Una guardia di sicurezza schiacciata dai manifestanti che fanno irruzione a Capitol Hill, 6 gennaio 2021 (fotogramma della diretta tv)

Sarah Viola, psichiatra e specialista in Psicologia Medica, lavora a Bergamo. Dal 2010 a oggi in Italia sono stati commessi 268 figlicidi: sei su dieci sono commessi dalle madri. È del 14 giugno la notizia del ritrovamento del corpo di Elena Del Pozzo, cinque anni, in un campo vicino a casa, nel catanese. A toglierle la vita è stata la madre 23enne, Martina Patti, che, dopo aver cercato di inscenare il rapimento della bambina, ha confessato. Dietro all’omicidio ci sarebbe la gelosia che la donna nutriva nei confronti della nuova compagna dell’ex marito, che stava legando con la bambina. Raccontando questo caso, i giornali hanno citato la sindrome di Medea. Perché? Il mito racconta che Medea viene tradita da Giasone. Così, per vendetta, decide di fare a pezzi i loro figli, li cucina e glieli serve come piatto. La sindrome di Medea racconta un aspetto della psiche della donna che esiste, e che esisteva già nell’antica Grecia: la pulsione aggressiva. Per Medea, come per molte donne, l’esperienza d’amore, in questo caso l’amore di coppia, è un’esperienza totalizzante e in alcuni casi può succedere che la perdita dell’oggetto d’amore faccia perdere di significato tutto il resto. Un figlio diventa così un’arma “preziosissima” per colpire colui o colei che ha ferito, tradito o lasciato. Drammi come questo omicidio avvengono quando la perdita dell’oggetto d’amore, che comporta appunto la completa perdita di significato, incontra gelosia o possessività patologiche. E i figli diventano uno strumento di vendetta per ferire l’altro. Il padre della piccola Elena del Pozzo ha infatti dichiarato che la bambina era “la cosa che amava di più”. La sindrome di Medea non abita fortunatamente tutte le donne, ma in tutte le donne abbandonate si ravvisa quella che nel film con Margherita Buy e Luca Zingaretti “I giorni dell’abbandono” (2005) viene descritta molto bene: una posizione depressiva che si definisce come “l’anno del divano”: un periodo in cui la vita appunto appare svuotata di significato. Quando la donna viene lasciata spesso si sente immobilizzata e paralizzata da quel vuoto di senso. Può passare ore o giornate a fissare il vuoto con i figli che le dicono: “Mamma dobbiamo andare a scuola”. Quali sono, se esistono, delle “condizioni favorevoli” perché in un contesto familiare maturi un figlicidio? Si tratta di determinate condizioni che devono essere presenti contemporaneamente. La prima è una condizione di sostanziale dipendenza della donna dal suo sentimento d’amore -quindi dalla sua relazione di donna in un rapporto di coppia al quale non riesce a rinunciare. Inoltre si ravvisa un atteggiamento di fragilità o un disturbo di personalità di tipo dipendente, un abbandono vissuto in maniera drammatica da una persona che non possiede gli strumenti necessari per accettare questa condizione. Infine una labilità emotivoaffettiva, per cui è facile che il figlio da elemento d’amore diventi elemento di disturbo e, quindi, appunto, strumento di vendetta. Può spiegare perché il tanto citato “raptus” nei casi di cronaca efferati in realtà non esiste? I segnali, i campanelli d’allarme, ci sono sempre. Non si diventa Medea da un momento all’altro. Il concetto è banale: nessuno si sveglia una mattina e diventa un omicida. Ci sono episodi drammatici che maturano in una quotidianità che dura a volte mesi, quando non addirittura anni, e che si può evitare che finiscano in tragedia. Il raptus non esiste: è un momento di acme, in cui la persona passa all’atto -che è preceduto da una serie di momenti preparatori che ciascuno di noi potrebbe cogliere nei comportamenti di un suo congiunto. Si manifestano sempre dei campanelli d’allarme che precedono un fatto drammatico come un figlicidio o un femminicidio. Il problema è che quei segnali non li cogliamo o li sottovalutiamo: spesso siamo disarmati, non abbiamo strumenti. La cura della psiche è ancora un concetto pericolosamente trascurato in Italia. Convincere una persona a curarsi non è ledere la sua libertà, anzi: è tutelare la vita sua e delle persone che le stanno intorno. Oggi le madri sono troppo spesso sole. E finché non accettiamo l’idea che anche nelle mamme esistono delle zone d’ombra, di malessere, non le aiuteremo mai. E di conseguenza non ne coglieremo i segnali e non aiuteremo i figli. Quanto pesa l’ideale stereotipato di maternità secondo il quale deve essere necessariamente un’esperienza appagante e felice? Questo fa sì che le madri che non la vivono felicemente si sentano sbagliate? È molto importante questo concetto: l’istinto materno è un’invenzione della società. È vero che le donne sono capaci di sacrifici enormi, non solo per i figli, ma in generale (per i genitori o i fratelli ad esempio). Si pensa che l’istinto materno renda una donna perfetta e infallibile dal momento del parto in poi. L’istinto materno però non è altro che la capacità di sacrificio che le donne possiedono anche quando non sono madri. Tendiamo a dimenticare che le madri spesso vivono situazioni di fatica e di solitudine che le rendono davvero pericolose. Soprattutto oggi che le donne diventano madri da sole -la famiglia ormai è mononucleare: c’è la coppia e basta. Una volta le mamme diventavano tali all’interno di famiglie numerose: la donna aveva tantissimi “soccorritori” attorno a lei. La stanchezza e la solitudine sono davvero le insidie delle madri di oggi che infatti nel nostro Paese tendono ad avere figli sempre più tardi o a rinunciarvi perché consapevoli di quello che rappresenta una maternità in solitudine. Va ricordato che essere madre non significa solo essere amorevole: essere madre spesso significa anche sentirsi stanca, sola, confusa, disperata, arrabbiata. Sono sentimenti che il bambino avverte. Questo non significa a livello antropologico che tutte le donne siano potenziali assassine, ma che in tutte le donne esiste la concezione del figlio una città 10 problemi di salute QUEL VUOTO DI SENSO Relazioni di coppia totalizzanti in cui il figlio può diventare un'arma di vendetta per ferire il coniuge; la sindrome di Medea, il mito della madre perfetta che fa da contraltare a quello del "mostro"; stanchezza e solitudine insidie delle madri di oggi. Intervista a Sarah Viola. finché non accettiamo l’idea che anche nelle mamme esistono delle zone d’ombra, di malessere...

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