Una città n. 285

russo che appoggiava Milosevic e odiava i musulmani, che si era fatto riprendere mentre sparava ai bosniaci dalle colline di Sarajevo (Pawel Pawlikowski ha fatto un documentario sulla sua vita). Ecco, ricordo che quando ho letto in quell’articolo che Limonov era uno scrittore “controverso” (la parola mi è rimasta ben impressa!) per la sua ideologia, ma che comunque andava letto... non so, mi sono accorto che io invece non riuscivo a tenere insieme le due cose. Non potevo accettare che si dicesse che Limonov è un bravo scrittore e il resto sono cose private. Ho avuto un senso di ribellione; lo stesso che ho provato quando Peter Handke ha vinto il premio Nobel. Questa separazione tra l’opera e l’autore, per cui non ci deve interessare quello che ha detto di Srebrenica, della Bosnia... Mi sembra che questa volta le cose siano un poco cambiate. Quando parliamo della guerra in Ucraina, ci sono due piani di riflessione. Da un lato tutti vogliamo la pace e la fine dei combattimenti, ma dall’altra tutto si gioca attorno alla parola “vittoria” e a cosa consideriamo tale. La mia convinzione è che oggi l’Ucraina è in prima linea nella guerra scatenata dalla Russia, ma in questo campo di battaglia ci siamo anche noi, la Polonia, l’Italia... Allora la guerra in Ucraina è cruciale per capire chi è oggi il nostro nemico e come ci collochiamo. Io oggi mi schiero pubblicamente a favore dell’invio di ogni aiuto necessario all’esercito ucraino, anche all’acquisto dei droni Bayraktar; noi, come fondazione, organizziamo iniziative culturali per raccogliere soldi per gli ucraini. Quindi da un lato c’è l’aiuto militare. Poi però c’è la dimensione della narrazione, che è diventata fondamentale. C’è la propaganda russa. Se ricordate, ai tempi della guerra in Yugoslavia c’era la stessa situazione: si voleva far passare la guerra come un conflitto in cui tutti combattevano contro tutti, e siccome tutti avevano delle colpe nessuno era colpevole... Questo, tra l’altro, ha impedito ai serbi di fare i conti con le loro responsabilità perché è prevalsa questa narrativa che in qualche modo cancellava le differenze tra le parti. Dei tempi della guerra in Yugoslavia ricordo anche che chi sosteneva Milosevic e i serbi insisteva che non c’era il bianco e nero... Per chi, come me, si trovava dentro il conflitto, queste erano affermazioni insostenibili. E non perché la cosa mi colpisse personalmente, noi tutti abbiamo delle zone d’ombra sia come individui che come comunità, ma per come la vedevo e la vedo io c’è un cecchino e c’è una vittima, c’è una donna che viene stuprata e c’è uno stupratore. Gli antichi greci avrebbero parlato di “phronesis”, cioè dell’abilità di distinguere il bene dal male. Questo era l’impegno spirituale degli stoici: come filosofo, attraverso la meditazione o con altri strumenti del pensiero, devi essere in grado di dividere il bene dal male. Nella phronesis c’è questa competenza. Che non significa, naturalmente, che una persona sia interamente malvagia e un’altra totalmente buona, ma che in una persona, in ciascuna società, in un conflitto, si può sempre distinguere dove sia il male in quella particolare situazione. Nel momento in cui perdiamo quest’arte, questa capacità, abbiamo un problema. La cultura occidentale contemporanea ha effettivamente un problema con il relativismo, un principio a cui ci siamo affidati con le migliori intenzioni perché erano i regimi e le ideologie a dividere tutto in bianco e nero, mentre la vita è più complessa eccetera... Ebbene, in una situazione limite, fatta di drammi veri e di persone reali, improvvisamente la visione torna chiara. E tu lo sai, lo vedi. Se sei a Mariupol la linea tra il bene e il male è netta. Oggi la sfida è difendere questi strumenti, perché altrimenti finiremo vittime del gioco delle diverse narrative. Chi vuole manipolare la verità dice sempre che le cose sono più complesse. Anche la narrazione fatta da Papa Francesco sull’Ucraina, quando ha detto che le cose non sono “in bianco e nero”, ha fatto suonare un campanello d’allarme: anche lui di fatto ha usato una narrazione manipolatoria per esentarci dalle responsabilità che questa concreta situazione invece pretende. È stato un modo per sottrarsi alla limpidezza della phronesis. Credo che oggi comunque qualcosa sia cambiato e che, rispetto ai primi anni Novanta e alla guerra nella ex-Yugoslavia, sarebbe più difficile avere un nuovo Peter Handke che viene premiato. Intendiamoci, anche oggi la gente è portata a una visione pacifica, a sottrarsi alle proprie responsabilità, ma vedo più difficile avere artisti, scrittori apertamente filo-Putin e al contempo destinatari di riconoscimenti, premi e celebrità come avvenuto appunto con Handke. Mi sembra ci sia una nuova sensibilità, per quanto labile... Abbiamo allora di fronte un nuova sfida che è quella di sviluppare nuove sensibilità culturali, con una gerarchia di valori, e con un linguaggio capace di comprendere il mondo. Non c’è ritorno, secondo me, alla narrazione pacifista del passato, alla confortante posizione di essere contro la guerra punto, senza assumerci la responsabilità del destino delle vittime dei paesi a cui abbiamo negato l’aiuto militare. Per decenni ci siamo goduti la pace in Europa, ma abbiamo dimenticato che in Cecenia, in Siria, in altri angoli del mondo, è stato pagato un prezzo salato per la nostra pace, per il nostro comfort. Il tema della guerra e la pace è stato fonte di dibattito anche nella vostra comunità? Anche qui c’è chi dice: “Noi non mandiamo sostegno militare perché siamo umanisti, perché siamo contrari alla guerra”. Ecco, come “borderlander”, come abitante di una terra di confine, so che per molti le mie posizioni possono suonare contraddittorie perché io professo il dialogo e una persona dialogante cerca di evitare in tutti i modi gli strumenti violenti. E tuttavia, proprio in quanto abitante di questa terra di confine, ho conosciuto diversi conflitti e abbiamo legami, partnership, rapporti di amicizia con molte persone vittime di guerra e anche con combattenti. Il borderlander è una persona del dialogo, ma non è un utopista. Abbiamo portato la fondazione in questo piccolo villaggio, lasciando la grande città e l’accademia, proprio perché volevamo sporcarci le mani. In ambito accademico, sarebbe ben più semplice discutere di confini, alterità, minoranze, ecc., diverso è se ci si confronta e ci si lascia mettere in discussione da persone in carne e ossa, dalla vita reale, che si svolge in uno spazio concreto. In questi anni abbiamo pubblicato molti libri, alcuni anche molto dolorosi, sulle relazioni tra ebrei e polacchi, tra polacchi e ucraini. Quando tocchi qualcosa di reale, come la vita delle persone, il loro dolore; quando essere “umanitario”, essere un costruttore di ponti smette di essere un concetto ma vuole porsi come risposta a situazioni reali, la tua visione cambia. C’è questo termine famoso, “ahimsa”, azione non violenta, che è diventato una specie di mantra per i pacifisti: l’idea è che si può essere efficaci senza ricorrere alla violenza. Il fatto è che Gandhi la usava in una situazione molto concreta, e in quella era efficace. Ahimsa vuol dire combattere contro il male, intraprendere azioni efficaci contro il male. Ma questo significa rispondere a situazioni diverse con azioni diverse. Ahimsa non è un’ideologia che si assume acriticamente. Nel mio libro, Xenopolis, riprendo la storia zen dei due monaci buddhisti, un vecchio una città 26 gli antichi greci avrebbero parlato di “phronesis”, cioè dell’abilità di distinguere il bene dal male Ahimsa vuol dire intraprendere azioni efficaci contro il male, cioè rispondere a situazioni diverse con azioni diverse internazionalismo democratico

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