Una città n. 285

e un giovane che, girovagando, si imbattono in un fiume in piena. Sulla riva del fiume c’è una donna che chiede loro di aiutarla ad attraversare il fiume. I due monaci provengono da un monastero dove vigono regole molto ortodosse, in base alle quali, in quanto uomini, è proibito toccare le donne; inoltre non si deve parlare mai durante il giorno per rimanere puri e fedeli alla propria religione e al proprio monastero. Ebbene, mentre il novizio indietreggia indignato, il vecchio maestro, senza tante parole, va incontro alla donna, la solleva con le sue braccia e la aiuta ad attraversare il fiume. Una volta giunti sull’altra riva, la fa scendere e i due proseguono il loro cammino. Il giovane però non si fa una ragione di quanto accaduto. Per ore rimprovera il vecchio per la sua negligenza nel rispettare la santa regola dell’astinenza: aveva dimenticato che era un monaco? Come aveva osato toccare una donna? Come aveva potuto infrangere i giuramenti, il suo credo? Il vecchio monaco ascolta pazientemente la predica. Alla fine, lo interrompe e commenta: “Fratello, io ho lasciato quella donna al fiume. Non sarà che tu te la stai ancora portando dietro?”. Questa storia rappresenta bene come io vedo la situazione che stiamo affrontando nella guerra in Ucraina. Non bisogna rimanere prigionieri delle proprie credenze, delle posizioni del proprio passato: è necessario partire da quella che è la situazione reale, dal dolore e dalle vite di persone in carne e ossa, e fare quanto è in nostro potere per aiutarli. Ricordo un’altra frase di Papa Francesco, questa volta una bellissima frase, pronunciata poco dopo essere stato nominato Papa. Era andato a Lampedusa e gli avevano chiesto quale dovesse essere il ruolo della Chiesa cattolica in quella ondata migratoria. Ecco, la sua risposta è stata che la Chiesa avrebbe dovuto comportarsi come un ospedale da campo, un ospedale di guerra, quindi pronto ad accogliere tutti, ad aiutare tutti, senza domandare a nessuno la nazionalità, la religione, e così via. È così che io interpreto questa situazione: dobbiamo fare del nostro meglio in questa situazione concreta e a partire da questa potremo poi sviluppare una nostra filosofia, delle idee su come fronteggiare situazioni analoghe. Molti in Occidente hanno un problema con questa guerra; questa volta non c’è un embargo, e noi stiamo sostenendo gli ucraini con le armi, con ogni genere di aiuto, contestiamo gli artisti russi indifferenti o apertamente filo-Putin, prendiamo posizioni controverse e comunque non facili. Nel frattempo vediamo che in Ucraina le persone sono pronte a dare la vita, a sacrificarsi in nome della loro nazione e di nuovo c’è una contraddizione perché noi invece ci professiamo cosmopoliti, non vogliamo più le nazioni e i nazionalismi, giusto? Noi siamo oltre queste categorie del passato... Il fatto è che oggi, nella concretezza di questa specifica situazione, chi difende l’Europa combatte portando avanti una guerra in difesa di una nazione. Capisco che questo sia difficile da comprendere per i miei amici europei, liberal e pacifisti. “Cosa faranno i nazionalisti ucraini dopo la guerra?”. Torniamo subito alle categorie del passato... Invece dobbiamo rimanere ancorati alla situazione concreta. Certo, ci saranno molti problemi, ma dobbiamo fare lo sforzo di trovare un nuovo linguaggio, una nuova narrazione per affrontare la situazione. E poi potremo parlare di vittoria. La posta in gioco è anche questa. Oggi il nemico è Putin e la sua narrazione, questa sua potenza anti-umanitaria e noi dobbiamo riuscire a opporci a tutto questo. Ma poi c’è un altro livello: ciascuno di noi ha un proprio campo di battaglia in cui combattere: nel mondo della cultura, nella scuola, nelle nostre comunità locali, in Polonia, in Italia, altrove… è questa la nostra battaglia. Il tipo di risposta che sapremo fornire alle sfide poste da questo conflitto sarà decisivo, perché è una battaglia che ci riguarda tutti. Hai rapporti con artisti o scrittori russi? Certo e discutiamo molto. Qui devo dire che l’invito che ho fatto loro è quello di stare in guardia dal pericolo del vittimismo. Nella loro condizione è facile -ma pericoloso- sentirsi delle vittime, addirittura considerarsi alla pari con gli ucraini. In questo momento rischiano anche di finire in preda all’ossessione della loro sofferenza personale e collettiva. Sappiamo che la cultura russa è vulnerabile a questi sentimenti per via della storia… il punto è che quello è il prezzo che stanno pagando per essere cittadini di quel regime. In questi contesti è facile essere assorbiti dalla propria sofferenza, al punto da non vedere quella degli altri, dal non provare empatia per i tuoi vicini... Purtroppo queste sono dinamiche che colpiscono anche chi è contro Putin: l’ossessione per la propria situazione ingiusta rende difficile riconoscere le responsabilità del proprio paese. In alcuni amici russi comunque ho assistito a una dolorosa evoluzione delle loro posizioni e qualcuno di loro oggi raccoglie aiuti per le vittime ucraine e si impegna a dar loro voce. Si tratta di passare dalla convinzione di non avere colpe alla presa di coscienza di far parte di un regime che ha delle responsabilità. È la questione della colpa collettiva. Qualche anno fa abbiamo pubblicato il libro di Jan gross “Vicini”, sul pogrom di Jedbawne nel quale diverse centinaia di ebrei furono uccisi dai vicini polacchi. Devo dire che quando sono venuto a conoscenza di quella vicenda, come polacco, mi sono sentito in parte responsabile di quel crimine, anche se ovviamente non vi avevo preso parte; pur avendo molte ragioni per dire che non c’entravano nulla, e casomai avendo subito l’occupazione tedesca, molti polacchi all’epoca iniziarono a provare un senso di colpa per quanto accaduto nel 1941. Quella presa di coscienza ci ha aiutato come popolo: non puoi costruire una democrazia sana rimuovendo le tue responsabilità del passato. Queste sono un po’ le questioni su cui ci confrontiamo con gli amici e partner russi. Anche dopo la tragica vicenda dei gulag, nonostante siano morte milioni di persone, non c’è mai stato un tribunale che se ne sia occupato. I russi non hanno ancora avuto l’opportunità di confrontarsi con il proprio passato e ho paura che neanche questa volta coglieranno l’occasione di riconoscere e farsi carico delle proprie responsabilità per quanto sta avvenendo in Ucraina, e prima in Siria, in Cecenia... c’è una linea di continuità nelle loro azioni. D’altra parte questo è esattamente ciò che vuole Putin in questa costruzione del passato e del presente in cui ai russi viene detto che loro non hanno responsabilità, che è sempre colpa degli altri... (a cura di Barbara Bertoncin e Monika Weissensteiner) una città 27 “fratello, io ho lasciato quella donna al fiume. Non sarà che tu te la stai ancora portando dietro?” i russi non hanno ancora avuto l’opportunità di confrontarsi con il proprio passato... internazionalismo democratico Sul nostro sito abbiamo reso accessibili gli ultimi tre numeri di Una città, dedicati largamente all’Ucraina. Per sfogliarli: www.unacitta.it

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==