Una città n. 285

Krzysztof Czyzewski è presidente della Fondazione “Borderland” (Pogranicze) e direttore del Centro “Borderland of Arts, Cultures and Nations”, con sede a Sejny, in Polonia, che in questi anni ha dato vita a un centro di documentazione, un teatro, una banda Klezmer e una casa editrice. Abbiamo raccontato la sua storia nel n. 259. Nel 2004 Borderland ha ricevuto il premio Alexander Langer. Nel 2011 Krzysztof Czyzewski ha promosso la nascita del Centro internazionale per il dialogo a Krasnogruda, nella casa di famiglia di Czeslaw Milosz. Come avete vissuto l’arrivo della guerra all’interno della vostra comunità, che si trova al confine tra Polonia, Lituania e Bielorussia? Partirò da alcuni fatti concreti per poi passare a delle valutazioni più filosofiche. Quando è scoppiata la guerra, abbiamo subito fatto partire un nuovo programma Borderland-Ukraine, invitando gli ucraini in fuga dalla guerra a venire in Polonia; ci siamo rivolti prevalentemente alle persone del mondo della cultura, ma ovviamente all’inizio non abbiamo fatto differenze; abbiamo accolto chiunque lo chiedesse e gli abbiamo offerto vitto e alloggio per un mese, oltre a una sorta di borsa di mille euro per chi aveva un progetto creativo e che abbiamo ospitato nel nostro centro. Abbiamo fatto delle convenzioni con alberghi e piccole pensioni di questa area; ospitiamo ora diverse famiglie, molte con bambini. La cosa ha funzionato perché queste persone, prevalentemente donne, bambini e anziani, non erano disposte a ricevere un aiuto passivamente, volevano contribuire; volevano anche lavorare e guadagnare qualcosa da mandare a casa o all’esercito. Questo per loro era pure un modo per combattere il senso di colpa di non essere in prima linea nel loro paese. Presto è nato anche un loro luogo di ritrovo, sempre a Sejny; uno spazio a loro disposizione in cui si sentissero a casa e di cui fossero padroni, per cui ora, oltre al centro culturale lituano e polacco, abbiamo anche un centro culturale ucraino, un luogo che è ora sede di conferenze, lezioni, laboratori, mostre. Devo dire che in qualche modo ci siamo trovati pronti, perché avevamo alle spalle l’esperienza di accoglienza dei bielorussi in fuga dal regime di Lukashenko. Questo è quello che abbiamo fatto dal punto di vista pratico. Aggiungo che abbiamo incoraggiato i nostri sponsor a finanziare non solo progetti di aiuto qui in Polonia o in Europa, ma anche iniziative per quando queste persone potranno tornare a casa, in Ucraina. Questa è una pratica che abbiamo adottato da tempo, già con i nostri progetti di formazione per i “borderlander”, per i costruttori di ponti che vengono dall’Europa dell’Est. Facciamo tanti laboratori, ma poi pensiamo anche a cosa possono fare una volta rientrati e come trovare le risorse necessarie a realizzare i loro progetti. Questa è sempre stata una nostra battaglia con i partner europei per far loro capire che non basta un buon training, della buona formazione: bisogna trovare il modo di sostenere queste persone all’interno delle loro comunità. Questo è ciò che stiamo cercando di portare avanti anche con gli ucraini. Dicevi che lo scoppio di questa guerra vi ha portato anche a fare delle riflessioni più generali. La Fondazione Langer, ma già Alexander Langer stesso, ha molto lavorato nella ex Yugoslavia. Quella è stata la prima guerra in cui sono stato coinvolto personalmente e come Fondazione Pogranicze. Per me quella è stata un’esperienza rivoluzionaria: quello che ho capito durante l’assedio di Sarajevo e poi a Mostar e altrove è che c’è una forma di ipocrisia in Europa quando si decide che l’unico aiuto possibile sia quello umanitario. Non so se ricordate, ma all’epoca c’era l’embargo, per cui i bosniaci non potevano ricevere aiuti in armi. Qualsiasi aiuto militare era proibito. In Europa si pensava che bastasse mandare cibo e altri beni di prima necessità. Ci consideravamo dei pacifici. Ecco, il punto è che il prezzo della nostra pace a Parigi, Berlino, Amsterdam fu terribile. Morirono centomila persone e il fatto che l’intervento della Nato sia arrivato dopo oltre tre anni di aggressioni penso sia qualcosa su cui dovremmo porci delle domande. Quando ti trovi in mezzo a una guerra, in mezzo alla sofferenza della gente, senza poter fare niente, perché tu sei per la pace... questo è qualcosa che mi ha davvero stravolto. Una figura che è stata per me esemplare in questa sorta di trasformazione interiore è quella di Bonhoeffer, il teologo che da giovane era un militante pacifista e antifascista e poi, con lo scoppio della guerra, si trovò a far parte della cospirazione per uccidere Hitler. Lui ha dovuto fare i conti con il senso di colpa, perché moralmente commettere un omicidio, pur per salvare altre vite, è un atto problematico. Ricordo che durante le settimane trascorse a Sarajevo ho molto pensato a lui... C’è un altro tema che mi ha dato molto da pensare. Noi in Europa ci siamo abituati a pensare che l’arte, la letteratura, le varie forme della cultura siano qualcosa che ha a che fare con la bellezza in una relazione autonoma, a prescindere da altro... Se sei un artista, uno scrittore, non conta se appoggi un regime illiberale o quale sia la tua ideologia di riferimento, l’unica cosa che importa è che tu sia uno scrittore, un autore di talento. Ricordo che all’aeroporto di Varsavia in quel periodo mi capitò di leggere un articolo della “Gazeta Wyborcza” in cui si parlava di Limonov, lo scrittore e politico una città 25 internazionalismo democratico il prezzo della nostra pace a Parigi, Berlino, Amsterdam fu terribile. In Bosnia morirono centomila persone... IL PREZZO DELLA PACE Allo scoppio della guerra, la pronta decisione di fare un progetto di accoglienza degli ucraini in fuga, ma anche la necessità di rielaborare l’esperienza ‘rivelatrice’ fatta durante l’assedio di Sarajevo, quando l’Europa decise che l’unico aiuto possibile era quello umanitario; l’arte di distinguere il bene dal male nella concretezza della quotidianità liberandosi delle incrostazioni ideologiche; le discussioni con gli amici russi. Intervista a Krzysztof Czyzewski.

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