Una città n. 285

una città 37 il territorio, lo incide (pensiamo a Romolo e al solco primigenio con cui traccia i confini della città); e lo fa proiettando la sua più peculiare, razionale e astratta forma di pensiero: quella geometrica. Gli animali giocano un ruolo di enorme importanza nel racconto delle situle. Si tratta di animali domesticati, di animali selvatici e di animali fantastici. Cosa rappresentano queste tre categorie e perché proprio gli animali hanno tutto questo spazio? Innanzitutto va osservato che utilizzare gli animali come elementi per rappresentare lo spazio e il tempo è una soluzione altamente raffinata, quasi geniale. Si tratta di una pratica molto più diffusa di quanto si pensi o si faccia notare. Nel mio caso si è trattato di un passaggio difficile, risolto dopo anni di studio e dopo aver posto le opportune domande: perché questa lingua sembra non avere riferimenti di tempo e spazio? Se ci sono, dove si nascondono? Proprio questa fatica è lo specchio di una delle differenze sostanziali fra la nostra società e quelle passate, dove la vicinanza, non solo fisica, con l’animale era molto maggiore e l’animale, in virtù di essa, era caricato di molti più significati, metaforici e allegorici, di quanti ne abbia ai nostri giorni. Quelli che riusciamo a individuare nell’Arte delle situle sono forse quelli più superficiali, ma diciamo che per ora possiamo accontentarci, perché, come ti ho detto, ci offrono un’importante chiave per leggere i nostri testi. Gli animali domestici rappresentano ovviamente la città e i suoi territori, mentre quelli selvatici indicano ciò che sta oltre la diretta sfera di azione degli abitanti del centro urbano. Chiaro è poi, ad esempio, il ruolo del leone alato della situla Benvenuti che divide proprio questi due territori. Mentre decisamente più inaspettato è che, sempre sulla stessa situla, la sequenza di sette animali selvatici esprima un valore orografico di cui si fa fatica a dubitare, visto che ritroviamo in successione un cervo, uno stambecco, un grifone (che possiamo considerare come una declinazione dell’aquila, frequentatrice delle pareti rocciose) e una sfinge, la nota abitatrice delle vette. Detto altrimenti, un paesaggio “dolomitico”! Vi sono poi gli animali fantastici, più difficili da comprendere, soprattutto senza l’ausilio di fonti scritte, ma dei quali riusciamo forse a cogliere i significati e il senso che dovevano originariamente esprimere: nel caso della situla della Certosa, si tratterebbe di abitanti di una sorta di aldilà infernale, o meglio dell’Averno, luogo collocato sotto la superficie, abitato da mostri che restituiscono l’idea, appunto, di luoghi cupi e spaventosi. Mostri molto particolari, talvolta con testa umana, talaltra anche squamati, non di rado compaiono in lotta fra loro. Credo che in questo caso rimandino alla lotta fra gli elementi primordiali, di cui è ricca la tradizione letteraria indoeuropea (e in particolare quella dell’India vedica) e che conosciamo bene anche attraverso la mitologia greca, consolidando l’idea che, seppure sullo sfondo, anche nelle situle facciano la loro comparsa tracce di un più antico sapere. Le stelle sembrano sempre incombere sulle genti delle situle: la loro presenza marca l’alternarsi delle stagioni e ci racconta del calendario, tanto astronomico, come agrario, come infine rituale. L’inquinamento luminoso ci impedisce di capire quale stupore suscitasse il cielo stellato in antichità e come i suoi segni fossero essenziali nel sostanziare miti, riti, pratiche e celebrazioni. Cosa perdiamo dimenticandoci delle stelle? Qui, se possibile, la distanza che l’uomo ha imposto a se stesso rispetto alla natura è chiaramente ancora maggiore. La civiltà attuale, quella figlia dell’industrializzazione, è una civiltà a-cosmica. L’acosmismo ha contagiato tutti, dal cittadino comune, che non è più abituato ad alzare lo sguardo, al mondo accademico che prova sempre un grande fastidio quando si interpreta qualche segno o qualche complesso archeologico in chiave celeste. Non si tratta solo di inquinamento luminoso. Qui l’alterazione sta chiaramente nel modo di approcciarsi. E forse non è neppure un fenomeno di oggi. Credo inizi già con i Greci che, almeno fino all’età ellenistica, hanno scarse nozioni di astronomia. E forse se ne rendevano conto, come emerge nel mito di Urano, il dio del cielo, dapprima regnante e poi evirato (ovvero depotenziato) dal figlio Kronos, il tempo. Come il regno di Urano precede quello degli dèi olimpi -che sono poi gli dèi delle città e del tempo delle città- così l’attenzione verso il cielo doveva essere molto più antica delle prime forme di urbanizzazione. Oggi ne abbiamo anche gli indizi archeologici, visto che si è ormai certi dei contenuti astronomici di molti siti megalitici di età neolitica, quali ad esempio Stonehenge. Ma il legame col cielo e con i suoi segni doveva essere forse ancora più arcaico, e così i suoi segni se, come sembrerebbe, già alcuni degli animali delle pitture rupestri paleolitiche potrebbero rappresentare costellazioni. E nel caso del Toro e delle Pleiadi, con gli stessi animali che le simboleggiano oggi! Tornando alla tua domanda, più raccogliamo questi fili, più viene il rammarico. Non solo per tutto il sapere dimenticato, ma, come dicevo, per avere perso l’attitudine stessa a contemplare e significare il cielo. I tuoi libri suscitano tanto interesse, così palpabile negli incontri di presentazione che hai modo di fare. La mia impressione è che, in una fase di radicale disorientamento degli individui e della società di fronte ai cambiamenti accelerati che ci investono, risalire agli atti fondativi delle relazioni civili è probabilmente di aiuto nel ritrovare un senso, una direzione anche al nostro agire contemporaneo. Hai anche tu questa impressione? Sì, ne sono convinto anch’io. Credo che questa voglia di scavare nel passato nasconda anche una voglia di confrontarsi con qualcosa di diverso dalla banalità della comunicazione superficiale che ci assedia minacciosa. Quello che piace infatti -lo vedo nelle conferenze e negli incontri- sono soprattutto i tratti caratteriali degli antichi. Quando queste caratteristiche si riesce a coglierle e a raccontarle, si vede l’effetto! E le culture italiche e altoadriatiche del primo millennio a.C. sotto questo profilo sono davvero un esempio stimolante, perché, anche se non abbiamo prove concrete, abbiamo indizi di comportamenti per così dire virtuosi da un punto di vista sociale, a iniziare dal fatto che, contrariamente a quanto succede oggi, il bene collettivo sembra prevalere sul singolo. Basti il fatto che anche in Veneto si combatteva con armi di tipo oplitico -le stesse adottate in gran parte della Grecia arcaica e classica e che ben conosciamo da film recenti come “300”- un equipaggiamento che presupponeva che tutti i cittadini di pieno diritto e in grado di procurarsi le armi combattessero uno a fianco all’altro proteggendosi a vicenda. Rinforzando così in guerra sodalizi e comportamenti cooperativi che sarebbero sopravvissuti anche in pace. Sono queste del resto le cifre base dello Stato (o meglio della città-stato) occidentale, icasticamente descritte dal titolo di un libro di Dario Sabbatucci, grande storico delle religioni, quando parla dello Stato “come conquista culturale”. Sia esso Atene, Roma o anche, aggiungerei io, una delle città della protostoria altoadriatica: Este o Bologna, ad esempio. (a cura di Andrea Pase, foto di Luca Zaghetto) di archeologia e altro mostri molto particolari, talvolta con testa umana, talaltra anche squamati, non di rado in lotta fra loro anche in Veneto si combatteva con armi di tipo oplitico uno a fianco all’altro proteggendosi a vicenda

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