Una città n. 285

una città 38 lettere, rubriche, interventi Il Novecento, secolo di rivoluzioni, si aprì con una sorprendente simultaneità di tendenze culturali omogenee. L’antipositivismo, l’antideterminismo, l’idea che le cosiddette “leggi ferree” che dominano i fenomeni naturali e i processi storicosociali possono essere continuamente spezzate dalla libertà e dalla creatività imprevedibile dell’evoluzione, caratterizzano tutta la cultura dei primi decenni del Novecento. Creare, rivoluzionare, modificare radicalmente il già fatto e già avvenuto, fu una specie di idea fissa che assunse le forme più varie. Le avanguardie artistiche e politiche, le minoranze e le élite intellettuali furono subito ispirate dall’immediatezza, dall’urgenza dell’attività, dell’attivismo, dell’intuire e realizzare “il nuovo” infrangendo tradizioni, consuetudini, docili assuefazioni che si erano consolidate nella vita borghese del secondo Ottocento. Come se nella “vita profonda” della società e degli individui si stesse allora manifestando un potente dinamismo nascosto che andava assecondato e che anzi la storia stessa imponeva di risvegliare. Rivoluzioni scientifiche, come quelle della “psicologia del profondo” di Freud; della nuova fisica quantistica di Max Plank e relativistica di Albert Einstein; dell’arte come intuizione lirica, secondo Croce e secondo movimenti come l’Espressionismo e il Futurismo, non erano che affermazione e annuncio di un sovvertimento delle impalcature culturali ottocentesche. Nelle scienze naturali e sociali, nelle arti e nella politica, il culto dell’energia e dell’azione trasformarono nell’arco di pochi anni la fisionomia della modernità, accelerandone i processi di trasformazione fino all’estremo. In tutti i campi del sapere e dell’agire si imponevano quegli “stili dell’estremismo” che avrebbero dominato, fino a ripetersi sempre più stancamente, per un intero secolo e più. Georges Sorel (1847-1922) fu in quegli anni uno dei più influenti critici del marxismo riformistico, che vedeva la storia sociale come evoluzione progressiva naturalmente dialettica dalla democrazia al socialismo. A partire dai suoi Saggi di critica del marxismo (1902) alle Riflessioni sulla violenza (1908) e a Materiali per una teoria del proletariato (1909), Sorel, più che da Marx, è ispirato dal filosofo dello “slancio vitale” e dell’“evoluzione creatrice” Henri Bergson, secondo il quale l’intuizione viene prima dell’intelletto perché permette di superare ogni presupposto grazie a una creatività attiva che non si limita a registrare, riflettere e descrivere i dati oggettivi della realtà. Anche il proletariato operaio deve esprimere creativamente sé stesso e per farlo ha bisogno di esercitare senza mediazioni e freni ogni violenza necessaria: Quando nel 1905 -scrive Sorel- mi sono azzardato a scrivere intorno alla violenza proletaria in modo un po’ approfondito, mi rendevo perfettamente conto della grave responsabilità che mi assumevo tentando di mostrare il significato storico di quelle azioni che i nostri socialisti parlamentari cercano con tanta arte di dissimulare. Oggi non esito a dichiarare che il socialismo non sarebbe in grado di sopravvivere senza una apologia della violenza. È negli scioperi che il proletariato afferma la sua esistenza. Non posso decidermi a vedere negli scioperi qualcosa di analogo a una temporanea rottura delle relazioni commerciali quale si produrrebbe fra un droghiere e il suo fornitore di frutta secca a causa di un disaccordo sul prezzo. Lo sciopero è un fenomeno di guerra; si tratta dunque di una grossa menzogna dire che la violenza è un fatto accidentale destinato a scomparire dagli scioperi. La rivoluzione sociale è un’estensione di questa guerra, di cui ogni grande sciopero costituisce un episodio; è perciò che i sindacalisti parlano di questa rivoluzione in termini di scioperi; il socialismo per essi si riduce all’idea, all’attesa, alla preparazione dello sciopero generale che, come una battaglia napoleonica, sopprimerà del tutto un regime condannato. (Riflessioni sulla violenza, in Scritti politici, Utet 1963, pp. 397) Scrittore politico efficace nelle sue formulazioni e perentorio nel tono, Sorel ebbe notevole fortuna soprattutto perché si contrapponeva a ogni realistica moderazione, a ogni prudente gradualismo nella politica del movimento operaio. Nei decenni della Seconda Internazionale, dal 1876 al 1919, il movimento operaio fu diviso fra marxisti e anarchici e poi caratterizzato dallo sviluppo del “revisionismo” socialdemocratico, di cui il maggiore teorico Eduard Bernstein introdusse nel marxismo alcune fondamentali correzioni: anzitutto quella, dovuta allo stesso Engels, secondo cui lo sviluppo del capitalismo aveva profondamente cambiato la situazione della lotta di classe del 1848 e quindi le prospettive della rivoluzione. Sorel attaccò il revisionismo socialdemocratico di Bernstein non ignorando, nello stesso tempo, l’influenza diffusamente esercitata fra gli operai dall’anarchismo di Bakunin. L’idea dello “sciopero insurrezionale” proposta da Sorel teneva insieme sia l’emergenza sociale degli scioperi operai, sia l’impulso anarchico a dilatarne il significato simbolico-politico molto al di là della dimensione sindacale e rivendicativa. Si trattava del fenomeno definito “anarco-sindacalismo”, le cui origini segnarono la fine dell’Ottocento, quando il pensiero anarchico influenzò il movimento sindacale. Una parte dei militanti anarchici cominciò ad adottare il sindacato, invece che la cospirazione, come strumento privilegiato di lotta. Lo sciopero si associava così in modo diretto e immediato all’idea di rivoluzione, di iniziativa rivoluzionaria violenta. Sorel ne fu il più brillante e noto teorico. L’esperienza fallimentare degli attentati anarchici di tipo terroristico orientò alcuni ex marxisti diventati anarchici verso la convinzione che si trattava di esaltare e sviluppare linearmente l’energia che uno sciopero sprigiona nel proletariato in lotta per la rivoluzione. Sciopero inteso quindi come “azione diretta”, eversiva, più che come rivendicazione di diritti e acquisizione di semplici vantaggi economici. Una tale prospettiva di rovesciamento del capitalismo e della società borghese implicava perciò e di necessità una radicalizzazione politica violenta del sindacalismo. In Svizzera, in Olanda, in Spagna e in Italia dove l’influenza di Bakunin era più forte, l’anarco-sindacalismo e le teorie di Sorel ebbero maggiore successo che nei paesi industrialmente più sviluppati, come l’Inghilterra e la Germania, in cui i sindacati organizzati erano più forti. In Sorel lo “slancio vitale” degli operai in lotta si identificava con la violenza necessaria a sublimare teoricamente ogni contrapposizione fra lavoro e capitale in azione rivoluzionaria, in “guerra di classe”. Scrive Sorel: Georges Sorel, scioperi e rivoluzione di Alfonso Berardinelli

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