Una città n. 285

una città 36 una ventina d’anni dopo; la situla della Certosa è stata realizzata attorno al 600 a.C. e deposta in una tomba piuttosto povera dopo oltre un secolo. La situla Benvenuti è divisa in tre fasce: la prima aperta da un nobile seduto su trono che brinda a un cavallo verosimilmente prima del suo sacrificio (annunciato da un’ascia collocata a terra), mentre alcuni suoi pari rango assistono a una gara di pugilato; la seconda in cui compare una sorta di fattore assieme a una sequenza di animali domestici e selvatici; la terza, in cui si colgono alcuni episodi con protagonisti uomini in armi. Come in altre opere dell’Arte delle situle, la prima vera difficoltà è stata mettere nella giusta sequenza tutte le scene, ma una volta fatto ciò i significati, anche quelli più profondi, hanno iniziato a emergere. Il racconto inizia dal basso e narra di una vittoria in terra straniera da parte dell’esercito di Este che torna con in testa il suo comandante su carro seguito dal bottino di prigionieri. Gli animali non sono una sequenza casuale, ma rappresentano un territorio che dalla città va fino alle vette e con questo espediente l’artigiano ci fa capire che la spedizione è stata condotta “oltre le montagne”. Una volta tornati dalla spedizione e visto l’esito vittorioso, in città si celebra il trionfo e si dà il via ai festeggiamenti. Con mia grande sorpresa l’intera raffigurazione ha mostrato un’affinità sorprendente con il rito simile che si eseguiva a Roma - e i Veneti erano strettamente imparentati con i Latini- fin da età arcaica, quando, al ritorno delle armate alla chiusura della stagione bellica, si compiva un rito solenne e unico, il sacrificio del cavallo. Come se non bastasse, una serie di cinque animali ritratti sul primo registro, e in particolare il centauro, potrebbero rappresentare un allineamento celeste, ovvero la comparsa in levata eliaca della costellazione del Centauro. Tale fenomeno, al tempo della situla, aveva luogo nei cieli di Este solo in una piccola parte dell’anno, cioè nei giorni vicini alla metà di ottobre, data assolutamente compatibile con la chiusura delle campagne di guerra. Con incredibile consonanza, a Roma il cavallo della guerra, l’october equus, veniva immolato il 15 di ottobre. La situla della Certosa di Bologna ha invece ben quattro registri: il primo è interamente occupato da una parata di militari; il secondo da una sfilata di civili; il terzo, più movimentato, da scene di caccia, di agricoltura e da una festa con gare di musica e di pugilato tenute in casa di un nobile; la quarta, con una successione di animali perlopiù feroci. Anche qui il problema interpretativo era dato da scene facili da leggere individualmente ma difficili da mettere in sequenza e anche qui, una volta ricostruita la sequenza, si è delineato un quadro organico dove ogni segno ha trovato il suo giusto posto e dove, assieme a significati superficiali, sono emersi significati via via più profondi. Quasi ovunque interpretata come il ritratto di un lungo corteo funebre, la raffigurazione ha dimostrato di essere in realtà ben altro. Quello che ancora oggi scorre sotto i nostri occhi è infatti un esempio, anzi, il primo e più antico esempio del più importante rito delle genti italiche (diffuso anche fra gli etruschi): il suovetaurilia, cioè la processione condotta lungo i confini della città, con uccisione di tre vittime domestiche, un bovino, un suino e un ovicaprino (da cui il nome suovetaurilia). Questo sacrificio ci è noto dai rilievi romani di età imperiale e soprattutto da una serie di tavole in bronzo rinvenute a Gubbio che descrivono minuziosamente il rito e che coincidono, davvero in ogni dettaglio, con la raffigurazione che l’artigiano, 4-500 anni prima, ha riprodotto sul bronzo della situla della Certosa. Basti qui il fatto che i (probabili) sacerdoti ritratti sulla situla sono dodici, esattamente come a Roma. I riti descritti dalle situle ci rimandano a una dimensione profonda, archetipica potremmo dire, delle civiltà del mondo antico, nel momento di esordio del fenomeno urbano. Cosa stava avvenendo in quel torno di tempo e perché è così importante per la comprensione delle civiltà italiche? I riti sono decisamente arcaici. Il sacrificio del cavallo è con ogni probabilità un rituale antichissimo; è stato studiato dettagliatamente da Georges Dumézil, il grande storico delle religioni, che ha giustamente messo in luce come il rito romano -che ora dobbiamo dare anche come veneto- vada messo in correlazione con il rito indiano dell’Asvamedha. Conseguentemente, si può pensare a un’origine comune e molto antica, certamente indoeuropea, ovvero a un rito nato prima che i popoli indoiraniani iniziassero ad abbandonare le loro sedi originarie e a occupare l’India settentrionale e gli altopiani iranici (cioè nel 1500 a.C. o anche prima). Quanto al suovetaurilia, anche se un paio di volte ne fa menzione Omero, è probabilmente una “invenzione” tutta italica, anch’essa in ogni caso molto antica e che, di fatto, inizia a diffondersi, stando almeno ai pochi dati archeologici, nel momento nel quale, fra il 1.000 e l’800 a.C., o meglio ancora, dopo l’800 a.C., in Italia comincia a prendere forma la città. Fin dal neolitico, cioè da tre o quattro millenni prima, l’uomo, anche in Italia, sfruttava ormai intensamente il territorio modificando paesaggio e ambiente, ma attorno al 1000 a.C. avviene un diffuso e significativo cambiamento che avrà decisivi risvolti di ordine sociale; si tratta del passaggio da una forma di proprietà pubblica della terra a una forma diffusamente privata, fenomeno che innescherà la rapida formazione di un ceto aristocratico e l’altrettanto rapido e conseguente passaggio dal villaggio alla città, entità da intendersi ovviamente sia in chiave urbanistica che sociale. Il dato eclatante che viene da queste due situle, ma anche dai più recenti ritrovamenti archeologici proprio a Este e Bologna, riguarda esattamente le pratiche religiose e la storia delle religioni, indissolubilmente legate a quella della città e in particolare della sua nascita. Quel che sta emergendo è che non solo esisteva un sapere specifico per la fondazione della città e per la fissazione dei suoi limiti, ma che tale sapere non era prerogativa esclusiva degli etruschi -ed eventualmente dei romani che da questi, secondo tradizione, l’avevano appresa- bensì di una parte più estesa di popoli. Insomma, un patrimonio che potremmo definire tendenzialmente panitalico e forse parzialmente condiviso anche dalle culture extraitaliche del bacino altoadriatico. Come Romolo fonda la sua città, Roma, così gli auguri, i sacerdoti con questa funzione (e infatti Romolo era anche augure), riportano in terra i segni da cui si tracceranno, nel momento di fondazione di una città, le quattro regioni e le due vie principali del nucleo urbano, e poi quotidianamente osserveranno il volo degli uccelli nelle regioni celesti per trarre gli auspici utili alla città e quindi, periodicamente, riverificheranno che i confini pubblici e privati originariamente tracciati siano rispettati. Cielo, terra e inferi hanno, in questa concezione, uguale partizione -la stessa che troveremo nelle città, negli accampamenti militari e nelle centuriazioni realizzate dai romani. Così avviene a Roma, dicevo, così in Etruria, ma così anche fra i Veneti e forse a Bologna. Leggere i segni del cielo e disegnare le regioni dello spazio è davvero il punto di snodo della relazione tra uomo e natura: l’uomo (ovvero il sacerdote) “legge” i segni della natura ma contestualmente “scrive” di archeologia e altro con incredibile consonanza, a Roma il cavallo della guerra, l’october equus, veniva immolato il 15 di ottobre leggere i segni del cielo e disegnare le regioni dello spazio è davvero lo snodo della relazione tra uomo e natura

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