Una città n. 285

una città 35 lare” le raffigurazioni. Puoi raccontarci i capisaldi del tuo approccio? Iniziamo da un dato di fatto macroscopico ma paradossalmente quasi ignorato o, quantomeno, preso in considerazione assai raramente: non esiste una “grammatica delle immagini”. Tutto ciò è davvero inaspettato se pensiamo che da decenni siamo immersi nella cosiddetta società dell’immagine e che per di più disponiamo di una sterminata letteratura di storia dell’arte, di iconografia e altre materie affini. A tutt’oggi quando ci approcciamo a un testo iconografico non abbiamo procedure, regole, disciplina. Possediamo solo strumenti intuitivi, quindi, sostanzialmente primitivi. Il fatto poi che le immagini fossero lì, a disposizione degli studiosi da oltre centocinquanta anni e che, nonostante ciò, non si fosse ancora compresa a fondo una sola delle narrazioni o, peggio ancora, non si fosse nemmeno vicini a capire il tema, “ciò di cui si parla” in queste opere (scene di vita reale? scene mitologiche? immagini dell’aldilà?) mi ha ulteriormente spinto ad affrontare le immagini in modo diverso da quanto normalmente si fa in una ricerca archeologica. Come primo e significativo passo ho dunque accantonato tutta la (considerevole mole di) letteratura e le varie diatribe fra studiosi -spesso un’autentica zavorra- e messo al centro dell’indagine la materia, le raffigurazioni. Come secondo passo, ho cercato una via per scalfire la superficie, per entrare nel vero mondo delle immagini e, una volta entrati, comprenderle. Detto in altro modo, si trattava di eseguire tre operazioni fondamentali: primo, trovare e definire lo statuto del linguaggio esaminato (ovvero capire le caratteristiche fondamentali del linguaggio delle immagini dell’Ads); secondo, individuare le regole del suo funzionamento (ovvero la sua grammatica); terzo, mettere a punto un metodo per interpretare le singole raffigurazioni (congruente con il linguaggio e la sua grammatica). L’idea di partenza era dunque molto vicina a quella di trattare le nostre raffigurazioni come testi scritti in una lingua sconosciuta e di considerare il momento interpretativo come un’azione simile a quella del traduttore. Si parte da piccoli elementi, l’unità elementare (frammenti di parole o parole intere) e piano piano si sale di livello e complessità. Più andavo avanti con l’indagine, più mi accorgevo che i problemi che emergevano e le soluzioni che si prospettavano avevano a che fare con la lingua naturale e con la teoria dei segni, ovvero con la linguistica e la semiotica. Ho così iniziato a usare come riferimento la lingua naturale, applicando tutte le categorie e le regole di grammatica, e ho continuato a farlo fin dove possibile, fin dove cioè i due tipi di linguaggio hanno caratteristiche (e comportamenti) strutturalmente simili. Tecnicamente, e per semplificare al massimo, l’intero repertorio iconografico (cioè tutte le immagini finora rinvenute dell’Ads) è stato smontato in unità di tre livelli diversi e a complessità crescente, ovvero in un paesaggio di circa cinquemila unità elementari altrimenti dette “parole” (i singoli elementi della cultura materiale raffigurati nelle opere), circa cinquecento “frasi” (fotogrammi equiparabili appunto alle frasi della lingua verbale) e circa trecento “scene” (equiparabili alla somma di più frasi, ovvero a un periodo). Seguendo poi le procedure delle teorie strutturaliste sono andato a identificare i significati possibili di tutti questi singoli elementi (parole, frasi e periodi) nella lingua in esame e, come ultima operazione, una volta ottenuto questa sorta di dizionario, mi sono rivolto alla lettura e all’interpretazione delle singole opere. Aggiungo solo che, benché i riferimenti principali di tutto l’impianto siano la teoria e il metodo strutturalista di Ferdinand de Saussure, nell’architettura finale vi sono anche alcuni fondamentali innesti derivanti da diversi filoni della filosofia del linguaggio e della teoria dell’informazione, e in particolare dalla semiotica interpretativa di Umberto Eco, oggi, giustamente, vista in termini complementari e non più antitetici rispetto all’indirizzo saussuriano. A due di queste situle, la situla Benvenuti di Este e la situla della Certosa di Bologna, hai dedicato corposi libri. Puoi raccontarci qual è il contenuto di questi due “testi iconografici” e come sei riuscito a ricostruirlo? La situla Benvenuti e quella della Certosa sono rispettivamente la regina e la principessa, per così dire, dell’Ads. La situla Benvenuti è la più vecchia. È stata fabbricata attorno al 630-620 a.C. e deposta in tomba principesca, contenente anche numerosi oggetti in oro, presumibilmente considerarli come testi scritti in una lingua sconosciuta e interpretarli con un’azione simile a quella del traduttore

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