Una città n. 285

una città 34 Luca Zaghetto, archeologo, si è occupato principalmente di iconografia e di culture protostoriche dell’alto Adriatico. I suoi lavori in questo campo hanno un carattere fortemente innovativo, riconosciuto a livello internazionale. Fra le varie pubblicazioni, da segnalare il volume sulla situla Benvenuti di Este e quello, in stampa, relativo alla situla della Certosa di Bologna. Cos’è e quando si sviluppa l’Arte delle situle? Iniziamo col dire che è una forma d’arte figurativa che si sviluppa fra il 650 a.C. e il 350 a.C. circa. Si tratta di vari oggetti, tutti in bronzo, eccezionali perché decorati, a sbalzo e a incisione, con scene di vita naturalistiche. A oggi sono poco più di 170 pezzi. I più numerosi e importanti fra essi sono le situle, manufatti che danno il nome all’intero movimento. Situla è una parola che deriva dal latino e significa secchio. E infatti le situle sono vasi che per forma e funzione ricordano i secchi. Diversamente dalla nostra idea di secchio, qui non si tratta di contenitori comuni, ma di opere di alto artigianato, destinate perlopiù a contenere bevande alcoliche e usate durante banchetti o altre occasioni di convivialità. Insomma, pezzi pregiati dell’“argenteria” di casa. Troviamo anche coperchi, fibbie per cinturoni, foderi di coltello, ecc. Sono oggetti che gli archeologi rinvengono quasi sempre nelle tombe, perché appartenuti al defunto stesso o perché deposti come preziosi doni di accompagnamento, ma che in origine erano stati realizzati per essere tenuti in casa oppure per essere indossati. In tutti i casi, oggetti da esibire. Finora le opere dell’Arte delle situle (Ads) sono state ritrovate in una sorta di triangolo che dal Piceno va ai laghi lombardi, da qui e verso oriente lungo le Alpi, nel Trentino Alto Adige, in Slovenia e in Istria. In pratica, dal Po al Danubio. Si tratta di un territorio ampio e soprattutto molto differenziato: al suo interno erano stanziate popolazioni di lingua e cultura anche profondamente diverse. Basti citare i Veneti che parlavano una lingua simile al latino arcaico, gli Etruschi dell’area padana e i Reti nelle Alpi a nord del Garda con i loro idiomi significativamente differenti dalle lingue indoeuropee; e poi, ancora, i cosiddetti popoli illirici della Slovenia, gli Histri della penisola istriana e i Villanoviani di Bologna, delle cui lingue quasi nulla sappiamo. Come dicevo, a renderli straordinariamente importanti per l’archeologia non è comunque l’essere oggetti di pregio, ma le immagini che recano: nella parte figurata possiamo infatti riconoscere una gran varietà di temi: processioni di civili, feste fra uomini (e donne) di alto rango, eserciti che vanno alla guerra, gare di pugilato o di bighe, donne che filano e tessono presso grandi telai, contadini che arano la terra, cacciatori all’inseguimento di cervi o cinghiali. E molto altro. Insomma: la “vita vera” nel suo svolgersi. Se pensiamo al fatto che per l’intera età del bronzo (cioè dal 2.300 a.C.) e fino all’età romana tutta la cultura europea produce rarissime immagini; che di queste popolazioni conosciamo quello che si può ricavare dalle loro tombe, da qualche stralcio di abitazione e da alcune classi ripetitive di oggetti; che poi fra gli oggetti archeologici dobbiamo comunque dare come irrimediabilmente perduta una grandissima parte di essi (soprattutto quelli in materiale organico), fra cui basti citare gli abiti; e che infine veramente poco si sa della vita reale, dei gesti, delle azioni, se consideriamo tutto questo, dicevo, si intuisce facilmente la grande preziosità di queste raffigurazioni. Averle è come disporre di fotografie istantanee di un passato con scorci e informazioni che altrimenti non avremmo potuto nemmeno lontanamente immaginare. In riferimento al continente europeo e per la ricostruzione dei suoi costumi e della sua vita in età protostorica, si tratta della fonte iconografica di gran lunga più importante. Immaginiamoci lo stupore degli archeologi della seconda metà dell’Ottocento quando, una dopo l’altra, queste opere iniziarono a riaffiorare da luoghi anche molto lontani fra loro. Da pochissimi anni si era cominciato a prendere coscienza dell’esistenza anche in Italia settentrionale e nelle Alpi di popolazioni coeve dei greci, degli etruschi e della Roma più antica -quella dei primi Re, tanto per intenderci- ma di esse si sapeva ben poco, spesso neppure il nome. Eppure, dalle loro tombe uscivano questi strani oggetti che per alcuni versi ce li facevano conoscere meglio di quanto non conoscessimo altre culture ben più famose, prima fra tutte quella di Roma regia e repubblicana, che conosciamo attraverso le fonti scritte ma pochissimo sotto il profilo iconografico. E invero il dibattito fu subito accesissimo, ma con un vizio che si è protratto fino alla fine del Novecento. Gran parte della discussione si è infatti concentrata sull’origine del movimento artistico-artigianale e su questioni affini, come ad esempio i vettori della sua diffusione (artigiani o bozzetti/cartoni). Mentre cioè si litigava se la produzione fosse nata a sud o a nord delle Alpi, se la fonte di ispirazione fosse da ricercare in Grecia o in Oriente, se all’interno della cerchia circolassero preferibilmente gli artigiani o i cartoni, per più di un secolo è rimasta quasi del tutto inevasa la domanda forse più importante: cosa rappresentano le immagini? Ed è stato questo l’argomento delle mie ricerche. Le situle, soprattutto le maggiori, contengono un intero universo di immagini, a cui però è difficile attribuire un significato. Tu comunque hai ideato, in tanti anni di studio, una metodologia che consente di “far parLA CITTA’, ALL’INIZIO La straordinaria storia che raccontano circa 170 situle, cioè secchi, ritrovati nelle tombe e risalenti al 650 a.C.; un’area che va dal Po al Danubio; la “lettura” delle immagini scolpite, che raccontano della nascita delle città, disegnate secondo le concezioni cosmiche del tempo, la vita quotidiana delle persone e quella civile della comunità; il rapporto con gli animali e quel sacrificio del cavallo che si ritrova dall’India fino a Roma. Intervista a Luca Zaghetto. a tutt’oggi quando ci approcciamo a un testo iconografico non abbiamo procedure, regole, disciplina di archeologia e altro

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