Una città n. 285

una città 14 storie di lavoro ranza sono ragazzini, ma prendiamo anche le persone adulte, perché è un lavoro che chiunque può fare. Si dice che i giovani non vogliono più fare lavori manuali... Non farei di tutta l’erba un fascio: quando chiedo ai nuovi se hanno piacere di rimanere, dicono di sì, poi ci sono i bravi e i meno bravi... La maggior parte sono italiani, però abbiamo preso anche molti stranieri, ci sono ragazzi di colore figli dei nostri dipendenti, giovani nati qui e ben integrati, mi pare. Electrolux, da questo punto di vista, è sempre stata aperta e sensibile. Non ho mai sentito di casi di razzismo. L’albanese, il rumeno, il cinese è un operaio come tutti gli altri. Rispetto alla questione dei giovani in fabbrica, proprio ieri parlavo con una giovane donna e le ho chiesto se fosse diplomata, se avesse altri progetti. Se una è diplomata, sono io la prima a dire: “Se il tuo sogno è fare altro… per carità!”. Se però devi andare a fare l’operaia da un’altra parte, beh, allora meglio in Electrolux. L’altro giorno una mi ha detto: “Sono qui, ma il mio sogno è fare la maestra d’asilo”. Le ho detto. “Hai ventun anni, non mollare quel sogno perché con un diploma nelle mani puoi fare anche l’operaia, invece fare la maestra d’asilo senza diploma è complicato...”. A vent’anni non puoi rinunciare alle tue ambizioni. Io se potessi tornare indietro, arriverei al diploma e anche alla laurea, lo dico sempre! Perché hai interrotto gli studi? Sono venuta su in una famiglia complicata: i miei giocavano; il forte giocatore di carte era in realtà il mio babbo che si era trascinato anche la mia mamma. Quando ero piccola da un giorno all’altro si prendeva e da Milano si andava in Alto Adige… probabilmente si scappava dai creditori. Io ero una ragazzina, ma ricordo che venivano in casa a pignorare i mobili. Siamo venuti su un po’ così... alla fine impari a sopravvivere, ecco. Certo, col senno di poi, se avessi potuto, avrei continuato a studiare. Infatti le mie figlie hanno entrambe fatto l’università. La grande è stata sempre predisposta allo studio, la piccola ha fatto più fatica, infatti quando veniva a casa con un sette, facevamo dei salti! Magari la grande diceva: “Ho preso nove” e non se la cagava nessuno… Comunque sono arrivate in fondo tutte e due e per me è una gioia grande. Con una laurea in mano puoi fare anche l’operaio, ma se vuoi fare qualcos’altro e non hai un diploma... Come avete vissuto l’arrivo del Covid? Ricordo i primi giorni, quando ancora non era scoppiato e tra i medici c’era chi diceva che era pericoloso e chi no. Certo quando in Electrolux dissero che dovevamo mettere le mascherine, ci fu una rivolta, perché otto ore con le mascherine era una tragedia. Col senno di poi dico che avevano ragione loro, però all’epoca c’era una confusione che mai. Comunque a un certo punto nelle catene sono arrivati i distanziamenti, le sanificazioni, i plexiglass, infine la chiusura: siamo stati a casa un mese e mezzo… La gente è andata giù di testa. Mi ricordo che quando Conte annunciò che prorogava la chiusura, mi misi a piangere! A stare qua da sola in casa mi scoppiava la testa, non ne potevo più. Noi eravamo in cassa integrazione Covid, quindi, pur prendendo meno, qualcosa prendevi, ma era proprio il fatto di dover stare chiusi in casa che era insopportabile. L’imposizione è stata una cosa micidiale per tutti, infatti quando hanno dato la possibilità di riaprire le fabbriche, con i protocolli e tutto, con i sindacati e l’azienda ci siamo messi a un tavolo e abbiamo organizzato le postazioni distanziate, il plexiglass, i controlli all’entrata... Alla fine abbiamo aperto una settimana prima su base volontaria e ha aderito il 70% dei lavoratori: la gente voleva rientrare in fabbrica, voleva riprendere la sua routine. Nonostante tutto. Noi abbiamo lavorato a lungo con la Ffp2 e ti assicuro che tenerla otto ore non è facile, infatti la voglia di tirarla giù… però, pur di uscire di casa, ci siamo adeguati. Abbiamo tenuto a bada anche la paura perché comunque alcuni lavoratori erano terrorizzati dal Covid. Ognuno ha reagito in modo diverso: c’era quello menefreghista, quello meno timoroso e quello che andava nel panico. Invece in famiglia? Come vi siete organizzati con l’arrivo della pandemia e la chiusura degli asili? Era appena nato il mio nipotino: in quel periodo iniziava la chiusura degli ospedali. In pratica ho preso in braccio il bambino, l’ho coccolato un po’ e poi basta. L’ho rivisto dopo un paio di mesi! È stata una cosa strana, che uno dice: “Ma come, l’avevo in braccio fino a cinque minuti fa!?”. È stato veramente brutto. Per fortuna al giorno d’oggi c’è la tecnologia: con un computer o un tablet puoi parlare con figli, generi, nipoti… Altrimenti non so come l’avremmo vissuta tutta questa cosa. La gestione familiare non è stata facile. Per dire, mia figlia si è trovata da sola chiusa in casa con il bambino di pochi giorni e il fratellino più grande, senza che noi la potessimo aiutare. Tra l’altro, secondo me, quelli che han patito di più sono stati i bambini. Il grande all’epoca aveva cinque anni. Lui ha sofferto: non ha più potuto andare all’asilo, interagire con gli amichetti... Poi comunque la pandemia ci ha cambiato, non siamo più come prima: nei luoghi chiusi e comunque quando qualcuno ti viene vicino, scatta come un riflesso. Per non parlare di com’era all’inizio! Quando ci si trovava nelle interminabili file davanti al supermercato, il vicino ti guardava come se avessi la lebbra! L’altro era un potenziale nemico. Adesso per fortuna si è allentata molto questa cosa, però... Dicevi di tua figlia... Mia figlia è neurochirurgo, opera, fa più la testa che la colonna vertebrale, è ancora precaria, ha un contratto a tempo determinato. Lei è dell’85, a 24 anni era laureata. Dopo i sei anni di specialistica e un primo periodo lavorativo, le proponevano un contratto di tre mesi a Bologna e uno di un anno a Cesena, allora si è spostata. È vero, non sarà mai disoccupata, però, per dire, quando ha cambiato la macchina non le volevano dare il finanziamento perché non aveva il posto fisso. Quando hanno visto le buste paga gliel’hanno concesso, resta il fatto che a 36 anni non ha ancora una situazione lavorativa stabile. Eppure ha un percorso impeccabile: è uscita dallo scientifico con 100, 110 e lode a Medicina, 110 e lode alla specialistica e invece niente. Far carriera in quei reparti, che tra l’altro sono prevalentemente maschili, è dura: la donna si deve fare un doppio mazzo per dimostrare di essere all’altezza. Infatti, le donne medico non sempre hanno una famiglia proprio perché sono lavori totalizzanti. Conciliare resta un’impresa. Sì, anche perché non abbiamo le strutture. Adesso il piccolo va al nido; lo tengono privatamente fino alle sette di sera. Non è facile, anche perché pure io lavoro. Oggi la nonna a casa non c’è più, la nonna lavora! A ogni modo, organizzandoci, bene o male riusciamo a gestire tutto. Da settembre il bambino andrà a scuola, per cui a mezzogiorno sarà fuori. Dove li mettiamo questi bambini? Il fatto è che le strutture non si sono adeguate al cambiamento che ha fatto la donna. Durante la pandemia vi siete mobilitati affinché tua figlia non fosse costretta a smettere di andare in sala operatoria… Sì, con la nascita del secondo figlio e il lockdown c’è stato un momento critico. A un certo punto mia figlia mi ha detto: “Penso di ridurre la mia presenza in sala operatoria perché con i figli inizia a essere troppo faticoso”. Io l’ho guardata e le ho risposto: all’epoca le donne a 55-56 anni andavano in pensione, era difficile vedere una donna di 60 anni alla catena abbiamo aperto una settimana prima su base volontaria e ha aderito il 70% dei lavoratori

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