Una città n. 285

Enrico Deaglio, torinese, dal 2012 risiede a San Francisco. Si occupa di mafia da quarant’anni. Nel 2021 è stato consulente della Commissione antimafia della Regione Sicilia sul depistaggio del delitto Borsellino, diretta da Claudio Fava. Ha raccontato storie di mafia con Il figlio della professoressa Colomba, Sellerio, 1992, Raccolto rosso, Feltrinelli, 1993, Il vile agguato, Feltrinelli, 2012, Indagine sul Ventennio, Feltrinelli, 2014 e la trilogia di Patria, La bomba, Cinquant’anni di Piazza Fontana, Feltrinelli. Il libro cui ci si riferisce nell’intervista è Qualcuno visse più a lungo, Feltrinelli, 2022. Il tuo ultimo libro è avvincente come un grande libro giallo, ma purtroppo racconta cosa è successo in Italia negli ultimi quarant’anni a proposito di mafia e quant’altro ed è sconvolgente. Già dieci anni fa avevi pubblicato un libro incentrato sull’omicidio di Borsellino e sul depistaggio delle indagini, che in qualche modo resta al centro anche di questo tuo ultimo. Premetto che seguo da quarant’anni questi avvenimenti, diciamo che come giornalista la mafia e tutto il resto è la mia area di intervento. Ora, mi ero stupito che a un certo punto, nel 2009 più o meno, fosse venuto fuori questo Spatuzza, così dal nulla, a raccontare di essere stato lui a fare l’attentato e che Scarantino, in galera da anni per via d’Amelio, non c’entrava nulla. Tutti e due, Scarantino e Spatuzza erano stati arrestati da tempo, il primo nel 1992, il secondo nel 1997, quindi erano passati poco meno di vent’anni. Spatuzza, nei primi verbali che vennero resi pubblici, diceva che un ruolo importante, nella strage di via D’Amelio, l’aveva avuto un certo Vitale, un inquilino della casa scoppiata che, quella domenica mattina, aveva portato via tutta la famiglia e soprattutto aveva spostato la sua macchina dal parcheggio per far posto alla famosa 126. E allora mi ricordai che in quei giorni della strage il mio amico Bebo Cammarata, con cui collaboravo -a quei tempi lavoravo sia per la televisione che per “La stampa”- mi aveva accennato a questo Vitale “che in qualche modo c’entrava”: era una storia di scuderie e cavalli, in cui si incontravano la Palermo bene e la Palermo di Cosa Nostra. All’epoca io mi ero già trasferito negli Stati Uniti, ma proposi lo stesso alla Feltrinelli di scrivere un librettino al volo su questa cosa qui, e uscì Il vile agguato, in cui raccontavo l’assurdità di tutte le indagini che avevano seguito via D’Amelio, compreso il fatto che questo Vitale non fosse mai stato interrogato, che avessero lasciato cadere tutte le piste e soprattutto che nei cinquantacinque giorni che separano l’uccisione di Falcone da quella di Borsellino, quest’ultimo avesse avuto innumerevoli annunci di quello che stava per succedere. Insomma, era il delitto più annunciato che ci fosse stato. Il libro uscì nel 2012 ed ebbe anche un buon successo. Lì chiedevo: qualcuno riesce a dare una spiegazione di questo depistaggio? La vulgata generale era che sì, c’era stato un depistaggio, ma perché il commissario La Barbera, che gestiva tutte le indagini, aveva -la definirono così- un’ansia di prestazione a fronte di un paese in uno stato pressoché comatoso. In effetti stava crollando la Borsa, stavano crollando i partiti per Mani pulite, stava crollando la politica, l’economia, insomma stava crollando l’Italia e bisognava trovare subito qualcosa. E lui trovò questo Scarantino, un ragazzo, si disse, che aveva rubato la macchina e via dicendo. Ma per rassicurare l’opinione pubblica il risultato grosso da raggiungere era la cattura di Riina e così fu. Riina venne arrestato nel gennaio ’93 e tutti gridarono: “Vittoria, vittoria, la mafia è finita, hanno preso il capo”. Solo che poi, invece, ci sarà una coda di tutta questa vicenda, che sono le bombe del ’93, a Firenze, a Milano, a Roma, e si scoprirà che c’erano stati anche tanti altri episodi più piccoli che all’epoca non erano stati neanche considerati, ma che avevano creato un’aria di trame eversive, di colpo di stato. Il fatto più grave fu il black-out che ci fu a Palazzo Chigi, dove saltarono le linee telefoniche, e la macchina piena di esplosivo che trovarono lì davanti. Insomma, questo era il clima. L’altra cosa che mi aveva interessato era la scoperta che tutta la storia di Scarantino era stata un’impostura. Dieci anni dopo la morte di Borsellino, nel ’92, viene fuori questo Spatuzza che dice: “Sono stato io a piazza D’Amelio, non solo, sono quello che ha messo le bombe in continente”, il che, insomma, cambiava molto. Ebbene, non ci fu una particolare levata di scudi, nessuno si stupì più di tanto. “Ah, va beh, non è stato Scarantino, ci siamo sbagliati, è stato Spatuzza”... Ma poi Spatuzza subito dopo tirò fuori che i suoi capi erano questi fratelli Graviano che erano in rapporti d’affari con Berlusconi e lì, allora, la cosa cominciò a diventare torbida. Non so se ti ricordi, ma Spatuzza disse proprio: “Io mettevo le bombe perché erano gli industriali del nord, era Berlusconi che ce l’aveva ordinato”. Così sono andato avanti nella ricerca. Mi aveva colpito che questo Spatuzza fosse stato arrestato a Palermo nel ’97, quindi solo cinque anni dopo le stragi, e di lui non si era saputo mai niente, era uno dei tanti, non fece neanche notizia, mentre lui, in realtà, parlò subito, appena arrestato, ma la cosa venne tenuta segreta per una dozzina d’anni! E alla Procura nazionale antimafia, che lo andò a trovare nel carcere speciale, lui non solo confessò tutta la cosa, ma raccontò molto di più. E allora cominciò praticamente una trattativa fra Vigna, quello di Firenze, del mostro di Firenze, che era il Procuratore nazionale antimafia, e Piero Grasso, il suo vice, e Spatuzza, su cosa poteva ottenere se diceva quello o quell’altro. Praticamente si è scoperto che la Procura nazionale antimafia, già nel ’97, ma secondo me da prima ancora, era al corrente che tutta la pista Scarantino era una bufala totale. E se ne stette zitta. Se ne stette zitta mentre restavano in galera una quindicina di persone, accusate da Scarantino, che erano innocenti! Io nel libro, quest’ultimo, ho messo in appendice la registrazione del colloquio investigativo che ci fu. È un documento di ottanta pagine, da cui si vede che tutti sapevano tutto. E hanno lasciato correre. C’era chiaramente un coinvolgimento da parte della magistratura, ma anche della politica, peruna città 3 Due fratelli che se ne stavano al nord e hanno fatto tutto loro per decenni, indisturbati, perché godevano di una “favolosa protezione”, e quando sono stati presi tutto è cessato, nessuno è statopiù ucciso e nessuno hapiù indagato su dove fossero finiti i soldi prodotti per un decennio dal narcostato più importante del mondo; Sindona, Calvi, la consegna di Riina e chi mise l’esplosivo a Capaci, legato ai Servizi, “suicida” in carcere... Intervista a Enrico Deaglio. SONO LORO storia italiana poi Spatuzza subito tirò fuori che i suoi capi erano questi fratelli Graviano che erano in rapporti d’affari con Berlusconi

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