Una città n. 285

una città 44 aveva fatto somministrare ai pazienti trasfusioni di sangue infetto. Almeno 2.400 persone sono morte e più di 30.000 risultavano essersi ammalate gravemente. Queste trasfusioni, risalenti agli anni Settanta e Ottanta, avevano trasmesso l’epatite C o l’Hiv. Furono anche gli anni dello stigma. Non era stata, infatti, solo la malattia a gravare su questi pazienti: lo stigma legato a queste due malattie permane ancora oggi. Il fatto è che, come sottolinea DJ Ford, “Sapevano bene che [il sangue] era infetto”, e hanno continuato a usarlo comunque. Per decenni le autorità hanno continuato a negare. La vita di DJ Ford, dai 15 anni in poi, è stata rovinata da una malattia mortale, e poco importa quanto lei sia stata eroicamente stoica. La malattia si è manifestata per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta con un progressivo ingrassamento e conseguenti problemi di tiroide e calcoli biliari. Dopo una biopsia, DJ ha finalmente scoperto di avere contratto l’epatite C, ed è stato allora, per usare le sue parole, “che è partita la giostra”. Aveva un marito, due figli e da poco era riuscita a trovare un ottimo lavoro, quando è diventata completamente gialla per via della cirrosi epatica. Non avrebbe lavorato mai più. Otto anni fa ha subìto un trapianto di fegato, operazione che vede una sopravvivenza media di appena cinque anni. Una tragedia in cui ogni giorno è un regalo. Cosa, mi domando, può provare una persona (e la sua famiglia) con la costante paura di non arrivare a vedere il proprio prossimo compleanno? La scorsa settimana, la terza inchiesta pubblica sugli emoderivati contaminati, presieduta da Sir Brian Langstaff, ha raccomandato il pagamento di un indennizzo provvisorio ai sopravvissuti e ai parenti di coloro che sono morti dell’ammontare di 100.000 sterline. Questi risarcimenti andavano erogati decenni fa, ma in questo paese ci vuole molto tempo per ottenere che chi ha sbagliato paghi. Ora questi risarcimenti sono diventati urgenti, perché ogni quattro giorni una persona infetta muore. DJ Ford, però, non può ancora tirare il fiato. Ha imparato a prendere con le pinze le promesse e le dichiarazioni ufficiali. Dopotutto ci è voluto parecchio tempo anche solo per ottenere delle scuse pubbliche: è stato solo nel 2015 che David Cameron, rispondendo a un question time, ha riconosciuto la “percezione di ingiustizia che le persone devono aver provato nell’essere state infettate da epatite C o Hiv a seguito di un trattamento totalmente non correlato effettuato sotto l’egida dell’Nhs”. Questo è quanto accaduto fino a quando, nel 2018, l’ultima inchiesta ha aperto il vaso di Pandora, ordinando che si indagasse sull’impatto subìto dalle famiglie delle persone infettate, sul modo in cui le autorità hanno reagito e sulle cure e il sostegno offerti. Nessuno nega le modalità da cui ha avuto avvio la tragedia, e tuttavia ciò non significa che qualcuno si sia fatto avanti per addossarsi la responsabilità -cosa che non accadrà ancora per molto tempo. Sangue ed emoderivati erano stati prelevati negli Stati Uniti da carcerati, molti dei quali tossicodipendenti. Il prodotto, non analizzato, era stato poi importato nel Regno Unito e utilizzato nel trattamento degli emofiliaci e altre persone. Fin da subito, c’erano stati segnali d’allarme: nel 1974 la scienziata americana Judith Graham Poole aveva dichiarato che questo commercio era “pericoloso” e “non etico”. Nel 1975 l’Organizzazione mondiale della sanità aveva già esortato i paesi a raggiungere l’autosufficienza per quanto riguardava gli emoderivati. La Gran Bretagna non era pronta. La sua agenzia deputata, la Bpl, non aveva finanziamenti né capacità adeguate. All’inizio del 1983 il legame tra sangue contaminato e Hiv negli emofiliaci era noto alla comunità scientifica, ma il governo del Regno Unito aveva sempre negato che ci fosse una correlazione. Come da copione, queste smentite sono proseguite sebbene ci fossero molte prove di pubblico dominio e persone già infettate. Ora, con questa inchiesta, sembra proprio che le vittime, finalmente, dopo decenni di campagne, marce e tre inchieste pubbliche, siano più vicine a ottenere un risarcimento, il pieno riconoscimento di ciò che è accaduto in quegli anni e l’individuazione di chi era a conoscenza del problema, così da poter verificare se queste persone abbiano agito o meno nell’interesse del bene pubblico. L’ultima inchiesta dovrebbe diffondere i risultati l’anno prossimo. Non dovrebbe sempre volerci una vita, ma come questa ci sono molte lotte ancora in corso, e che a oggi non hanno ottenuto giustizia né il giusto risarcimento. Penso, ad esempio, alla compensazione dovuta alla “generazione Windrush”, uomini e donne vergognosamente maltrattati e deportati dal Ministero dell’Interno nelle Indie occidentali, a volte in paesi in cui non avevano mai vissuto o che avevano lasciato da bambini. Qui l’andamento dei risarcimenti procede con una lentezza avvilente: a novembre dello scorso anno, secondo la Bbc, solo il 5% di chi aveva presentato ricorso aveva ricevuto quanto gli spettava, e alcuni di coloro che avevano diritto al risarcimento sono nel frattempo morti. Anche la “Campagna per la verità e la giustizia di Orgreave” è ancora in attesa di un’indagine pubblica sulle violenze della polizia del Nottinghamshire sui minatori in sciopero nel giugno 1984, in quella che è stata definita “La battaglia di Orgreave”, e successivamente descritta dagli ex minatori come una “dilettere, rubriche, interventi la buona notizia Khalida è a casa!

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