Una città n. 285

una città 41 determinante nel varo del suo governo proprio nel giugno del ’60. Impossibile dimenticare quelle giornate. Giuseppe Pellerano, Rinaldo Ferrari, Otello Delpino, Aldo Perugi, Paolo Varretto, Giuseppe Calcagno, Pietro Visconti, Giuseppe Moglia. È molto lungo l’elenco dei cittadini genovesi che furono condannati ad anni di reclusione per avere partecipato il 30 giugno 1960 alla manifestazione antifascista che voleva tenere lontano dalla città il congresso fascista del Msi che il presidente del consiglio Fernando Tambroni aveva autorizzato per il 2 luglio. Nella retorica rievocativa, che mette in risalto il successo di una città che seppe esaltare coraggio e libertà e memoria storica, spesso si rimane in superficie a valutare i fatti di quei giorni. Ma è certo che senza la spinta dello sdegno popolare e l’impeto di tanti giovani che in quelle giornate furono insieme protagonisti e vittime di un clima intriso di trame autoritarie, non ci sarebbe stato il salto verso un modello di società che avrebbe guidato il paese verso uno sviluppo prodigioso. L’annuncio del congresso del Msi si era palesato un po’ in sordina. Le grandi testate giornalistiche della sinistra, soprattutto “l’Unità”, pensavano di poter collocare l’avvenimento in una dimensione locale. A Milano, qualche anno prima, il congresso del Msi si era tenuto senza incidenti. Toccò al senatore Umberto Terracini, genovese di nascita e presidente dell’Assemblea Costituente, agitare le acque in un severo intervento a Pannesi di Lumarzo in occasione della festa delle Repubblica, dove parlò della provocazione che si stava mettendo in atto. Al comizio nella Fontanabuona era presente il segretario dell’Anpi Giorgio Gimelli (nome di battaglia Gregory) che, con i suoi fidati compagni Elio Terribile, Eraldo Olivari e Orlando Parodi (Polvere), Elio Balestrino, Carlo Cerboncini, diede il via a una sottile trama che allertava le forze partigiane che avevano presidiato le montagne intorno a Genova. Furono dissotterrate anche le armi. Don Dellepiane, parroco di Barbagelata, scriveva: “Le nostre piaghe sono ancora aperte. L’incendio acceso dai nazifascisti nel nostro paese nell’agosto ’44 non è ancora spento”. La questura vieta manifestazioni pubbliche già il 25 giugno con scuse provocatorie (occorreva chiedere l’autorizzazione alla manifestazione almeno tre giorni prima). Genova viene dipinta a livello ministeriale come città di pericolosi sovversivi. A Palermo avvengono gravi scontri tra disoccupati e polizia. Il 28, Sandro Pertini, con un discorso che fu paragonato a un “brichettu” (fiammifero), in piazza della Vittoria davanti a trentamila persone infiamma gli animi. “Cercano i sobillatori di questa manifestazione: sono i fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, i torturati della casa dello studente, che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime e delle risate sadiche dei torturatori”. La Cgil proclama lo sciopero per il 30 giugno, la Cisl opta per l’adesione volontaria degli iscritti, la Uil non aderisce. Nella notte, la polizia, non si sa bene perché, delimita i cantieri di Piccapietra con cavalli di frisia. Nel pomeriggio del 30 il segretario Cgil Bruno Pigna parla davanti a centomila persone. Plotoni di polizia sono dislocati in tutto il centro. Carabinieri di Padova, famosi per il loro impegno a sedare manifestazioni di sinistra, sono schierati in forze. Finita la manifestazione, tornando a casa i giovani con le famose “magliette a striscie” si trovano davanti alle provocazioni e agli idranti delle forze dell’ordine. È l’inizio della guerriglia tremenda e feroce intorno alla fontana di Deferrari e nei caruggi (vicoletti del centro storico). Feriti da tutte due le parti, la polizia arresta anche dentro gli ospedali. Intimiditi a manganellate i medici e gli infermieri. Giorgio Gimelli e Angiulin Costa, commissario ex partigiano, faticano su un’auto a sedare gli animi. Si racconta che fosse comparso uno striscione “Celerini figli di puttana non sparate sui vostri fratelli operai”. Ci fu una lunga trattativa tra il Prefetto Pianese e le parti avverse. L’Anpi chiedeva lo spostamento del congresso al teatro Ambra di Nervi, periferia di Genova. I fascisti, guidati dal segretario Michelini, pretendevano che nello stesso giorno la sinistra non manifestasse a gran voce, con altro corteo, in favore della democrazia. Il congresso del Msi fu sospeso e a Genova si respirò altra aria. Un sollievo per tutta l’Italia. Gli arrestati tra i giovani furono 112. Il 19 luglio 1962 a Roma la sentenza per 43 detenuti fu pesante. Una nobile arringa di Terracini non fu ascoltata. Nessuna responsabilità fu attribuita alle forze dell’ordine. L’operaio Moglia, condannato a un anno e mezzo di reclusione, ne aveva già scontati due di carcere. Tambroni, che pure era stato scelto dal presidente delle Repubblica Gronchi perché militava nella corrente di sinistra della Dc, dovette dimettersi pochi giorni dopo. Ma in Italia, a Palermo (due morti), a Reggio Emilia (cinque morti), e in molte città italiane i tumulti contro la destra fascista si moltiplicarono. Dal presidente del Senato Merzagora furono chieste due settimane di riflessione. Si apriva la strada ai governi di centro-sinistra guidati dapprima da Fanfani e poi da Moro con l’adesione del Psi guidato da Pietro Nenni, che diventerà Ministro degli Esteri e favorirà l’ingresso della Cina all’Onu. In esilio a Parigi durante il ventennio, aveva conosciuto Ciu En Lai, che nella capitale francese faceva il cameriere. Il sodalizio ideale e un’amicizia cordiale furono alla base di una importate scelta di politica internazionale. Erano gli anni del boom economico, di tanti progressi sociali e di tante preoccupazioni politiche: le stragi, le cospirazioni contro la democrazia (Sifar), una democrazia sempre sull’orlo di fragilità preoccupanti. Ma Genova fu ancora città meravigliosa: ai detenuti a Marassi venivano portate cibarie e alle famiglie devoluti gli equivalenti degli stipendi percepiti in passato. Nel 1985, il sindaco Cerofolini, con una delibera comunale, pagò le ultime rate delle spese processuali che incombevano sui condannati. Una lotta di popolo, una lotta di solidarietà indimenticabile. La storia di una città mai prona alle angherie e ai soprusi. Concludeva Pertini: “Siamo decisi a difendere la Resistenza, a impedire che a essa si rechi oltraggio. Costi quel che costi”. La onorevole Meloni, che con sicumera affronta il prossimo impegno elettorale, millantando un primato tutto da conquistare, sarà capace di rispettare questo impegno senza ambiguità? Per anni mi sono occupata e ho combattuto per l’aborto legale (non per l’aborto e basta) e quindi mi sento di poter fare alcuni commenti in proposito. L’attuale Corte Suprema statunitense è reazionaria, integralista e antiabortista. Ciò detto, in cinquant’anni i Democratici e chi era a favore dell’aborto legale non si sono impegnati e non hanno approvato una legge anche quando erano in maggioranza. Forse la maggioranza lo era solo a parole. Hanno continuato a dipendere da una sentenza lettere, rubriche, interventi Dove sono finite tutte le donne? di Vicky Franzinetti

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