A conti fatti

3 Anch’io ringrazio molto “Il Mattino”, intanto per aver promosso questa iniziativa, questo dibattito che mi sem- bra tempestivo, e anche per avermi invitato a presen- tare qui la nostra parte. A differenza di chi mi ha appe- na preceduto, io cerco di partire non da considerazioni giuridiche o persino anche tecniche, ma da considera- zioni diciamo politiche, cioè quali erano e quali sono i due obiettivi che si riteneva, nella logica del nostro si- stema autonomistico, di soddisfare con il censimento et- nico, chiamiamolo così, cioè con il censimento modello 1981. Il primo mi pare fosse essenzialmente un’esigenza di ga- ranzia, di difesa dell’identità etnica, cioè di identifica- zione etnica garantita. Quindi accertamento della con- sistenza del gruppo linguistico e anche verifica del fun- zionamento del sistema autonomistico, della sua capa- cità di garantire la sopravvivenza dei gruppi linguistici tutelati. Poi anche garanzia, in un certo senso, dell’iden- tità etnica del singolo, quindi la fissazione del singolo nel suo status di appartenente a uno dei tre gruppi lin- guistici. La seconda esigenza che questo modello di censimento doveva soddisfare era quella di garantire non solo una base di ripartizione per la lottizzazione, diciamo, per far funzionare la giustizia etnica (una giustizia di riparti- zione su base etnica), ma anche il fatto che poi il singolo utente fruisse della parte per aumentare la quale era andato al fronte, si era iscritto al censimento. L’idea sot- tostante è che la fetta è tanto più grande quante più persone si segnano nel censimento in favore di questo o quel gruppo linguistico. Al momento di distribuire il bottino, chiamiamolo così, ognuno di quelli che ha mes- so il suo nome per quel gruppo diventa una specie di pic- colo azionista di quella quota. Queste due esigenze, garantire l’identificazione etnica e garantire la giustizia etnica nella ripartizione di certe risorse, mi sembrano entrambe in buona parte nobili e in parte anche ignobili. Voglio allora ragionare, se pos- sibile, su come rispondere a queste due istanze in un modo diverso da quello che è stato il censimento dell’81. Parto dalla prima questione: l’identificazione etnica. Noi sappiamo che solo in tempi molto recenti, sostan- zialmente per un decennio, cioè dal varo delle norme di attuazione del ’76 fino, grosso modo, all’87, nel nostro sistema è emersa l’esigenza di inchiodare il singolo al- l’appartenenza del suo gruppo linguistico. Il presidente Magnago, qui presente, amava spesso ripetere, e lo fa tuttora, che si può tutelare solo quello che si conosce, si può tutelare una minoranza solo se è stata individuata e così via, però, insomma, l’accordo di Parigi in favore della nostra minoranza è stato concluso senza averla contata, senza averla identificata singolarmente. Il pri- mo Statuto di autonomia è stato emanato senza che questo avvenisse. Anche il secondo Statuto di autono- mia è stato emanato senza che ci fosse una identifica- zione etnica delle singole persone, considerando i gruppi linguistici e l’appartenenza ad essi come un dato fattua- le, sociologico, storico, ecc., ma senza necessità di inchio- dare tutti quanti. A questo proposito, vi ricordo che nel precedente ordi- namento, cioè prima che scattasse la trappola del cen- simento, c’erano diversi articoli nel vecchio Statuto, e poi anche nel nuovo, che facevano riferimento all’iden- tità etnica senza necessità di fissare queste persone. Per esempio, la scuola nel Sudtirolo, fin dalla Libera- zione, cioè fin dal primo assetto autonomistico in parte ancora prima dello Statuto, era per gruppi linguistici distinti, in lingue distinte. Il primo Statuto di autono- mia diceva, all’art. 15, che la scuola è di madrelingua, ecc., e gli insegnanti dovevano quindi rendere una spe- cie di dichiarazione di appartenenza a questa o a quella madrelingua, ma senza alcuna particolare formalità; questo ha funzionato benissimo. Cioè la scuola italiana aveva insegnanti italiani e la scuola tedesca aveva in- segnanti tedeschi ben prima del censimento, ben prima di questa modalità di identificazione etnico-burocratica. Altri casi che si possono ricordare sono quelli per esem- pio degli eletti. È stato già ricordato che anche nello Sta- tuto precedente era prevista una sorta di rappresentan- za linguistica nei consessi elettivi, per esempio il Con- siglio Regionale, i Consigli Comunali e Provinciali, ecc., ed esisteva una semplice forma di dichiarazione degli eletti in cui rendevano noto al presidente del consesso a quale gruppo linguistico appartenevano e questa di- ventava poi la base di ripartizione delle rappresentanze obbligatorie nelle giunte, cioè tot appartenenti a questo, tot appartenenti a quell’altro gruppo linguistico. Esiste- vano modalità analoghe in riferimento alla questione dell’uso della lingua. Fin dal ’61, le norme sull’uso della lingua giudiziaria concedevano una serie di prerogative che molti hanno anche usato. Io personalmente le ho sfruttate molte volte: ho fatto annullare atti che mi era- no stati recapitati solo in lingua italiana. Tuttavia nes- suno mi ha mai chiesto per questo una dichiarazione di censimento; non era necessario che mi qualificassi come cittadino di lingua tedesc; queste norme garantivano una certa tutela che è stata anche attuata e attivata, senza che ci fosse bisogno di una identificazione coatti- va. O possiamo ricordare ancora, per esempio, che la Provincia e la Regione hanno introdotto norme sulla proporzionale nel pubblico impiego fin dalla fine degli anni Cinquanta, senza che ci fosse alcun bisogno di in- chiodare le persone nella loro identità etnica: al momen- to di fare domanda, questa veniva indirizzata alla gra- Togliere rigidità all’identificazione etnica reprint voglio sfatare una bugia ancora diffusa, che senza identificazione etnica nominativa del singolo non può funzionare il sistema Intervento di Alexander Langer al Convegno sul Censimento 1991 promosso dal quotidiano “il Mattino dell’Alto Adige”, 24 ottobre 1989

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