A conti fatti

duatoria tedesca o italiana o ladina; contestualmente all’atto, l’interessato si dichiarava appartenente a que- sto o quel gruppo linguistico. Quindi voglio sfatare con questo una prima bugia che viene ancora diffusa, cioè che senza identificazione etnica nominativa del singolo, il sistema non può funzionare. Non è vero, può funzio- nare e ha funzionato. Va anche sfatata una seconda bu- gia diffusa in particolare da Frasnelli, il capogruppo del- la Volkspartei al Consiglio Provinciale: egli sostiene che la proporzionale, e quindi il censimento, tutela gli ita- liani di qui contro la concorrenza degli italiani di altre province. È falso. Semmai è il bilinguismo che li tutela, perché gli italiani di altre province sono probabilmente poco bilingui e quindi verosimilmente non superano l’esame di bilinguismo; dunque non è la proporzionale a tutelarli perché, anzi, in base a quella, gli italiani del- le altre province sono teoricamente concorrenti temibili. La proporzionale infatti richiede solo che ci si sia dichia- rati appartenenti al gruppo linguistico italiano, dichia- razione che possono rendere anche al comune di Sassari o di Gioia Tauro, se vogliono. Quindi questa è proprio una falsità che va spazzata via. Voglio ribadire che l’identificazione etnica, la garanzia che un gruppo sia ancora riconoscibile come tale, che i singoli possano essere identificabili come appartenenti a un gruppo linguistico non deve necessariamente pas- sare attraverso il timbro individuale, attraverso la mar- catura che per la prima volta è stata introdotta in forma individuale nel 1977, con una dichiarazione ad hoc. L’identificazione etnica del singolo, allora solo su richie- sta o in certe condizioni, risale a quell’epoca e poi nell’81 è diventata generale. Questa identificazione etnica con il tempo è diventata sempre più costitutiva di status e sempre più rigida. Pensate, per esempio, alle norme sulla rappresentanza sindacale. Nel nostro ordinamento esiste una norma che prevede il sindacato del gruppo linguistico tedesco e la- dino. O pensate alle norme sull’uso della lingua che pre- tendono la lealtà etnica, la lealtà linguistica obbligato- ria a chi si è dichiarato appartenente a un determinato gruppo linguistico. O ancora pensate alle norme sul- l’iscrizione alla scuola; anch’esse prevedono forme di le- altà a questo o a quel gruppo linguistico. Il punto è che l’identificazione etnica o linguistica -non voglio adesso discutere sulla differenza tra questi due termini- da nozione “di fatto” e dopo essere stata la base “di fatto” del nostro intero ordinamento e anche della stessa difesa e salvaguardia delle comunità di lingua te- desca e ladina, è stata invece fissata dalla legge e fer- mata sulla carta a partire dal ’76 (prima norma che lo prevedeva), e poi nel ’77 (prima norma di attuazione) e nell’81 (prima rilevazione e registrazione nominativa individuale) e infine da alcune norme successive che hanno rafforzato questo sistema. Io penso che la questione dell’identificazione etnica, in questa forma, abbia una caratteristica assolutamente inaccettabile dal punto di vista delle libertà civili e de- mocratiche perché pretende un’identificazione che do- vrebbe esprimersi in ben altre forme, e fra l’altro finisce per falsare i risultati. Prima che esistesse questa forma di registrazione individuale, la corrispondenza effettiva tra realtà etnico-linguistica e realtà etnico-linguistica dichiarata era molto più forte di oggi, anche nelle sin- gole occasioni. È un po’ come quando si dice che l’Italia è un paese con il 96% di cattolici... Io sono dell’idea che l’identità cattolica di un paese non si possa desumere da dichiarazioni, ma eventualmente dalla pratica di una fede. Tutte le forme di identifica- zione collettiva non possono essere fissate principal- mente sulla carta, ma vanno semmai attivate e dimo- strate nella realtà. Da questo punto di vista, il tipo di identificazione etnica che il censimento ha finito per im- porre nella nostra realtà è appunto di tipo coattivo, di qui anche la confusione su quante e quali identità deb- bano essere ammissibili e tutelate, e così via. Prendiamo il secondo aspetto, la questione della ripar- tizione. Qui trovo sbagliato anche il presupposto e di nuovo anche questo non è contenuto nello Statuto. Per- sonalmente contesto questa lettura prevalente dello Statuto, di cui ho trovato pervaso intimamente per esempio l’intervento di Reggio d’Aci, che ha considerato come unica lettura possibile dello Statuto quella che si è oggi concretata nel diritto vigente delle norme di at- tuazione. Ecco, questa interpretazione mi sembra assai riduttiva rispetto agli stessi intenti, cioè allo spirito di buona parte dello Statuto. La stessa giustizia etnica, garantita dalle quote e dall’appartenenza nominativa di ogni cittadino a una delle tre quote, nello Statuto ri- guarda una piccolissima parte della realtà. A questo proposito, c’è un articolo nello Statuto, l’attuale articolo 15, che impegna in particolare la Provincia a usare i suoi mezzi e le sue risorse con giustizia verso i gruppi linguistici, quindi pretende che questa istituzione non favorisca questo o quel gruppo. Si tratta di un impegno alla giustizia etnica, e questo va benissimo, mi pare; do- podiché c’è un solo articolo riguardante il pubblico im- piego che prevede la necessità di una ripartizione esat- ta. Parliamo di 7.000 posti. Bene, per distribuire 7.000 posti dobbiamo schedare 440.000 persone? Mi sembra una follia. Quindi anche l’idea della giustizia etnica, che si può ga- rantire solo se tutti sono incasellati e individualmente fissati, per cui in ogni occasione basta tirare fuori la scheda per sapere a quale quota il tale o la tale ha di- ritto, mi sembra una forte aberrazione. Non è un caso che di fronte a delle esigenze di per sé giuste (quella del- l’identificazione etnica, della possibilità di piena affer- mazione di identità etnica, e quella, altrettanto giusti- ficata, di giustizia etnica, per evitare che tutti i posti nel pubblico impiego vadano a un solo gruppo) la rispo- sta che è stata trovata fino a oggi è palesemente insod- disfacente e genererà sempre più resistenze. Allora, di fronte a questa impasse, mi pare che oggi ci siano essenzialmente due proposte sul tavolo. Una dice: manteniamo rigida l’identificazione nominativa degli appartenenti al gruppo linguistico, ma poi come venir fuori dalle difficoltà che questo crea? Ecco allora il Con- siglio di Stato che propone la moltiplicazione delle ca- selle. Dall’altra parte, c’è la proposta di alcuni, credo an- che di Bertoldi -che penso oggi illustrerà- che propone: “Riduciamo le caselle, facciamo una casella minoranze e una casella residuale”. 4 per distribuire 7.000 posti dobbiamo schedare 440.000 persone? Mi sembra una follia reprint

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