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anni del conflitto. “Non avevo mai messo in
relazione il silenzio con la vergogna”, ha
detto qualcuno a Sarajevo, illuminandosi
per la scoperta.
Le ferite del silenzio
A questo si lega un secondo aspetto impor-
tante. Tutta la vita di Levi dopo il ritorno
dal Lager è stata attraversata dal suo sforzo
incrollabile di raccontare la propria espe-
rienza di deportato, anche nei momenti in
cui intorno a lui prevalevano il disinteresse,
l’incomprensione o l’indifferenza. Il suo -è
stato sottolineato- rappresenta dunque un
esempio straordinario per chi esita o non si
sente di parlare, nella convinzione, spesso
fondata, di non avere interlocutori disponi-
bili all’ascolto. Come quando ci si scoraggia
-nella ex-Jugoslavia, ma non solo- di fronte
alla tendenza, diffusa soprattutto nei più
giovani, a voler prendere le distanze da un
passato troppo doloroso e inquietante. L’ope-
ra di Levi come esempio dunque, ma anche
come conforto contro la solitudine: “Anche
lui -ha notato quasi con sollievo qualcuno-
ha vissuto esperienze e sensazioni parago-
nabili alle nostre!”. E la solitudine è fra le
peggiori ragioni di sofferenza per chi ha per-
duto le persone più care o affonda senza vie
di scampo nella spirale del trauma.
Del resto anche Levi aveva sperimentato il
rifiuto e l’indifferenza, quando nell’imme-
diato dopoguerra il suo libro era stato re-
spinto da molti editori, ma soprattutto per
i lunghi anni in cui l’Italia e l’Europa ave-
vano scelto di rimuovere dal proprio oriz-
zonte lo sterminio, e fino a quando una nuo-
va generazione non si sarebbe affacciata a
chiedere la verità sul passato. Negli incon-
tri di Tuzla, Srebrenica e Sarajevo, quel-
l’analogia è emersa con chiarezza, ma è an-
che stata più volte sottolineata una diffe-
renza importante. In Bosnia le difficoltà a
rielaborare le tragedie del passato sono for-
temente aggravate da un dopoguerra che
sembra non finire mai: per una crisi econo-
mica che non vede soluzioni, per il persiste-
re delle spinte nazionaliste alimentate da
un sistema politico bloccato, per l’isolamen-
to in cui il paese è costretto dall’indifferen-
za dell’Unione Europea e di tanti paesi, non
ultima l’Italia.
In un quadro così sconfortante le parole di
Levi possono rappresentare un contributo
importante, per la loro forza, la loro nitidez-
za, ma anche per la pacatezza che ne facili-
ta l’ascolto e l’accoglienza. I partecipanti
bosniaci ai vari incontri sono rimasti molto
colpiti dall’incapacità di odiare manifestata
dal loro autore e insieme dalla sua indispo-
nibilità al perdono, dal suo sforzo costante
di aiutare il lettore a pensare e, per quanto
possibile, a comprendere. Si sono sentiti
rassicurati dalla sua determinazione ad af-
fidare in primo luogo ai propri interlocutori
il compito di giudicare, mettendoli di fronte
alla verità dei fatti, senza però mai rinun-
ciare al proprio punto di vista e senza na-
scondere il proprio travaglio di fronte a re-
altà difficili da afferrare e a dilemmi etici di
straordinaria complessità.
Sono aspetti ben noti dell’opera di Levi a
chi ne ha una frequentazione più assidua,
ma possono diventare scoperte straordina-
rie per chi vi si avvicina per la prima volta,
spinto oltre tutto da quello che potremmo
quasi definire uno stato di necessità. Uno
dei tanti commenti ascoltati a Sarajevo aiu-
ta a cogliere la portata di quelle scoperte:
“Anche solo la lettura di un breve passaggio
della sua opera -come si è fatto in alcuni de-
gli incontri- aiuta a pensare, a mettere in
moto la mente”. È come avere sete e trovare
insperatamente dell’acqua.
Tra vittime e aguzzini
E per quei nuovi lettori i suoi racconti e i
pensieri che li accompagnano possono rive-
larsi in forma tanto più diretta e coinvol-
gente grazie al fatto che Levi non ama ra-
gionare in astratto, ma preferisce scoprire
e descrivere come le idee si incarnino nella
vita concreta dei singoli. Vedere dunque le
vittime e, insieme, gli aguzzini come indivi-
dui in carne e ossa: anche questo può essere
una scoperta straordinaria in un mondo do-
ve il silenzio è spesso la matrice di stereoti-
pi rigidi e sempre uguali, resi ancora più ri-
gidi e uguali dalla propaganda ufficiale con-
dotta, in una logica autoritaria e aggressi-
va, da un gruppo contro l’altro, e con tanta
maggior virulenza da chi si sente fiero della
propria impunità.
Che su tutto questo la discussione abbia of-
ferto ai partecipanti numerose occasioni per
incontrare nuove idee, volta per volta su te-
mi e fra interlocutori diversi, è stato grazie
a molte ragioni: una fra le altre la presenza
di uno scrittore che ha concepito e articolato
il suo discorso proprio con questo scopo.
vedere le vittime e gli aguzzini come
individui in carne e ossa:
una scoperta straordinaria
Il superstite
a B. V.
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
«Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni».
4 febbraio 1984.
Primo Levi,
Opere
, a cura di Marco Belpoliti,
Einaudi, Torino, 1997, p. 540