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serbi, albanesi, eccetera.
Ad ogni modo, per creare gruppi interetnici,
interconfessionali o inter “qualcosa”, alcune
delle cose che abbiamo imparato sono le se-
guenti. Gruppi di questo genere richiedono,
soprattutto all’inizio, un buon potenziale di
diserzione. Inizialmente questi gruppi di
norma saranno formati da disertori dei ri-
spettivi gruppi e da persone che accettano
di andare controcorrente, che accettano an-
che il rischio di un certo isolamento, di es-
sere considerati traditori; questo è un ri-
schio che va corso, anche se può isolare.
Ma, attenzione, non servono assolutamente
dei transfughi. Servono disertori che lasci-
no il fronte, gente che passi dall’altra parte.
È una distinzione essenziale. Cioè è essen-
ziale che un gruppo di conciliazione sia fat-
to, appunto, non da “amici del Giaguaro”,
ma da persone che mantengano in qualche
modo una relazione la più organica possibi-
le col proprio entroterra, cioè che possano
essere considerati disertori, ma non dei
“cattivi serbi” perché disprezzano il loro es-
sere serbi (o cattivi sudtirolesi perché se ne
vergognano). Questo è molto importante.
In questi gruppi misti ci devono essere com-
ponenti che non perdano i legami con la
propria parte. Un’altra cosa decisiva è che
ogni sforzo di questo genere abbia continui-
tà, cioè che non si tratti di cose “una tan-
tum”. Conciliazione e riconciliazione hanno
tempi lunghi.
Un’altra cosa importante è che possibil-
mente ci sia una certa simmetria. Noi,
vent’anni fa, da ragazzi, abbiamo imparato
dall’esperienza una cosa semplice. Che, per
esempio, una critica fatta alla parte tedesca
era molto più credibile se contemporanea-
mente si faceva anche una critica alla parte
italiana, o viceversa. Non si può insomma
dare l'impressione di vedere sempre i torti
da una parte e non dall’altra. Il secondo
aspetto di questa simmetria è quello “della
pagliuzza e della trave”, cioè noi abbiamo
imparato che una critica alla parte sudtiro-
lese era tanto più credibile se veniva formu-
lata da una persona di madrelingua tede-
sca, e che una critica alla parte italiana era
tanto più credibile se veniva formulata da
una persona di lingua italiana.
Questa è una delle cose più difficile da far-
si, perché i movimenti di solidarietà spesso
amano poter fare il tifo in modo netto senza
guardare troppo alle ragioni riposte nell’al-
tra parte. Invece, per un lavoro di riconci-
liazione, si deve accettare che, almeno sog-
gettivamente, almeno nella propria visione,
anche la parte considerata più lontana, o
più avversaria, abbia le sue ragioni e che
queste in qualche modo dovranno essere
prese in considerazione, esaminate.
Aggiungo che ogni lavoro di riconciliazione
richiede un grande sforzo di giustizia e di
imparzialità. Imparzialità non vuol dire
equidistanza, neutralità. Vuol dire non sta-
re lì per partito preso (che uno sa già dove
va a parare) e tutto quello che fa lo fa so-
stanzialmente per arrivare a quel risultato.
È un po’ quello che si chiede, non dico a un
giudice, perché conciliare e giudicare non
sono la stessa cosa, ma almeno a un arbi-
tro, a un mediatore.
Altrettanto importanti sono le misure che
in genere danno fiducia. Una cosa è affron-
tare un dialogo in una situazione di conflit-
to in cui tutte le parti possono avere fiducia
in chi agisce, perché si considerano anche le
ragioni dell’altra parte; altra cosa è se vice-
versa non lo si fa.
Ciò che ha permesso, un pochino, alla Co-
munità europea di svolgere (spesso assai
male) qualche ruolo di mediazione è stato il
fatto di essere considerati potenzialmente
amici di tutta la ex-Jugoslavia. Anche se poi
ciascuno ha tirato un po’ dalla sua parte.
Molti dei nostri principi e delle nostre im-
postazioni, a volte assai teoriche, sull’azio-
ne di pace, erano legati a una situazione in
cui il conflitto era essenzialmente “est-
ovest”, “Mosca e Washington”, con le stanze
dei bottoni nucleari, ecc. Ecco, i conflitti che
si profilano, al contrario, coinvolgeranno
molto profondamente i sentimenti delle
persone, e l’elemento etnico o razziale o re-
ligioso avrà un grande peso. Per questo, un
atteggiamento spirituale e di capacità di
prevenzione deve avere a che fare non tan-
to e non semplicemente col rifiuto dell’azio-
ne militare, ma molto di più con la capacità
di costruire attitudini alla convivenza.
Guardate quale potenziale di odio può svi-
luppare se -com’è successo in questi giorni
da noi in Europa- dei ragazzi di diciotto,
venti, venticinque anni decidono di partire
per incendiare una baracca di immigrati. È
una questione veramente cruciale, più di
qualsiasi problema di armamenti; poi è ve-
rissimo che ci sono gli armamenti, che c’è
chi li produce, chi li deve vendere, per ven-
derli bisogna che vengano usati, ma la di-
sponibilità oggi a usare violenza è il primo
punto da individuare in un lavoro di pace.
imparzialità non vuol dire neutralità.
Vuol dire non stare lì per partito preso
(che uno sa già dove va a parare)
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