18
L’uccisione di uomini catturati in luo-
ghi sotto la giurisdizione del Drina
Korps, tra il 13 e il 23 luglio
Sono stati ricostruiti dettagliatamente tre
dei casi più atroci di esecuzioni di massa,
eseguite a Kravica, a Branjevo, dove allora
si trovava una fattoria per uso militare, e a
Pilica.
13 luglio, Kravica
: tra 1.000 e 1.500 uomini
catturati dalla colonna erano tenuti impri-
gionati in un grande edificio nel villaggio di
Kravica, nei pressi di Bratunac, torturati e
trattati in modo disumano. Là trascorsero
cinque giorni, dal 13 al 18 luglio. Secondo
testimonianze serbe rese davanti alla giu-
stizia internazionale, uno dei prigionieri
riuscì a strappare un’arma a una delle
guardie e le sparò.
Questo incidente è stato anche qualificato
come causa di quanto sarebbe successo do-
po, ma non c’è alcun elemento che indichi
che gli omicidi di massa non sarebbero stati
commessi comunque. I serbi uccisero i pri-
gionieri con fucili ed esplosivi. Secondo le
testimonianze di alcune persone sopravvis-
sute alla strage, i soldati serbi, dopo aver
gettato ordigni esplosivi all’interno dell’edi-
ficio, spararono alle teste delle loro vittime
per essere sicuri che fossero morte.
16 luglio, Branjevo:
circa 1.200 uomini di
Srebrenica vi erano tenuti prigionieri. La
Memoriale di Potocari
Tabut
-così i musulmani di Bosnia chiamano
le bare. A 20 anni dal luglio 1995 sono com-
plessivamente 6.200 le persone che hanno
trovato sepoltura alla
mezarija
, il cimitero
del Memoriale. Nel luglio 2014 è stata la vol-
ta di 44 minorenni tra cui una neonata.
Prima di essere esposti in un’ordinata e in-
quietante coreografia sul prato del Centro
Memoriale di Potocari, i
tabut
sono stati rac-
colti in un hangar. Tagli di luce che entrano
dalle finestre squadrate di uno squallido ca-
pannone industriale di lamiera e cemento,
quasi studiati per accogliere l’ultimo momen-
to di intimità dei familiari delle vittime. Poi,
di colpo, la folla. Ci sono le bare da portare in
processione al Memoriale. Il tempo è sospeso.
Fuori, verso il prato del Memoriale, i media
sono schierati. Camion attrezzati e ogni ge-
nere di aggeggio per riprendere, documenta-
re, mostrare, informare.
Viaggiano paralleli diversi piani di realtà.
Quello delle famiglie che vivono il dramma
del gesto concreto di scavare una fossa, di
sotterrare e coprire con badilate di terra i lo-
ro morti. Quello dei politici, delle autorità,
delle personalità locali e degli ospiti interna-
zionali, particolarmente numerosi nel ven-
tennale che ha visto la clamorosa aggressio-
ne al premier serbo Vucic. Quello di chi ha ri-
cordato -partecipando alla Mars Mira- la co-
lonna dei quindicimila che tentò di fuggire
dalla furia delle truppe di Mladic, cercando
di raggiungere i territori non occupati e che
venne decimata in una caccia all’uomo senza
pietà. Quello di chi spera, l’anno prossimo, di
ricevere la telefonata del Centro di Identifi-
cazione di Tuzla. Quello di chi ha ritrovato
solo due ossa di suo figlio e ha deciso che po-
tevano essere abbastanza per seppellirlo, do-
po un’attesa lunga 18 anni. Quello di chi -co-
me il Sindaco di Srebrenica, Camil Durako-
vic- chiede al mondo di non dimenticare e di
impegnarsi a far ritornare la città un luogo
di pace e di tolleranza.
E ancora, la realtà di chi è arrivato da lonta-
no per partecipare al dolore di un popolo: i
bosgnacchi della diaspora, che dopo la com-
memorazione fanno una tappa obbligata a
quello che rimane delle Terme di Guber.
Riempiono una bottiglia di acqua da portarsi
a casa. Quell’acqua che, insieme alle ricchez-
ze minerarie, rese prospera Srebrenica fin
dai tempi dei romani.
Srebrenica, dopo la cerimonia, si svuota. Ri-
torna a essere sola come è stata lasciata sola
nel ’95. Adesso ci vive pochissima gente. De-
fluita la folla, i cani randagi ritornano padro-
ni delle strade.
Oggi, per una parte di Srebrenica è un giorno
solenne. L’11 luglio i serbi -quelli ortodossi
osservanti- si preparano a festeggiare il
Pe-
trovdan
(il giorno di San Pietro), una delle
più importanti ricorrenze ortodosse. Ha man-
tenuto il sapore antico. I suoni e le atmosfere
della liturgia ortodossa, la musica tradizio-
nale, il rito del fuoco. Se qualche ora prima
non ci fosse stata la cerimonia di commemo-
razione delle vittime del genocidio, sarebbe
stata una bella occasione per conoscere un
pezzo della storia di questa terra di confine.
La Drina, che separa Srebrenica dalla Ser-
bia, è stato uno dei grandi confini tra culture.
Lungo il suo corso passava la linea di demarcazio-
ne tra l’Impero Romano d’Oriente e d’Occidente,
che poi divenne il confine tra cattolici e orto-
dossi e poi tra Islam e Imperi cristiani. Ivo
Andric, nel suo capolavoro
Il ponte sulla Dri-
na
, racconta la storia delle culture e dei mon-
di che si sono incontrati e scontrati da queste
parti. Una ricchezza, anche durante l’Impero
Ottomano. Un “problema”, negli anni Novan-
ta.
Piani di storia che procedono paralleli. E che
non si incontrano. Convivono in uno stesso
territorio e sono fonte del conflitto di narra-
tive che attualmente è in atto in Bosnia-Er-
zegovina, e a Srebrenica in particolare.
Mentre i bosgnacchi commemorano le vitti-
me del genocidio, i serbi, nella migliore delle
ipotesi, riconoscono che c’è stato un massa-
cro. È rarissimo trovare dei serbi, a Srebre-
nica, che usino il termine “genocidio”. È un
marchio pesante da portarsi sulle spalle.
Il 12 luglio è il giorno della commemorazione
delle vittime serbe. È un capitolo complicato
della storia recente. Durante la guerra, dopo
le prime ondate di pulizia etnica commesse
ai danni della popolazione non-serba, c’è sta-
ta la reazione delle forze (più o meno armate
e più o meno regolari) musulmane e non si è
andato tanto per il sottile. Sono stati attacca-
ti villaggi serbi e ci sono state vittime anche
tra la popolazione civile. Si tratta di crimini
di guerra che dovranno essere giudicati.
È un’altra questione sospesa che alimenta il
conflitto di narrative e che contribuisce a sca-
vare solchi sempre più profondi che dividono
le due comunità principali -bosgnacchi e ser-
bi. Spesso sono solchi scavati nell’odio e nel
dolore del non vedersi riconoscere la verità di
quello che si è subìto.
Andrea Rizza Goldstein