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Come riferisce l’inviato speciale da Srebre-
nica:
“Io non scelgo quello che ho. Infatti non
scelgo nulla, né la nascita, né la famiglia,
né il nome, la città, la zona o il popolo, tutto
mi è imposto. È ancora più strano il fatto
che trasformo questa imposizione in amore.
Qualcosa comunque deve essere mio, visto
che è tutto degli altri, e allora mi imposses-
so della via, della città, della zona, del cielo
che guardo sopra di me dall’infanzia. A cau-
sa della paura del vuoto, del mondo senza
di me. Perché io lo strappo, io mi ci impon-
go, e la mia via è indifferente, e anche il cie-
lo sopra di me è indifferente, ma io non ne
voglio sapere nulla e, comunque, gli offro i
miei sentimenti, gli ispiro il mio amore, af-
finché me lo possano restituire” (Mesa Se-
limovic).
Srebrenica prima della guerra, fino al ’92,
viveva una vita pacifica, tutto sommato
confortevole, si potrebbe persino dire, fami-
liare. La popolazione cittadina, detta nello
slang locale
carsijska raja
, “compagnia del
borgo”, funzionava proprio come una gran-
de famiglia, o almeno questo è quanto sem-
brava a me. Non c’erano suddivisioni di sor-
ta, almeno all’apparenza, che saltassero
all’occhio, sul piano etnico, economico, so-
ciale o di altro tipo. C’erano persone più o
meno ricche, benestanti o povere, ma le dif-
ferenze sociali non erano pronunciate. Il si-
stema del socialismo e l’autogestione dava-
no a tutti la sensazione, alcuni diranno fal-
sa, di sicurezza e relativo benessere. Le cure
mediche erano gratuite per tutti e su tutto
il territorio dell’ex paese comune, e lo stesso
vale per l’istruzione. Poteva studiare, con le
stesse condizioni, sia chi proveniva da una
famiglia povera, sia chi proveniva da una
famiglia molto ricca. Chi voleva lavorare,
poteva trovare un impiego e nessuno soffri-
va la fame. Le mense per i poveri non esi-
stevano in quanto non ce n’era bisogno e i
servizi sociali non avevano molto lavoro.
Io sono cresciuto, si può dire, nel periodo
migliore di un sistema che era in scena da
quasi 50 anni. Mi ricordo dei pionieri (la
gioventù di Tito), sono cresciuto con l’orga-
nizzazione degli scout e ho partecipato alle
azioni di lavoro dei giovani. Sono di estra-
zione proletaria, provengo da una famiglia
nella quale soltanto mio padre lavorava. Il
cosiddetto “ceto medio” a cui apparteneva-
mo era anche il più numeroso. I ricchi e i
poveri c’erano anche allora, ma le differen-
ze non erano tanto marcate ed evidenti co-
me adesso. Alla fine delle scuole, dopo alcu-
ni anni di lavoro nell’amministrazione e di
carriera politica da leader del movimento
giovanile, ho trovato la mia occupazione nel
giornalismo, mi sono sposato, ho avuto tre
figli... e poi è iniziata la guerra.
In quell’anno fatale, il 1992, non riuscii a
capire in tempo cosa sarebbe accaduto. Fui
sorpreso dall’avanzata di un nazionalismo
e di uno sciovinismo vampiresco. Ero cre-
sciuto con le idee comuniste di fratellanza
e unità e mi avevano insegnato che la no-
stra patria, la Jugoslavia, si sarebbe potuta
trovare in guerra soltanto se qualcuno ci
avesse attaccato da fuori, per cui all’inizio
non potevo credere in una guerra fratricida
tra popoli fino a quel momento uniti.
Personalmente non avevo motivo di spara-
re a nessuno. Non volendo partecipare alla
guerra, partii per la Macedonia con la mia
famiglia. Per quasi cinque anni feci diversi
lavori per sfamare la mia famiglia e me, ma
non il giornalista. Alla fine del conflitto,
non riuscendo a rientrare a Srebrenica, mi
recai a Tuzla, dove ritrovai una parte della
famiglia di mia moglie. Trovai un lavoro da
giornalista presso radio Kameleon e presto
divenni corrispondente di Radio Deutsche
Welle (Dw). Subito dopo mi mandarono a
Praga per la specializzazione all’interno
della redazione di Radio Free Europe (Rfe).
Lì imparai a utilizzare le tecnologie moder-
ne del giornalismo radiofonico.
Rientrai pieno di idee e di voglia di fare.
Era già il 1998. Nel frattempo, alle elezioni
amministrative del ’97, il Partito d’Azione
Democratica (Sda) ottenne, grazie ad alcu-
ne disposizioni della legge elettorale, la
maggioranza dei mandati di deputati mu-
nicipali, nonostante il fatto che su tutto il
territorio della municipalità, a seguito delle
persecuzioni e del genocidio, non fosse ri-
masto in vita nemmeno un bosgnacco. I ri-
sultati elettorali non furono comunque at-
tuati a causa di una contestazione da parte
del Partito Democratico Serbo, dei radicali
e di altri schieramenti, che tuttavia non
venne accolta. Il potere era esercitato da
una schiera di esponenti di questi due par-
titi. Benché la comunità internazionale, i
suoi rappresentanti e le organizzazioni al-
l’interno della Bosnia non riconoscessero il
governo in carica a Srebrenica, non riusci-
vano a trovare una via d’uscita da questo
vicolo cieco.
Nel tentativo di avviare il dialogo sull’am-
ministrazione di Srebrenica, il 16 gennaio
del 1998 un convoglio di veicoli, all’interno
del quale era presente anche il vicecapo
della missione dell’Osce, l’Organizzazione
per la Sicurezza e la Cooperazione in Euro-
pa, Richard Elerkman, venne preso a sas-
sate entrando in città.
Un elicottero della Forza di stabilizzazione
Sfor, con l’incarico di dare sicurezza alla zo-
na, cadde a causa del contatto con i cavi di
una sottostazione ma, fortunatamente, non
ci furono vittime. Da Srebrenica continua-
vano ad arrivare soltanto brutte notizie. Le
due parti in causa nel conflitto terminato, i
serbi e i bosgnacchi, si trovavano rinchiuse
in ovili nazionalistici e partitici rifiutando,
a livello locale, ogni tipo di contatto o ten-
tativo di trovare un accordo.
Secondo alcuni dati, oggi a Srebrenica vivo-
no 14 mila persone, il doppio di quanti ci vi-
vevano prima della guerra. A me questo da-
to non sembra attendibile, ci sono poche
macchine in giro e molte case sono bruciate,
distrutte, e rimangono vuote. Nel corso del-
le dieci ore che ho passato a Srebrenica, la
corrente elettrica è venuta a mancare quat-
tro volte. La città viene rifornita d’acqua
nelle ore del mattino e della sera da un vec-
chio acquedotto che prima della guerra era
fuori uso ma veniva utilizzato dai difensori
durante l’assedio. L’acquedotto nuovo e mo-
derno, che avrebbe dovuto rifornire la città
e l’industria locale con quantità sufficienti
d’acqua almeno fino alla fine del 2010, è
stato minato dai serbi all’inizio della guer-
ra. Quell’acquedotto è in disuso anche oggi,
come tutto il resto delle strutture a uso eco-
nomico di quello che prima della guerra era
uno dei comuni più ricchi dell’ex-Jugoslavia.
Dall’introduzione di Marinko Sekulic Kokeza
Srebrenica prima della guerra
Dal primo giorno in cui abbiamo messo pie-
de a Srebrenica nel 2005, abbiamo inevita-
bilmente incontrato Marinko Sekulic, ri-
servato ma cordiale, geloso dell’autonomia
che deve ritagliarsi chi vuole assicurare
un’informazione indipendente. Ci abbiamo
messo un po’ a capire che custodiva uno
scrigno di storie, raccolte giorno dopo gior-
no, che gli erano state affidate da persone
rimaste umane anche nei momenti più dif-
ficili e drammatici. Storie che mantengono
la freschezza del giorno in cui le ha fatte co-
noscere nelle sue trasmissioni per la Radio
tedesca Deutsche Welle.
Gli siamo molto grati di averci coinvolto
nella pubblicazione di questo prezioso libro
che sosteniamo con convinzione, perché ci
fa sentire più di casa a Srebrenica.
Tuzlanska Amica,
Fondazione Alexander Langer
Marinko Sekulic