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elettrici. Vediamo la stanza in cui Zijo dor-
miva a 8 anni con le sue sei sorelle, il bagno
non ancora finito e tutto il resto. Poi ci av-
viciniamo a un’altra abitazione con le fine-
stre murate. È lì che la famiglia si ritrovò
quel giorno del ’92: tutti insieme, con nonni,
zii e nipoti.
I paramilitari serbi fecero uscire a forza tut-
ti quanti, li allinearono nel cortile e si con-
cessero stupri e violenze. Poi portarono tutti
su un autocarro fino al luogo dove già ave-
vano scavato una fossa. Lì fu compiuta la
carneficina. Anche Zijo sentì una coltellata
sul collo e svenne sugli altri cadaveri. Quan-
do si svegliò riuscì a nascondersi nel bosco
vicino. Da quel momento iniziò il suo diffici-
le itinerario di salvezza. Dopo un lungo per-
corso di riabilitazione in Montenegro, grazie
anche a una famiglia adottiva, è diventato
cuoco diplomato e lavora come può nella Bo-
snia di oggi. È la prima volta che Zijo con-
duce persone amiche a visitare la casa dove
la sua infanzia è stata cancellata.
Srebrenica, 9 luglio
La guerra a Srebrenica sembra non essere
mai finita. Le case abbandonate, con le fi-
nestre vuote come profonde occhiaie, sono
ancora numerose. Poche le novità rispetto
all’anno scorso: in centro hanno costruito
un nuovo albergo, che però non è mai stato
aperto. Le terme, che erano state la fortuna
della città, non possono riprendere l’attivi-
tà. La Repubblica Srpska rivendica i propri
diritti sulle acque contro il Comune, che in-
vece sarebbe disposto a concederne l’utiliz-
zo. La paralisi economica è il migliore incu-
batore di risentimento e di odio. Se non c’è
rinascita la convivenza è più difficile.
Al memoriale di Potocari il sole fa risaltare
il bianco delle migliaia di stele poste con
perfetta regolarità sul prato, fino a risalire
le prime pendici della collina. Nel silenzio
si odono le poche voci degli addetti agli ul-
timi ritocchi di pennello sulle macchie di
pioggia, in preparazione della cerimonia.
Le fosse sono già state scavate qua e là, vi-
cino alle tombe dei familiari; poche assi in-
chiodate trattengono la terra sui bordi.
Sull’altro lato della strada, nel grande spa-
zio della fabbrica vuota di macchinari e in
evidente abbandono, le pareti di cemento
ospitano ritratti e nomi degli aguzzini, foto-
grafie degli oggetti ritrovati addosso ai
morti e alcune gigantografie di scatti ora-
mai famosi. Gli operai stanno incollando le
ultime immagini ai supporti di legno. Tutto
in stretta economia. Più in là, in uno spazio
rinnovato, viene proposto al pubblico un fil-
mato da poco realizzato sull’assalto di Mla-
dic alle migliaia di rifugiati rinchiusi ven-
t’anni fa in quello stesso luogo, sulla resa
ignominiosa dei soldati olandesi e sulla
strage. Rispetto alle immagini offerte fino
allo scorso anno il documentario attuale è
più essenziale e obiettivo. Alle 15 avrebbero
dovuto arrivare le 136 bare dei morti rico-
nosciuti quest’anno al Centro di identifica-
zione di Tuzla. Una piccola folla di parenti
e amici resta in attesa, ma c’è un ritardo.
Poi si sa che il convoglio è stato preso a sas-
sate vicino a Zvornik; una corona di fiori è
caduta a terra ed è stata calpestata da
qualche fanatico. Dopo non molto appare
un grande autocarro con il cassone ricoper-
to da un drappo azzurro. Entra lentamente
e si ferma davanti al grande hangar di ce-
mento. Le porte vengono aperte e una a
una le bare sono fatte uscire; una lunga fila
di uomini se le passa di mano in mano fino
a deporle in file di dieci sul pavimento. Alla
sera raggiungiamo la marcia che da Nezuk
è diretta al memoriale di Potocari, ripercor-
rendo al contrario l’itinerario delle migliaia
di fuggiaschi che dopo l’11 luglio ’95 cerca-
rono rifugio verso le zone libere intorno a
Tuzla. Sono già trascorsi due dei tre giorni
di cammino, in tutto 90 chilometri a piedi.
Arriviamo in una grande radura circolare;
tutt’intorno il verde delle colline con il cala-
re del giorno si fa sempre più cupo. Prima
di entrare in quello spazio affollato un car-
tello fra gli alberi indicava a qualche centi-
naio di metri l’ubicazione di una fossa co-
mune. Nel grande spiazzo spiccano sul fon-
do i camion militari della logistica che han-
no trasportato le tende grige allineate ora
in lunghe file e destinate al ricovero dei
marciatori. Molte altre tende colorate dan-
no all’accampamento un’apparenza più vi-
vace e spontanea. I partecipanti sono mi-
gliaia, non tutti giovani. Molti sono emigra-
ti che tornano dai molti paesi in cui 800.000
bosniaci hanno trovato una nuova casa. Al-
tri arrivano anche da molto lontano per so-
lidarietà. Molte le bandiere bosniache, solo
alcune quelle turche. Pochi -dice chi ha
camminato tutto il giorno- i segni di una
presenza islamica radicale. Un drone sorvo-
la l’accampamento per fotografare.
È Ramadan e molti non hanno mangiato
sin dall’alba. Una minoranza ha anche evi-
tato di bere. Allo scadere del digiuno un ca-
mion turco apre il portellone e comincia a
distribuire centinaia di scatole con la cena.
Dal palco gli altoparlanti trasmettono mu-
siche a sfondo religioso o dedicate alle vitti-
me di allora. Poi si alternano testimonianze
sul massacro volte a suscitare emozioni for-
ti negli ascoltatori. La marcia nel suo insie-
me ha uno spiccato carattere identitario
tanto che per un serbo sarebbe difficile par-
teciparvi. Il clima, più che essere di conci-
liazione, suona chiaramente accusatorio.
Per la grande maggioranza è un’occasione
di memoria, di incontro, di solidarietà e di
autoaffermazione; per molti è anche una
sfida utile a misurare le proprie forze.
Potocari, 10 luglio
Le iniziative di riflessione pubblica sul ven-
tennale di Srebrenica sono poche e non
molto rilevanti. Poco spazio viene riservato
alla parola. Al memoriale, già di prima
mattina, vengono reinscatolate le migliaia
di ossa di gesso messe in bell’ordine il gior-
no prima su un prato da un gruppo ameri-
cano con qualche addentellato bosniaco.
L’installazione era già stata proposta sul
prato della Casa Bianca, ma Potocari è
un’altra cosa e non sopporta interferenze di
quella natura. Nella mattinata quello stes-
so gruppo organizza un incontro al Centro
giovanile di Srebrenica. Si succedono inter-
venti di persone molto sicure di sé, nei qua-
li i termini genocidio, pace e riconciliazione
ricorrono con grande frequenza. Anche
Adopt è stata invitata e partecipa con due
dei suoi membri. Il tono e il linguaggio sono
però molto diversi. Per chi ascolta non è dif-
ficile misurare la grande distanza che sepa-
ra la leggerezza delle parole lanciate al
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