C’è un filo diretto, anzi un doppio filo diretto che lega indissolubilmente l’Unione Europea alle Nazioni Unite. In primo luogo l’Ue rappresenta nel vecchio continente quello che l’Onu rappresenta su scala globale anche se in forma più organica e integrata. In secondo luogo, l’atto costitutivo dell’Unione europea, il Trattato di Lisbona, stabilisce in maniera chiara e risoluta che la Carta delle Nazioni e il diritto internazionale sono la stella polare dell’azione europea sul palcoscenico mondiale.
Sono tempi magri per il massimo organismo globale, in perenne crisi sia dal punto di vista finanziario che da quello politico. A essere messo in discussione è il multilateralismo, ovvero il principio su cui poggia la complessa architettura della governance del pianeta. Le spallate dell’attuale amministrazione Usa e l’ostruzionismo russo stanno scuotendo il palazzo di vetro dalle fondamenta rischiando di mandarlo in frantumi. Per Trump e i neoconservatori americani, i riti onusiani sono solo una perdita di tempo che mira a ingabbiare la forza economica e militare statunitense riducendone il potenziale. Per Putin e i suoi accoliti, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea generale sono fastidiosi incidenti di percorso che intralciano la rinascita russa sulla scena globale. Molto meglio, e molto più spiccio, intavolare relazioni a livello bilaterale dove mettere sul piatto della bilancia tutto il peso della superpotenza per ammorbidire, intimidire e, se necessario, costringere lo sprovveduto interlocutore a chinare il capo accettando la legge del più forte. Invece di segnare il passaggio verso l’affermazione irreversibile del diritto internazionale, il nuovo secolo sembra regredire verso i rapporti di forza che hanno marchiato i secoli passati, umiliando coloro che si battono per un sistema di relazioni internazionali più giusto, equilibrato e sostenibile che rispetti e contemperi gli interessi di tutti i paesi membri della comunità mondiale.
Così come esiste un legame stretto fra le istituzioni europee e gli organi di governo delle Nazioni Unite, esiste e si è rinsaldato nel corso degli ultimi anni un forte legame fra l’Assemblea generale delle Nazioni Unite e il Parlamento europeo. È divenuta prassi per quest’ultimo, infatti, inviare a New York una folta delegazione di eurodeputati in occasione della riunione annuale dell’assemblea dei paesi membri che si tiene in autunno al palazzo di vetro. Durante la mia lunga carriera di funzionario parlamentare più volte ero stato sedotto dalla tentazione di essere incluso nella lista dei partecipanti a questo tipo di missione, salvo poi rinunciarvi per varie ragioni, non ultime l’urgenza permanente di qualche crisi nei Balcani o nello spazio post-sovietico. Questa volta, però, l’occasione per me era troppo importante.
Le date della trasferta coincidevano con i miei ultimi giorni di servizio nelle istituzioni europee prima di una pensione forse meritata ma non certo agognata. Concludere la carriera alle Nazioni Unite -mi sono detto- è in fin dei conti il completamento più logico di un percorso di apprendimento del funzionamento dell’organismo più alto che regge le sorti e regola, almeno sulla carta, le relazioni internazionali. Un conto è discutere nelle riunioni di commissione a Bruxelles e a Strasburgo di come rendere più efficiente ed efficace la governance mondiale, un altro è vivere dall’interno e toccare con mano i problemi che affliggono di routine l’Onu e le sue agenzie. Partenza da funzionario, quindi, e ritorno da pensionato.
Non avrei mai pensato che ottenere un visto per entrare negli Usa fosse così complicato. Chi non viaggia per ragioni turistiche, infatti, ha bisogno di un’autorizzazione speciale. Nel mio caso, in particolare, bisognava richiedere un visto specifico come membro di una delegazione governativa. Mi piazzo davanti al computer e clicco sul link dei moduli predisposti dal consolato americano, ignaro di quello che mi aspetta. Si tratta di una intervista elettronica nella quale sono sottoposto ad ogni tipo di domanda. Non sono mai stato coinvolto nel traffico di esseri umani, non ho mai spacciato stupefacenti, non ho mai riciclato denaro sporco, mai condotto attività terroristiche o di spionaggio, mai commesso atti di tortura, genocidio e così via. Passo da una schermata all’altra inserendo dati su dati nella speranza vana di concludere la procedura in tempi brevi e mi ritrovo il mattino seguente, dopo la pausa notturna, ancora davanti al computer a ripassare moduli su moduli. Termino le operazioni esausto, dopo essere stato soccorso dall’abile segretaria di un collega che aveva già completato le pratiche, appena in tempo per la consegna collettiva dei passaporti al consolato per l’ottenimento del visto.
“Gli Stati Uniti erano prima il nostro alleato naturale, ma oggi sono diventati una sfida”, esordisce Joao Vale de Almeida, l’ambasciatore dell’Ue presso le Nazioni Unite mentre ci accoglie nella sede della delegazione a Manhattan al tradizionale incontro di benvenuto, affiancato da Silvio Gonzato, rodato funzionario europeo con il quale ho spesso collaborato in passato. “Se fallisce l’Unione europea crolla anche il multilateralismo”, sottolinea, rimarcando le difficoltà delle condizioni in cui opera. “Canada, Svizzera e Corea del Sud sono sulla nostra lunghezza d’onda -osserva- mentre con la Cina esistono problemi di valori”. Per l’ambasciatore la priorità assoluta dell’Ue è il salvataggio del sistema multilaterale di relazioni. L’organizzazione attuale, però, deve essere riformata per adattarsi alla nuova situazione. “Così com’è oggi -commenta- non è performante”. A rinforzare l’azione europea, va rilevato, c’è il sostegno del mondo non governativo da tempo mobilitato a fianco dell’Onu. Le grandi potenze, però, non ne vogliono sapere di assegnare un ruolo più attivo alla società civile nella gestione del palazzo di vetro. De Almeida si sofferma, poi, sull’altro grande tema che caratterizza il ruolo europeo sulla scena mondiale, quello della difesa dei diritti umani. “Noi europei siamo il baluardo dei diritti dell’uomo, ma dobbiamo allargare la base e cercare alleanze, altrimenti rischiamo di ritrovarci isolati nella nostra battaglia -evidenzia- dobbiamo, inoltre, evitare di sembrare arroganti”.
Nel 2020 l’Ue potrà contare su cinque dei suoi paesi membri nel Consiglio di Sicurezza. Questo aumenta ancora di più l’importanza della presenza europea alle Nazioni Unite in un momento particolarmente difficile. “Gli Stati Uniti stanno gradualmente ritirandosi dalla propria responsabilità internazionale, ma l’Europa non può fare molto se non sviluppa una sua autonomia strategica”, conclude con un certo rammarico.
Da tempo a Bruxelles si discute del concetto di autonomia strategica che dovrebbe sviluppare e fornire i mezzi e gli strumenti per trasformare l’Unione in un vero attore globale. Molte parole, tanti proclami fino ad oggi, ma pochi fatti. Intanto al Consiglio di Sicurezza prevalgono polarizzazione e paralisi. E quando l’Ue è chiamata a pronunciarsi in modo univoco, spesso non ha la forza di farlo, scontando divisioni, ripicche e interessi particolari.
La politica estera comune è ancora vittima di veti incrociati che minano l’azione europea sulla scena internazionale nonostante i trattati richiedano un coordinamento stretto dei 28 paesi membri. Emblematico, ad esempio, è l’ultimo caso citato da Vale de Almeida impossibilitato a presentare alle Nazioni Unite una posizione comune sul Medio Oriente a nome dell’Unione a causa del blocco imposto dall’Ungheria. In politica estera vige ancora la regola ferrea dell’unanimità. Sulla carta sono tutti d’accordo di introdurre la maggioranza qualificata anche in questa area di competenza, ma fino ad oggi non se ne è fatto nulla.
Ero già stato altre volte a New York, ma si era sempre trattato di soggiorni mordi-e-fuggi, poche ore di sosta in attesa del trasferimento verso la meta finale con pernottamenti nell’estrema periferia. Per la prima volta mi trovo al centro del vortice di Manhattan, risucchiato e stordito dalla frenesia di una metropoli che non dorme mai. Dall’hotel dove risiedo, a pochi passi dalla sede dell’Onu, peraltro, si gode una vista privilegiata dello skyline forse più famoso del globo, visto il bombardamento mediatico di film e telefilm americani a cui sono stato sottoposto dalla prima infanzia che immortalano la Grande Mela. Ma mentre una volta la selva di grattacieli che proiettavano l’agglomerato urbano verso l’alto modellando la cosiddetta city-in-the-sky (città-nel-cielo) era il segno distintivo e originale di New York, oggi, quel marchio, che sembrava un primato ineguagliabile ed esclusivo, è passato ad altre metropoli in altri continenti, Asia in testa.
C’è da perdersi nel palazzo di vetro se non hai una guida, un po’ la stessa sensazione di disorientamento che si prova quando si entra per la prima volta nel labirinto degli edifici del Parlamento europeo a Bruxelles. Gli ascensori fanno la spola senza sosta tra i trentanove piani del grattacielo vomitando in continuazione il personale che si muove tra i vari uffici. Quelli del Segretario generale si trovano al trentottesimo piano. Gli assistenti di Antonio Guterres ci fanno accomodare nella sala rettangolare delle riunioni quasi interamente occupata da un lungo tavolo massiccio. Il Segretario Generale arriva dopo qualche minuto quando gli ospiti europei si sono già sistemati sugli scranni. Per ragioni di spazio lo staff non avrebbe dovuto essere ammesso, ma riesco a intrufolarmi imponendo la mia anzianità di servizio. “Grazie per il sostegno finanziario e politico dell’Ue all’organizzazione che ho l’onore di guidare”, sono le parole di esordio di Guterres che, nonostante la consueta e stressante fitta agenda quotidiana, appare piuttosto rilassato. “Siamo in una situazione in cui tutti si muovono in libertà, fuori dagli schemi e dalle tradizionali alleanze -spiega- sia per quanto riguarda potenze regionali come Iran e Turchia che grandi potenze come Usa e Cina”. E a proposito di queste ultime, che lui marchia con l’acronimo “G2”, manifesta viva preoccupazione per la guerra commerciale e tecnologica in corso, che rischia di provocare una profonda spaccatura a livello planetario. “In questa situazione -sottolinea- l’Europa è un fattore di equilibrio”. Si sofferma poi sulla riforma interna della macchina organizzativa delle Nazioni Unite da lui promossa. “Voglio più trasparenza, rendicontabilità, flessibilità e decentralizzazione -enfatizza- e un miglior coordinamento a livello nazionale per quanto riguarda l’attuazione degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030”. Il bilancio, comunque, rimane il tallone d’Achille dell’organizzazione. Usa e Brasile tra gli altri, due fra i maggiori contribuenti, sono ancora in pesante ritardo con i pagamenti, il che rende paradossalmente più semplice il compito del Segretario generale che può decidere in tutta libertà i programmi da tagliare. Va messo in evidenza che i paesi europei contribuiscono per più di un terzo del finanziamento dell’Onu. Senza l’Ue, la crisi delle Nazioni Unite sarebbe drammatica.
Guterres conclude l’incontro con l’argomento di maggiore attualità, ovvero l’emergenza climatica, ringraziando ancora una volta Bruxelles per la centralità del ruolo svolto. Fuori dalla sala si può cogliere dalle vetrate una splendida vista dall’alto dell’East River e di Long Island.
Le strade si incrociano quando meno te l’aspetti. Di Kaled Khiari avevo perso le tracce da anni. Non ricordavo più il nome, anche se il volto era sepolto da qualche parte in un angolo della mia memoria. Quando mi è arrivato il programma degli incontri al palazzo di vetro non ho fatto caso a quello previsto con l’Assistente del Segretario generale che ha in carico il Medio Oriente, l’Asia e il Pacifico. Entrando nella sala prendo posto, distrattamente, come al solito alle spalle degli eurodeputati che si siedono attorno al tavolo in prima fila. Non presto troppa attenzione a Khiari che ci accoglie ricordando i suoi trascorsi a Bruxelles. Fra i tanti, cita espressamente il mio nome nelle sue frequentazioni suscitando la mia curiosità e quella dei parlamentari che si girano verso il sottoscritto. Consulto rapidamente la documentazione che ho nella borsa per capire di chi si tratta scovando il suo curriculum. Kaled Khiari era il primo segretario dell’ambasciata della Tunisia presso l’Unione europea nella seconda metà degli anni Novanta. Ricompaiono gradualmente nella mia mente le immagini sempre più nitide di quando passava dal mio ufficio in parlamento per perorare la causa del suo governo presieduto, allora, dall’autocrate Ben Ali. Cercava di dissuadermi dal presentare risoluzioni di urgenza sulle violazioni dei diritti umani in Tunisia, cosa che, invece, puntualmente facevo. Era diventato a un certo punto quasi un gioco, una liturgia inutile come quella di un prete costretto a celebrare messa nonostante i crescenti dubbi di fede. Khiari era perfettamente consapevole che il regime di Ben Ali era indifendibile, ma da buon diplomatico era costretto a venire da me per convincermi di cose di cui lui stesso non era convinto. Alla fine ci scherzavamo anche sopra. Poi non l’ho più incrociato per i corridoi delle istituzioni europee come avviene, peraltro, con tutti i diplomatici di carriera obbligati, per consuetudine, a una periodica rotazione di sede.
Non avrei mai pensato di ritrovarmelo un giorno in una tale posizione, in considerazione anche del fatto che nel 2011 la Tunisia si è liberata dalla dittatura che l’ha oppressa per ventiquattro anni. La caduta di un regime di solito comporta anche una purga radicale nell’amministrazione pubblica e nel corpo diplomatico. Kaled Khiari, evidentemente, non è stato considerato, dai nuovi governanti saliti al potere a Tunisi,  organico al vecchio regime ed è riuscito a sopravvivere al terremoto politico. “C’è un forte sostegno per un sistema di allerta precoce e di prevenzione dei conflitti”, afferma  riferendosi alle crisi in corso. Nella sua area di competenza, in particolare, sono la Siria, la Libia e lo Yemen a dominare la scena. “Per quanto riguarda la Siria, le Nazioni Unite appoggiano tutte le iniziative di pace. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2254 spiana la strada a un ampio processo politico per il superamento e la ricomposizione del conflitto. Stiamo seguendo da vicino l’attuazione dell’accordo fra Russia e Turchia e l’inizio dei lavori della commissione costituzionale, anche se il ruolo dell’Onu per adesso si limita all’assistenza umanitaria”. Spostando il discorso sulla Libia, Khiari mette in evidenza come i problemi si distribuiscano su tre piani. “Innanzitutto occorre far tacere le armi -osserva- poi bisogna rimettere attorno a un tavolo le parti e contemporaneamente far fronte all’emergenza dei migranti intrappolati nei combattimenti. Il dialogo intra-libico deve procedere di pari passo con il processo di Berlino”, conclude richiamando l’iniziativa promossa dalla diplomazia europea nella capitale tedesca. Al termine dell’incontro, seguo Khiari fuori dalla sala intrattenendomi per i saluti ma soprattutto per ritornare ai tempi di Bruxelles e scambiare con lui qualche battuta sulle rispettive vicissitudini personali. Lui, diplomatico di lungo corso alle Nazioni Unite, io prossimo alla pensione.
(continua nel prossimo numero)