Jeff Halper

Ostacoli alla pace

Una ricontestualizzazione del conflitto israelo-palestinese

Ed. Una Città, 2009
168 pagine

E’ ancora possibile uno Stato palestinese dopo anni di continua espansione degli insediamenti, la costruzione delle autostrade riservate, l’innalzamento di un muro gigantesco? Ma cosa potrà succedere quando i palestinesi si convinceranno che non c’è più speranza per un loro Stato?

Questo libro è pensato per aiutare i sostenitori della "pace giusta” a reinquadrare il conflitto rimettendo l’Occupazione al centro del dibattito, un passaggio necessario per la costruzione di una campagna internazionale efficace. Suggerisce inoltre che una pace giusta prevede uno scenario "win win”, in cui cioè entrambe le parti escano vincenti, e possano fruire delle proprie libertà collettive ed individuali, in una regione che possa finalmente fiorire all’insegna della sicurezza e dello sviluppo economico.
Per quanto l’immagine che tracciamo sembri talvolta cupa, questo non è un libro disfattista.
Ogni occupazione, ogni condizione di oppressione può essere fermata...
Dalla prefazione di Jeff Halper

Va anche detto che gli israeliani non sanno quasi nulla del sistema crudele e kafkiano in cui i palestinesi sono costretti a vivere. Uri Savir, Direttore Generale del Ministero degli Esteri sotto Rabin e Peres, ha "scoperto” questa realtà solo quando il processo di Oslo era già in fase avanzata. Savir scrive:
"Le negoziazioni [con i palestinesi ad Oslo, nel 1995] sui poteri esercitati da Israele su un’intera generazione mi hanno spalancato un intero mondo. Nel corso degli anni, gli israeliani si sono cullati nel mito di una "occupazione illuminata”. Sapevo bene che si trattava di una contraddizione in termini, ma non sapevo -e temo che pochi altri israeliani ne fossero a conoscenza- quanto profondamente abbiamo invaso le esistenze dei nostri vicini palestinesi. Abbiamo messo a tacere questa consapevolezza, al punto da essere diventati i primi conquistatori della storia dell’umanità a sentirsi conquistati a propria volta. L’immagine che proiettiamo di noi stessi come società umana, eterna vittima della storia, così come l’antagonismo arabo, ci hanno impedito di vedere cosa stesse davvero accadendo nei Territori. Ciò che ho scoperto [a Oslo] è che i palestinesi non potevano costruire, lavorare, studiare, acquistare terra, coltivarla, intraprendere un’attività economica, fare una passeggiata notturna, entrare in Israele, andare all’estero, o visitare i parenti a Gaza, o in Giordania, senza un nostro permesso. L’apparato necessario a gestire questa piovra era immenso. […]
Alcune di queste restrizioni sono state introdotte per questioni di sicurezza del tutto legittime. Molte, però, erano anche il prodotto dell’inerzia di un mostro burocratico in continua espansione, nutrito da un budget senza limiti.
Nel corso dei ventotto anni dell’occupazione [sino al 1995], circa un terzo della popolazione palestinese dei Territori è stata, in momenti differenti, trattenuta o imprigionata da Israele. E l’intera popolazione palestinese è stata talvolta volgarmente umiliata. […]
La personificazione dell’occupazione, per molti palestinesi, era un ufficiale dell’Amministrazione civile chiamato Moskovitch. Si poteva costruire solo con il consenso di Moskovitch. Senza non era possibile, e finché Moskovitch non cambiava idea, potevi solo strapparti i capelli. Quest’uomo era divenuto un’istituzione. Quando finalmente l’ho incontrato -un uomo amabile, magro, religioso osservante- non mi ha dato l’impressione del tiranno. "Moskovitch è un brav’uomo” mi ha riferito uno dei suoi superiori. È proprio questo il problema -un brav’uomo che porti avanti gli ordini di una burocrazia insensibile ci mette in una situazione impossibile, perché in questa condizione il buon senso e la buona volontà non funzionano”. (Savir, 1999)