Gaetano Salvemini a Giustino Fortunato
Firenze, 10 aprile 1912
Mio carissimo Giustino,
la tua cartolina mi ha fatto un gran bene. Ho pronto un articolo per il numero di domani, che da una settimana non riuscivo a conchiudere. E ho avuto l’idea di due altri belli articoli. Come vedi, le tue parole han fruttato bene. Sono qui così solo, che mi pare di essere sperduto nella vita. Non ho nessun amico, col quale abbia comunicazione di idee, a cui far leggere prima ciò che scrivo, col quale consigliarmi nelle incertezze, che mi faccia da freno o da spinta quando è necessario. Oh, se avessi qui Adelchi è certo che farei assai meglio. Ma occorre aver pazienza. Solo, questa si può avere quando si è forti. E io attraverso un periodo penosissimo di scoramento indicibile. Tu dici che vale la pena di vivere per dire molte verità, che nessun altri direbbe. Ma a che scopo? Con che risultato? Quelle verità chi le ascolta? Chi, oggi, in Italia ama la verità? Che cosa possiamo far noi contro i grandi giornali, contro la congiura del silenzio, contro tutti i trabocchetti che ci aspettano a ogni angolo di strada, contro gli errori che non potremo non commettere e di cui gli altri, cioè tutti, avranno interesse di approfittare per stroncarci?
Ma è inutile continuare.
Dammi, carissimo, notizie della tua salute. Spero che la vista vada meglio. Perché, se ti sei rimesso, quest’ultima quindicina di aprile, prima di andare a Roma in maggio e giugno, non vieni a passarla a Firenze, anzi che a Gaudiano? Oramai Pasqua è passata. E un paio di settimane di vita fiorentina ti farebbero bene, ne sono certo. Sei troppo solo, anche tu.

Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini
Napoli, 11 aprile 1912
Mio carissimo Gaetano,
proprio non so darmi ragione del persistente tuo scoramento. A che scopo dir la verità che nessun altro direbbe? No, la dimanda non va formulata così. La dimanda è questa: a che scopo dire la verità che tutti ignorano? Ché, in tal caso, pochi o molti gli ascoltatori, non importa: l’importante è che la verità sia detta, una buona e santa volta per tutte; ossia, che essa venga cercata, amata, e resa di pubblica ragione, nella piena sicurezza, che presto o tardi fruttificherà, dando vita a un nuovo benefico ordine di cose. Per me non è dubbio che il poco cammino da noi fatto si debba soltanto attribuirlo alla poca o nessuna coscienza e conoscenza che noi abbiamo del nostro vero passato prossimo, del nostro vero presente. Senza punto farti la corte, nessun altro giovane è in Italia che abbia più di te tutto, tutto ciò che occorre per rendersi banditore, sia pure a non più che dieci, della verità di ieri, e, frutto di essa, della verità di oggi. E tu osi chiederti: «A che scopo»?!
Non sono ancora del tutto guarito del catarro congiuntivale; e, credimi, mi parrebbe mancare al dovere mio di non andare, appena guarito del tutto, anche per poco, a Gaudiano, e di non rivedere mio fratello or che la sua «campagna» di quest’anno è definitivamente perduta, tanto la ­straordinaria siccità ha laggiù distrutto tutto. Chi più solo di lui, solo da 45 anni nella landa di Puglia?
(tratto da Fortunato-Salvemini, carteggio 1909-1926, Libria)