Ma la felicità? Che cos’è? So che cos’è il suo contrario, l’infelicità: è il sentirsi inerti, inutili, tediati, indifferenti. Ma so che il dolore non è infelicità -per esempio. So anche che una felicità che durasse sarebbe una forma di stupidità. Ho conosciuto gente che, in questo senso, si poteva dire “felice”: non valeva molto. Certo che la coscienza di questo -anzi, direi: la rinunzia cosciente a esser felice nel senso in cui la gente intende la felicità (ossia: soddisfazione piena di desideri e ambizioni)- la coscienza di questo, dicevo, rende certamente malinconici -“separa” in modo troppo spesso doloroso, dagli altri. Ma d’altra parte mi sembra che d’ogni atto vero (ossia di ogni cosa che veramente si vuole o non si vuole) noi, mentre paghiamo il “fio” anche e al tempo stesso, riceviamo il compenso. Se è vero che quel che conta -la realtà di cui tanto si parla- è il modo in cui noi singolarmente viviamo la vita -la forma che di essa e del mondo, noi entro di noi, rispecchiamo. Così mi pare. Il che non toglie che il cammino quotidiano sia troppo spesso ingrato.
Tu mi chiedi che cosa intendo per “la negazione che portiamo in noi”. Direi, appunto, l’impossibilità, essendo uomini e mortali, di essere “felici” (“felice”=μακάριος è nella poesia greca aggettivo riservato agli Dei) per più che qualche momento o qualche giorno -l’impossibilità, cioè di non avvertire “ciò che manca” (alla felicità, come alla bellezza o alla giustizia, in questo mondo)- perché ciò che ci è dato ci è sempre necessariamente dato per caso (ventura o sventura che sia). Perciò il vero amore vale tanto, mi sembra: esso cancella errori o deficienze o mancanze o anche colpe - perché l’amante è disposto a pagare quel che manca all’amato, direi: a pagare di suo, dico - a sentirsi lui colpevole della colpa dell’altro
- come poi in realtà per le colpe serie sempre si è. (Come ci si potrebbe sentire “innocenti” o “giusti” senza farisaismo?)
da una lettera di Nicola Chiaromonte del 25 giugno 1967 a Melanie von Nagel
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