Al grido di Verginité, Fraternité (nel senso letterale) et Ethnicité, nell’autunno del 2020, in una Francia provata dal coprifuoco e dal Covid, divampa il dibattito se i test di verginità (per la verifica della merce che se avariata non è più vendibile al futuro marito) debbano essere effettuati dal Ssn, privatamente, oppure debbano essere vietati. Povera Olympe de Gouges (girondina ghigliottinata il 3/11/1793) e la sua Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (1791). Il centro destra francese vorrebbe che il test di verginità fosse vietato, mentre la sinistra è possibilista e divisa pensando in alcuni casi che non sia vantaggioso per le donne vietarlo (sic!) altrimenti sarebbero costrette a farlo di nascosto. Questo forse valeva per l’aborto, ma per il test di verginità? Allora si potrebbe legalizzare anche l’omicidio per evitare il ricorso a killer illegali: “Come lo vuole, colposo, preterintenzionale o doloso?”. Come un Kafka o un Kadaré rivisti potremo mandare le persone negli appositi uffici: “Omicidio di primo grado? Di che etnia è? Allora la stanza 43, 4° piano. Prenda un numero”.
In Italia si discute cosa fare se l’occhio del professore cade sulla minigonna: proporrei di raccogliergli l’occhio e ridarglielo. Mi ricordo un dibattito dello stesso tipo molti anni fa a Torino in cui un medico antropologo, ora docente universitario, sosteneva la non punibilità dei genitori per le escissioni genitali su bambine di 2-3 anni, all’urlo più o meno del “è la loro cultura, se no li costringiamo alla clandestinità”! La lotta indefessa di donne come la ghanese Efua Dorkenoo contro le mutilazioni genitali femminili o della medica egiziana Nawal El Sadawi lo lasciavano indifferente, preferendo definire le culture nella loro parte più conservatrice (e quindi più “vera o caratteristica”, oppure io potrei dire più patriarcale-maschile), mentre una delle mediatrici culturali di Torino spiegava a noi donne native che le nostre grandi labbra pendenti erano poco estetiche, anzi brutte, e che quindi l’escissione andava bene.
Proporrei allora di reintrodurre il delitto d’onore, abolire il divorzio, la contraccezione e rimettere la patria podestà che tanto fanno parte della nostra cultura in Italia.
Nel suo libro Don’t label me, Isrhad Manji affronta molti di questi problemi. Non vuole etichette ma ne ha molte: imam, Lgbt, professoressa, canadese, egiziana-indiana, nata in Uganda e cacciata da Idi Amin quando il presidente decise di effettuare una pulizia etnica e buttò fuori tutte le persone di origine non africana sub-sahariana. Tutte etichette. Non male per una persona che non vuole essere classificata. Dare un’etichetta è necessario per formare un gruppo, per affermare un’identità: lo sa Dio quando ordina ad Adamo di nominare gli animali, lo sanno quelli/e che si definiscono o si identificano come parte di un gruppo, lo sanno i nazionalisti. Se è vero che la radice della parola religione è legare, allora tutte le definizioni date sono in qualche modo re-ligioni e di tutte abbiamo bisogno. Diritti individuali e universali o collettivi e di appartenenza? E nel secondo caso chi definisce quali siano i diritti universali?
Individuo, membro di un collettivo o comunità, diritto universale: a volte chi di noi è un po’ confuso/a sulla propria identità si chiede quanto le proprie azioni siano legate alle scelte individuali e quanto invece siano connotazioni di identità e di se stessi/e come appartenenti. Può succedere con una pietanza che si cucina “perché lo faceva la nonna” e poi si scopre che era un tratto caratteristico di un gruppo, della tradizione di etnia, o religione, e lo stesso vale per una battuta, oppure un modo di pensare. I misti se lo chiedono sempre. Quand’ero piccola si diceva che saremmo stati tutti misti, una delle tante previsioni colte e “dimostrate”, mai avveratasi. Una cosa era vera: che tutte le culture sono figlie di mescolanze, come le cucine, come le lingue. Nessuno nasce e cresce in isolamento culturale, etnico, linguistico e culinario ...[continua]
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