Il mio primo incontro con Nicola avvenne agli inizi di febbraio del 1961, a Roma. Da poco più di un anno vivevo a Genova, da pochi mesi mi ero sposata con Gino Bianco. Il 20 gennaio del 1960 avevo lasciato la mia bellissima terra, Verona, dove ero nata, Padova dove mi ero laureata in Fisica Pura, Peschiera del Garda dove avevo “fatto” la guerra. Arrivai a Genova per un’intervista col direttore dell’Istituto di Fisica, Ettore Pancini. Avevo ventiquattro anni e a Genova non conoscevo “anima viva”. Fui assunta come Assistente; insegnavo Fisica di laboratorio per gli studenti del primo o secondo anno e facevo ricerca in “Radiazioni cosmiche e fisica delle particelle”. Ero tremendamente felice, dopo anni di studio duro, solitario, un grande sogno si avverava. Durante l’estate, nel mese di giugno del 1960, accaddero i “fatti di Genova”, una rivolta di tutta la popolazione della città, di studenti, operai, lavoratori, soprattutto portuali, contro il governo Tambroni che aveva concesso al Mis, il movimento sociale italiano di ispirazione fascista (la Seconda guerra mondiale era finita da poco, quindici anni, e la paura era ancora nel cuore e nell’animo di tanti italiani), di tenere il loro primo congresso nazionale proprio a Genova dove l’armata tedesca che dominava tutta la regione, la Wehrmacht e le Ss, si era arresa al Comitato di Liberazione Nazionale e ai partigiani dei Giovi prima dell’arrivo degli Angloamericani. Genova non poteva accettare un affronto così violento, così ignorante e noncurante della nostra stessa storia, e si ribellò. La gente, anche le persone moderate, nei primi giorni scesero nelle piazze e nelle strade e nei “caruggi”, le stradine strette vicine al porto. Anch’io andai con assistenti, tecnici e studenti degli istituti universitari, soprattutto scientifici. Qui conobbi Gino. Il Congresso del Mis che doveva tenersi la domenica mattina, alle dieci, al Teatro Margherita, nel cuore della città, fu abolito il sabato sera, alle ventitré. Il governo Tambroni cadde.
A settembre del ’60 fui nominata Assistente Straordinaria, pagata molto meglio. Adoravo il mio lavoro, l’insegnamento, la ricerca mi affascinava, mandavo qualche soldino a mia madre. Io e Gino ci sposammo.
A gennaio del 1962 il professor Pancini mi suggerì di andare a Roma quattro giorni; mi offriva una piccola borsa di studio per vedere come organizzavano la Fisica di Laboratorio per gli studenti. Gino era contento e decise di venire anche lui per fare un poco di ricerca storica negli Archivi di Stato. Gino era un giovane storico, anche se voleva sommamente diventare un giornalista del mondo e nel mondo. Così andammo a Roma e, fatto stranissimo, alla sera del nostro arrivo ci fu un’abbondante nevicata; più freddo che a Genova. lo andai in Istituto tre volte e Gino andò, penso, agli Archivi di Stato. Il nostro terzo giorno andammo a trovare Nicola Chiaromonte e i suoi cari, che vivevano ancora nella casa della madre. Gino conosceva già Nicola da tre, quattro anni, e anche Ignazio Silone. Io arrivavo per la prima volta “nella città eterna”. Suonammo il campanello e ci vennero incontro due signore, così diverse nei modi e nell’aspetto. La prima era Miriam, moglie di Nicola, alta, secca, americana, efficiente e sicura; l’altra era Pina, la dolcissima sorella di Nicola, che aveva modi armoniosi, voce bassa e melodiosa, ragazza di grande coraggio nella guerra. Fu Pina che ci portò a incontrare la madre nella sua stanza: era allettata, forse per il freddo improvviso. Pina e Gino rimasero brevemente, ma io restai a lungo con lei. Era una vecchina delicata, bella, intelligente, curiosa della vita ed anche di me, non aveva mai incontrato donne che insegnavano scienza e che cercavano di comprenderla. Ritornò Pina, salutai affettuosamente la madre e seguii Pina in un grande soggiorno luminoso. Su un ampio divano sedevano due signore, visibilmente intelligenti e sicure, donne che avevano incontrato uomini speciali. Una era Miriam, l’altra mi fu presentata come la vedova di Albert Camus, Francine, così mi sembra di ricordare il suo nome. Un poco scostate c’erano due comode sedie e due uomini che dialogavano intensamente: Gino e un signore più anziano, sobrio, intenso, due occhi nerissimi, penetranti. Era Nicola. Si alzò, ci presentarono. In piedi, un po’ in disparte, c’era anche Franco, il fratello medico. Mi sedetti su una comoda sedia, quasi davanti al divano, e alla mia destra c’era Pina, alla mia sinistra c’era un solido pianoforte e sopra, sul muro, un solo piccolo quadro, un acquerello, mi sembrava. Rappresentava una giovane donna con un capellino vivace, molto giovane e bella, ma con un che di trattenuto, triste, pensavo. La guardai ancora e mentre Pina si avvicinava io dissi, a voce alta: “Quel dipinto, un acquerello, mi sembra, è bello e bella è la giovane”. Una folata di gelo sembrò attraversare la stanza. Gino mi fulminava con lo sguardo, mentre Nicola rivolse i suoi occhi verso di me, uno sguardo profondo, velato di tristezza. Fu ancora Pina a rompere il ghiaccio e con voce dolce disse: “È un autoritratto di Anny, la prima moglie di Nicola. Morì mentre fuggivano dalla Francia durante l’invasione delle armate tedesche”. Mi scusai confusa per quella che poteva apparire, e che infatti era, un’intrusione un po’ rozza nei loro cuori. Prima di andarcene Nicola si avvicinò e mi chiese un poco del mio lavoro. Gli raccontai che amavo molto insegnare, che amavo i miei studenti e soprattutto gli espressi la mia sorpresa, quasi incredulità, che a Genova la “fisica sperimentale delle particelle” fosse allora totalmente nelle mani di donne, sette tecniche che lavoravano sui microscopi alla ricerca, alla rincorsa, si potrebbe dire, delle particelle. Il capo era una donna e ora avevano accettato come aiuto me, un’altra donna. Occorreva dedizione e tanta pazienza.
Vedemmo ancora Nicola, Miriam e Pina, a Bocca di Magra, nell’estate del 1962. Andammo a trovarli con la nostra prima bambina, Vera, e Pina se ne volle subito prendere cura. Nicola era seduto a un piccolo tavolo, sulla riva del fiume, e parlava intensamente con Mario Levi. Andammo ancora a trovarli a Bocca di Magra un paio di anni dopo, con Vera e Miriam, la nostra seconda bambina. Verso la fine del 1963 Nicola andò a Milano a incontrare Gino. Era desideroso di conoscere Valentin Gonzales, il Campesino della Guerra Civile spagnola che era stato espulso dalla Francia in seguito agli accordi fra De Gaulle e il Generalissimo Franco; aveva ottenuto un permesso temporaneo di residenza in Italia, era presidente della Repubblica il socialdemocratico Saragat, mi sembra di ricordare. Gino, che lavorava a “Critica Sociale”, a Milano, lo ospitava nella sua gelida soffitta di via Ripamonti.
Poi, nel luglio 1966, noi andammo a vivere a Londra. Nicola e Miriam ci vennero a trovare tre o quattro volte. A Londra conobbero anche Andrea, il nostro terzo figlio chiamato così in onore e ricordo di Caffi. Nicola era contento di queste visite a Londra e desiderava venire ancora, come dice a Gino nella sua ultima lettera del 12 gennaio 1972, pochi giorni prima di morire. Con difficoltà mi riuscì di affidare i nostri bambini in mani sicure e di andare a Roma al funerale di Nicola. C’erano molte persone, vecchi amici, intellettuali che parlarono di lui e per lui, parlò Alberto Moravia che nei primi anni Trenta, a Parigi, aveva presentato Caffi a Nicola, poi Enzo Tagliacozzo, così amico di tutta la famiglia, parlò Paolo Milano, che era tornato apposta da New York, c’era molta gente di teatro, c’erano molti giovani, anche per loro Nicola era stato un amico e un maestro.
Nicola se ne era andato, Andrea non lo avevamo mai conosciuto, ma essi rimasero sempre presenti nella nostra vita, soprattutto erano sempre con Gino.
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