Lo scorso 21 maggio, le associazioni Femminile Maschile Plurale e Maschile Plurale hanno promosso un webinar dal titolo: “Il ddl Zan: cosa c’è in gioco?”, a cui hanno partecipato Stefano Ciccone, Francesca Izzo (intervistata nel n. 274), Alberto Leiss, Tamar Pitch, Porpora Marcasciano e Maria Paola Patuelli. L’incontro è stato aperto da Cinzia Spaolonzi e Marina Mannucci. La registrazione del seminario è accessibile al link:  https://youtu. be/AUh_3oVkT_k. Pubblichiamo qui gli interventi di Stefano Ciccone, Alberto Leiss, Porpora Marcasciano e Maria Paola Patuelli.

Stefano Ciccone (associazione Maschile Plurale)
Un saluto a tutte le persone che oggi partecipano a questo seminario e con cui in questi anni ci siamo incontrati in tanti luoghi diversi per un comune impegno contro la violenza e, più in generale per costruire percorsi di liberazione e consapevolezza.
La contraddizione tra questa condivisione di pratiche e motivazioni e l’attuale conflittualità che rimuove l’ascolto e il riconoscimento reciproco, è stato un primo elemento che mi ha portato a proporre questo incontro.
Noi di “Maschile Plurale” negli anni passati abbiamo lavorato con donne di diverse città italiane, di diverso orientamento politico e di diversa prospettiva teorica; considero questa una ricchezza a cui non voglio rinunciare. Nel tempo ho conosciuto tanti femminismi, ma ho conosciuto anche la possibilità di metterli in relazione, nella mia ricerca come uomo, e vorrei che questo elemento di interrogazione reciproca e di non riduzione dei conflitti a una dinamica “militarizzata”, che semplifica differenze e posizioni, diventasse parte di una responsabilità che tutte e tutti ci assumiamo. Dico questo perché sono molto preoccupato dal clima che si è creato, al di là del merito della legge, nel campo di tutte quelle soggettività che cercano di costruire una critica al patriarcato.
In questa crescente polarizzazione mi ha colpito, ad esempio, che in un testo di nostre amiche di critica alla proposta Zan ci si riferisca a una minaccia “agli interessi delle donne”. Io ho sempre pensato alle donne non come a una “categoria” portatrice di interessi specifici, ma come a un’esperienza che produceva un punto di vista che rimetteva in discussione anche il mio universo.
Altro elemento che non aiuta il confronto è la sovrapposizione tra questioni certamente connesse ma che è un errore riferire a questa legge.
Prendiamo il dibattito sulla prostituzione, che non c’entra nulla con la legge Zan, ma è indicativo di come un conflitto ridotto al dilemma tra regolamentazione o divieto rischi di rimuovere la possibilità di agire il conflitto vero, che ha al centro la sessualità maschile, il modo di intenderla e di rappresentarla. Paradossalmente la polarizzazione polemica toglie spazio a un conflitto fertile che metta in discussione l’immaginario connesso allo scambio “sesso-denaro-potere” tra i sessi.
Proprio dal femminismo ho imparato quanto sia importante non fermarsi alla norma, ma pensare la trasformazione su altri piani che chiamano in causa la cultura, l’immaginario, la sessualità, le relazioni.
Ecco perché a me oggi interessa andare oltre lo specifico disegno di legge, partendo tuttavia da questioni emerse nel corso del dibattito attorno al ddl Zan.
Parto da un primo elemento, a mio parere, equivoco. Alcune compagne a cui sono legato da rapporti di stima, come Ida Dominijanni e altre, hanno avanzato delle forti perplessità su una moltiplicazione delle categorie di vittime meritevoli di protezione. Questa obiezione, tuttavia, l’ho già sentita a proposito della violenza contro le donne, da parte di uomini ostili a una riflessione critica sul patriarcato: “Ma perché vi battete solo contro la violenza verso le donne e non anche contro la violenza sugli uomini? Se un uomo è vittima di violenza non vi importa?”. Queste obiezioni rimuovono il fatto che noi scegliamo di indicare non le vittime bisognose di tutela, bensì le dinamiche, le motivazioni che producono la violenza. Non si tratta quindi di elencare l’omosessuale, la persona trans, la donna, ecc., quanto di riconoscere che esiste una violenza omofoba, che esiste una violenza legata allo stigma verso le persone trans, e che queste violenze sono tra loro connesse, fanno parte di un “ordine” comune. Quando qualcuno mi dice: “Non piangere se no sei una femminuccia”, o quando sento l’insulto verso il “finocchio”, la “checca”, so che tutte queste espressioni sono tra loro in connessione. L’ironia e lo stigma verso il “finocchio” si basano sul fatto che sia un uomo effemminato, emotivo e passivo sessualmente come una donna. È dunque importante riconoscere che nell'omofobia c’è una fortissima carica di misoginia. Non solo, quella carica di inferiorizzazione delle donne, di stigmatizzazione dell’omosessuale, agisce come disciplina anche su di me, maschio eterosessuale: pur non essendo oggetto di discriminazione o violenza, io maschio sono sottoposto a un disciplinamento basato sulla minaccia che chi non corrisponde alla norma eterosessuale precipiterà nel ridicolo dell’omosessuale o della femminuccia che piange.
Il riconoscimento e il contrasto di queste forme di violenza non riguarda dunque  delle “minoranze”, ma tutti e tutte noi se riconosciamo che sono tra loro connesse e affondano in un ordine comune e pervasivo.
La seconda questione che mi ha molto colpito è quella del cosiddetto “self-id”, cioè la denuncia del rischio di una auto-identità frutto di una “invenzione” o una furbizia individuale. Di qui le fantasie di uomini che si fingerebbero donne per entrare nei centri v, o di uomini che si dichiarerebbero donne per vincere nelle competizioni sportive femminili.
Ecco in tutto questo io vedo innanzitutto una banalizzazione delle esperienze di vita a cui ci riferiamo e delle diverse posizioni teoriche. Ricordo che proprio Judith Butler ormai trent’anni fa diceva che l’identità di genere non è affatto “un abito che si indossa la mattina e si toglie la sera”. È invece l’effetto performativo violento sulle nostre identità delle aspettative e delle rappresentazioni sociali di cui siamo oggetto. Nessuno è padrone della propria identità di genere. Paradossalmente chi paventa la possibilità che qualcuno/a decida oggi di essere trans, domani uomo o donna, rimanda a una visione che è proprio l’opposto; una visione tutta razionale in cui noi siamo padroni della nostra identità e la manovriamo in base alle nostre strategie e in cui c'è addirittura un progetto di invasione degli spazi femminili. Butler chiarisce che il suo discorso sulla costruzione di genere intende proprio criticare il mito del soggetto razionale, artefice di se stesso.
Ma, a parte il fraintendimento teorico, a me questa sembra una sorta di distopia, una fantasia che rimanda a una rappresentazione che non riconosce quanto un’identità di genere trans sia invece il frutto di un percorso molto complesso, spesso doloroso, personale, non razionale, sottratto al nostro controllo: nessuno decide di essere una persona trans. Una persona decide di vivere liberamente quello che è, non di esserlo.
Qui entra in gioco la dimensione del corpo. Io ho imparato dal femminismo che il corpo non è mera biologia, è bensì un nesso tra materialità, identità, emozione, percezione... Femministe di generazioni diverse e prospettive teoriche differenti, come Lea Melandri e Luisa Stagi, mi hanno insegnato  a pensare questa complessità della relazione tra corpo, storia e  soggettività...
Se il corpo è questa realtà complessa, considero un grave arretramento porre a discrimine per il riconoscimento di una soggettività un’operazione chirurgica che rimuova l’anatomia: si accetta, cioè, l’esistenza delle persone transessuali, ma non delle persone transgender perché queste potrebbero, astutamente, tornare indietro nel percorso di transizione.
Ma il tema non è decidere per legge se esista la condizione transgender e come dovremmo considerare “l’identità di genere” di quella persona, ma se esista una violenza contro questa condizione. La questione è più semplice: esistono le persone transgender? Queste persone transgender sono oggetto di violenza e discriminazione o no? E questa violenza va contrastata? Come per la violenza sulle donne non mi basta dire che “condanno tutte le forme di violenza contro qualunque persona a prescindere”.
Propongo due ultime questioni alla discussione.
A me impressiona molto la perdita di una risorsa politica che noi abbiamo sempre considerato invece strategica, fondativa anche delle pratiche che i femminismi mi hanno insegnato. Mi riferisco all’empatia. Il conflitto, il dibattito politico e teorico non è mai un confronto astratto: deve sempre guardare al riconoscimento delle vite delle persone, farsi interrogare da quelle vite.
Ritengo, da questo punto di vista, che lo schiacciare il conflitto sulla polarizzazione astratta tra prospettive teoriche (io sono per il femminismo della differenza, io sono per il femminismo trans, io sono per il queer, io sono per il movimento Lgbt) rappresenti un grave arretramento rispetto al riconoscimento del valore delle vite. Posso pensare che ci sia una parte di militanti transfemministe che fa cose inaccettabili, aggressive, violente, e tuttavia credo che tale contesa non abbia nulla a che fare con la vita di quella persona trans che non ha mai letto Judith Butler o Luisa Muraro e che però vive una condizione di emarginazione, violenza e stigmatizzazione. Non posso sovrapporre una prospettiva teorica a una condizione di vita. Posso avversare una posizione teorica, mantenendo però una capacità di empatia rispetto alle vite.
Ma questa perdita di empatia è rivelatrice, a mio parere di un problema più profondo.
Abbiamo la necessità di ribadire che il riconoscimento di una soggettività altra non mette in discussione la mia. Il fatto che ci si definisca in riferimento alle donne come soggetto politico non deve minacciare donne che invece si pensano dentro una prospettiva non binaria, trans. E così il fatto che esista una persona trans che si nomina come donna non minaccia l’esistenza femminile e la soggettività politica delle donne.
Riconoscere una condizione, un’esperienza, non nega l’altra.
Ciò che oggi mi preoccupa è osservare uno scenario in cui le varie soggettività, anziché pensarsi come portatrici di una trasformazione più generale, percepiscano il contesto come un ambito minaccioso per la propria identità, talvolta con una rappresentazione quasi paranoica, di complotto contro di sé.
Parlo di dimensione paranoica in riferimento all'interessante studio di Laura Bazzicalupo sulla crescita delle pulsioni populiste, nazionaliste nelle nostre società, in cui ogni frammento e ogni soggettività parte dalla percezione di una minaccia, e su quella costruisce un’identità in difesa. Credo che questa sia una deriva molto pericolosa che, infatti, contribuisce a far degenerare il conflitto.
Al di là del merito e dell’esito della legge Zan, questo scenario porta a un impoverimento della grandissima ricchezza che il pensiero delle donne e il pensiero del movimento Lgbt hanno prodotto. Il mio sguardo oggi sarebbe più povero, senza questa ricchezza, e non vorrei che questa dinamica conflittuale la mettesse a repentaglio.

Alberto Leiss (Giornalista, si è occupato di storia delle donne e del femminismo in Italia)
Voglio innanzitutto ringraziare le amiche e gli amici di Femminile Maschile Plurale e di Maschile Plurale che hanno reso possibile questa occasione di confronto, con il proponimento di fare una discussione molto libera e molto rispettosa delle posizioni diverse.
Provo a dire alcune cose, riferendomi alle questioni avanzate da chi mi ha preceduto.
Mi trovo abbastanza d’accordo con Stefano, ma onestamente non su tutto. Per esempio, non sul fatto che si possa così facilmente prescindere dalla legge e dal suo testo, da quello che si sta discutendo attualmente in Parlamento e in vari luoghi dell’opinione pubblica.
Certo è che, qualunque sarà la progressione della legge, sarà importante proseguire questa discussione, approfondirla e sviscerare tutti gli aspetti del complesso cambiamento che stiamo vivendo su tanti fronti. Devo dire che purtroppo, anche in contesti di sinistra, avverto invece una sordità su questi temi: la rivoluzione delle donne e però anche gli intrecci provocati dai cambiamenti di natura tecnico-scientifica che stanno investendo il senso comune e la contrapposizione politica in tante forme.
I temi emersi nel corso della discussione su questa legge, che potrebbe sembrare una norma particolare, relativa solo ad alcune categorie di persone, investono in realtà un interrogativo più generale su dove vogliamo andare, come uomini, donne, come persone che hanno appunto desideri, identità sessuali diverse, ecc.
Per venire alle mie osservazioni sulla legge, parto da una considerazione di ordine generale.
A me pare che ci si debba chiedere se, per affermare nuove soggettività, nuovi diritti, nuovi modi di vivere e di avere relazioni con gli altri, con se stessi, ecc., la strada migliore sia quella di insistere così tanto su norme di carattere penale.
Stefano diceva: io voglio combattere la cultura che produce questa violenza.
Benissimo: siamo sicuri che il modo migliore di combattere questa cultura sia agire con una legge penale?
Io non ne sono affatto convinto. Questa legge peraltro si richiama alla legge Mancino, un’altra legge penale voluta proprio dal fronte più progressista, antifascista, per combattere il razzismo, l'antisemitismo, eccetera. Ebbene, noi oggi viviamo in un paese dove purtroppo negli ultimi dieci, vent’anni, un atteggiamento più o meno consapevolmente razzista si è molto aggravato. Ci sono fior di rappresentanti di partiti che prendono milioni di voti che hanno un atteggiamento spesso francamente razzista.
Purtroppo l’impressione è che questa legge non sia servita a nulla da questo punto di vista. Quindi in linea generale io sono dell’idea che quando si tratta di fare una battaglia culturale, gli strumenti migliori siano in realtà azioni “positive” (con tutto quello che ci può essere anche di ambiguo in questo termine). Sarebbe cioè più efficace agire appunto sul senso comune, sulla cultura diffusa, premere su chi fa informazione, su chi contribuisce a creare il nostro immaginario, la televisione, il cinema, affinché vengano proposti dei prodotti di comunicazione di massa, di invenzione, di creatività, che pongano la questione del fatto che ci sono delle soggettività nuove, che ci sono delle violenze insopportabili, che la nostra società ormai si è diversificata, perché ci sono milioni di persone immigrate, persone che hanno un problema di libertà sessuale e di identità sessuale diversa, piuttosto che rifugiarsi in una legge penale.
Non dimentichiamo poi il fatto che nel nostro paese già oggi è vietato picchiare qualcuno che si bacia, o insultare tizio caio sempronio. Qui infatti stiamo parlando di aggravanti, di cui pure capisco e in parte condivido la logica, ma solo fino a un certo punto, perché purtroppo non può essere questo a risolvere il problema.
Ma veniamo alla legge. Sul testo del ddl a me è capitato di scrivere (mi è stato detto che forse ho sbagliato, ma comunque vorrei discuterne) su quella nomenclatura iniziale dove vengono definiti i vari termini sesso, genere, identità di genere, e così via. Ecco, la complicata relazione tra la parola sesso e la parola genere a me sembra un nodo di grande importanza. Io poi capisco bene che l'espressione “identità di genere” sia già oggi utilizzata in tanta produzione legislativa, anche di carattere internazionale, però il fatto che questa formula si affermi sempre di più, ai miei occhi non giustifica che non se ne possa discutere.
In questo disegno di legge, già nelle prime righe, si sostiene che il sesso è una questione solo biologica o anagrafica, e poi si parla di identità di genere, eccetera. Ecco, io credo che la parola “sesso”, per tutto quello che significa nella vita di ognuno di noi e per quello che è stato elaborato, sia molto più significativa e anche ingombrante diciamo, sanamente ingombrante, soprattutto dal punto di vista della sessualità maschile.
Trovo poi molto condivisibile l’argomento di Stefano, cioè che la legge dovrebbe servire appunto a combattere la cultura che produce la violenza. Però allora è singolare che in questo disegno in cui si parla di generi, sessi, non venga mai nominata la parola “maschile”, né “patriarcale”; in sostanza non c’è niente che identifichi la cultura che produce la violenza omofoba o transfobica.
Penso che noi pure dovremmo porci le interrogazioni avanzate dalle amiche femministe. Stefano ha fatto più volte riferimento alle discussioni presenti in ambito femminile e femminista, denunciando il rischio che una ricchezza di cui noi per primi abbiamo usufruito, possa essere compromessa o smarrita.
Benissimo, però è altrettanto vero che manca un dibattito da parte maschile. Gli uomini in genere si schierano tra destra, sinistra, ecc., ma su questi aspetti non si pronunciano più di tanto. Salvo il caso in cui emerga qualcosa di particolarmente problematico. Mi è capito di citare in qualche breve scritto la copertina de “L’Espresso”. A me è parso un fatto abbastanza significativo. “L’Espresso” è un settimanale che leggo con interesse, nell’ultimo numero presentava vari materiali sulla questione del ddl Zan. La copertina riportava la frase “La diversità è ricchezza” e l’immagine era quella di un uomo con il pancione. Insomma, un uomo “incinto”.
Ecco, quello che io temo è che l’uso di un certo linguaggio riaffermi sostanzialmente qualche cosa di indifferenziato, che non rifletta appunto sulla differenza sessuale. Ma che cosa si intende per differenza sessuale? Non si intende -almeno io non la intendo così- una questione di carattere biologico, bensì un qualcosa di molto più complesso, stratificato, frutto di un’elaborazione, di una ricerca e anche di una pratica politica. Quando Luisa Muraro e altre parlano del “senso libero della differenza sessuale”, cioè di come io costruisco una mia libertà riferita alla mia sessualità, parla di qualcosa che riguarda ognuno di noi.
Questo per dire che credo sarebbe utile portare avanti questa discussione anche tra noi uomini.
Infine, su tutto questo tema del binarismo e di una cultura eterosessuale che domina e che pretende di normare, anche su questo io credo si debba un po’ discutere, perché l’eterosessualità maschile è qualche cosa di complesso. L’omofobia, a mio modo di vedere, è anche la manifestazione della presenza di un fantasma che è molto dentro l’esperienza maschile.
Se guardiamo a come è fatto il mondo oggi, vediamo che la pratica sociale di molti maschi è in realtà sostanzialmente omosessuale, in senso simbolico. Se guardiamo alla Chiesa, ai partiti politici, a come è organizzata la società, ci accorgiamo che questa eterosessualità non è poi sempre così condita di vero desiderio, di vero amore per l’altro sesso.
Per tutte queste ragioni penso sia utile e doveroso proseguire questo dibattito, provando a evitare, se possibile, che vengano elaborate delle leggi malfatte.
 
Porpora Marcasciano (Sociologa, presidente del Mit, Movimento Identità Trans)
Buonasera a tutte e tutti. Premetto che il linguaggio che userò, rispetto a relatrici e relatori che mi hanno preceduto, è quello dell’attivismo. Io arrivo dal movimento trans e lgbt in generale, quindi il mio non è un taglio giurista-sociologico, nonostante sia laureata in sociologia, bensì quello appunto di un'attivista. Visto il titolo del dibattito di questa sera, riporterei l’asticella al centro, cioè sul ddl Zan, una legge contro la violenza e i crimini d’odio nei confronti di persone trans, gay, omosessuali, ecc. In Italia la violenza nei confronti di queste persone è aumentata in maniera così forte e così insopportabile da richiedere un intervento.
Sento il dovere di fare questa premessa perché il dibattito in questi mesi è andato via via radicalizzandosi, polarizzandosi, spostando il focus dalla violenza e i crimini d’odio nei confronti di alcune categorie di persone a una diatriba molto più ideologica rispetto alla materialità delle questioni. E per materialità intendo la vita delle persone, in particolare delle persone trans, che sono esposte quotidianamente a violenze di ogni genere, dall’esclusione dai contesti sociali, lavoro, scuola, famiglia alla violenza fisica. Perché le persone trans sono visibili e sono un bersaglio molto più facile rispetto ad altre possibili categorie. Questa visibilità, ci tengo a dirlo e a sottolinearlo, ci è costata parecchio in termini di vivibilità e sopravvivenza. Quest’anno il Mit, l’associazione che presiedo, compie quarant’anni, e non sono stati anni facili. Io stessa ho pagato in prima persona, con il carcere, il mio essere trans, nel lontano 1981.
Dopo tutti questi anni, in cui non ci siamo risparmiate nulla, il dibattito si è spostato su una questione che riconosco essere sopita, sommersa, quella della contrapposizione tra una parte del femminismo e una parte del mondo trans, queer, lgbt. Ma questo dibattito non può non tenere conto di quella che è la vita delle persone.
In Italia la stima fatta dall’Istituto superiore di Sanità è di 400.000 persone trans. 400.000 persone che, mi permetto di parlare a loro nome, patiscono una serie di problemi legati appunto a questo pregiudizio antico. Pregiudizio che noi riferiamo al patriarcato. Questo mi trova completamente d’accordo, mi chiedo però: quali sono le particolari declinazioni di quel pregiudizio? È una domanda che pongo alle presenti, ai presenti, a chi ci ascolta, a chi ci sta seguendo. Perché il pregiudizio non è solo quello violento, dei maschi. È un pregiudizio che prende forme diverse.
In questo confronto, che vuole essere costruttivo, di chiarimento, mi voglio tenere fuori dalla contrapposizione tra femminismo e persone trans, o in generale mondo queer.
Certo è che questa polarizzazione, come dicevo, ha spostato il cuore della questione. E il cuore della questione è che in Italia, anche su sollecitazione dell’Europa, c’è bisogno di una legge di tutela. Non è possibile che dopo anni, quando viene presentato un disegno di legge, quello che viene fuori sono delle retoriche, dall’una e dall’altra parte, alcune di destra, alcune di sinistra... è il famoso male della sinistra, lo devo dire, per cui ci si spacca su questioni che ci portano lontano e che ci fanno perdere di vista la materialità della vita delle persone. Si sposta l’asticella sempre più in là, come in quella copertina de “L’Espresso” sulla quale preferisco non esprimermi.
Come è stato osservato, una cosa sicuramente la legge Zan l’ha fatta, ha rimesso in moto una discussione, a volte più agitata, a volte più quieta, che fondamentalmente ci fa bene. È importante e opportuno tirar fuori temi che stanno lì nel cassetto da anni. Non vi nascondo che questo non mi dispiace. Io lo dico e lo ripeterò all’infinito: mi sento figlia del femminismo. Le mie lotte, il mio attivismo nasce negli anni Settanta, quando era impossibile non essere intrecciati col femminismo. Tutte le mie amiche e compagne anche di oggi sono femministe. Quindi non è un mondo distante da me, è un mondo a cui sono legata. Proprio per questo non posso che soffrire quando si innescano meccanismi di incomunicabilità e gioisco invece quando c’è un dibattito fecondo, da cui può scaturire un’elaborazione che fa bene a tutte e a tutti.

Maria Paola Patuelli (Già docente di Filosofia e Storia, ha fondato, con molte altre e alcuni altri,  l’associazione Femminile Maschile Plurale di Ravenna)
La mia prima considerazione riguarda il bisogno che ho di tenere i piedi per terra. O, meglio, i piedi appoggiati sulla storia. La lettura dell’intervista che Porpora ha rilasciato qualche giorno fa a un inserto del quotidiano Domani mi ha fatto lo stesso effetto che mi fece a suo tempo la lettura dell’autobiografia di Malcom X. Malcom X negli anni Sessanta fu un imprevisto della storia. Un uomo nero che raccontava la sua vita e la sua politica. Ecco, l’ intervista autobiografica di Porpora mi ha ricordato la forza che può esprimere una vita raccontata senza filtri. Fatta questa premessa, devo dire che questo dibattito, non facile ma nello stesso tempo ricco e importante, l'abbiamo non di rado visto, nella storia del nostro paese, tutte le volte che si è arrivati a leggi non scontate o comunque difficili.
Penso a cosa fu per l’Italia la discussione sul divorzio, sull’aborto, o sulla legge contro la violenza sulle donne.  Anche in questi casi emersero voci diverse.
Tutte le volte che ci avviciniamo a leggi di questo tipo c’è sempre un’ampia e non facile discussione che però ci aiuta ad arrivare gradualmente verso una legge, che non è mai risolutiva, ma è il segno di qualcosa che si è spostato, di qualcosa che è cambiato, nel mondo.
Le leggi non sono di per sé salvifiche. Non sciolgono mai tutte le questioni. Pensiamo di nuovo all’aborto, ai consultori carenti, ai medici obiettori. Oggi quella legge risulta inapplicata. O pensiamo alla legge contro la violenza sulle donne: le violenze continuano.
Anche le parole cambiano nel corso del tempo. Oggi per esempio c’è una nuova parola, femminicidio. Un tempo c’era solo omicidio, anche quando l’uccisa era una donna.
Riflettendo su tutto questo, cioè sull’importanza degli spostamenti nella storia, ho pensato a quanto, per esempio, due madri costituenti come Teresa Mattei e Lina Merlin, siano state -come diceva Calamandrei- presbiti, nel senso che hanno guardato lontano, portando un contributo fondamentale alla stesura dell’art. 3, che molto scombinò l’uditorio prevalentemente maschile che avevano attorno.
Lina Merlin infatti a un certo punto disse: “Guardate che nell'art. 3 dobbiamo mettere anche la parola sesso”. I padri costituenti ovviamente reagirono dicendo che gli uomini sono tutti gli umani. Ma la Merlin insistette: “No, dobbiamo dire sesso perché i sessi non sono uno. Perché se diciamo uomini, ci sono un sacco di uomini che pensano che gli umani siano solo quelli che portano i pantaloni”. Fece una bella battaglia e la vinse, con il sostegno delle altre poche ma bravissime madri costituenti.
Teresa Mattei, nell’ultima parte dell’articolo 3, quello che recita “La Repubblica rimuove gli ostacoli …”, fece introdurre la formula “di fatto”, che non era presente nella prima stesura, proprio per indicare che non era solo un approccio teorico, un’indicazione astratta: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale (c’è un sacco di roba nel sociale) che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
In quelle parole, sesso e di fatto, spiegava Calamandrei, la Costituzione è stata presbite, cioè ha guardato lontano.
Il grande merito della lotta delle donne, di quel “soggetto imprevisto”, come diceva Carla Lonzi, è stato di scombinare categorie patriarcali millenarie. Ma, aprendo quella porta, il femminismo ha dato una mano straordinaria alla possibilità di vedere la vita -le vite- in tutte le manifestazioni impreviste e imprevedibili, in quel momento e sempre.
La rivoluzione femminista ha contribuito a creare il terreno storico, culturale, plurale, e adatto, per l'emergere di nuove soggettività. L'amica filosofa Rosy Braidotti ha scritto un libro fondamentale, Il soggetto nomade, su questi temi.
L'altra grande lezione del femminismo è stata il partire da sé, dalle nostre singole e singolari vite. Se io parto da quella che è stata la mia vita, dall’adolescenza a oggi, vedo che di nomadismo ne ho fatto molto, in termini culturali e politici. Forse sono stata meno nomade nella mia sessualità. Ma ho amiche e amici che sono stati nomadi anche nella loro vita sessuale, nel mutamento del loro provare desiderio. Ebbene, questo è un debito che noi abbiamo nei confronti del femminismo che ha spalancato una grande porta.
In uno dei nostri seminari, tanti anni fa, una delle lezioni che ci fece una autorevole genetista era intitolata “I sessi sono cinque, almeno”. Almeno. E riportò molti dati, dal punto di vista scientifico, se proprio vogliamo stare sul bìos, sul biologico, sul corpo. Questo per ricordare come ci siano molte sfaccettature, non solo nei sessi, ma anche all’interno di ogni sesso. Inoltre, come ci ricorda bell hooks, appena si nasce, la prima cosa che si vede non sono i genitali, bensì il colore della pelle. E già qui ci sarebbe un’altra complicazione.
Tutto questo per ricordare come queste scoperte e pensieri ci abbiano aperto possibilità straordinarie, rimandando a noi molte responsabilità nello stare, nella storia e nelle vite, mano a mano che queste si manifestano in forme un tempo impreviste e imprevedibili, ma che quando si manifestano, vanno accolte.
Stefano citava l’empatia. Magari! Purtroppo non basta auspicarla, l’empatia. Forse è più facile acquisire questa capacità di fare i conti con la vita delle altre e degli altri, se riconosciamo che le nostre stesse vite sono chiaroscuri, segnate da contraddizioni, ben lontane dunque da quei confini lineari, netti, precisi, che vorrebbe il patriarcato. Grazie alla crisi che i vari femminismi hanno indotto nelle società patriarcali, molto si è mosso e smosso. E le leggi arrivano sul far della sera, cioè quando, in qualche modo, il mondo, le vite e la storia hanno posto questioni nuove. Quindi, direi che la fatica a cui siamo chiamate e chiamati oggi è seguire la storia sapendo che una legge arriva, ed è probabile che sia imperfetta. Però quanto ci sta facendo discutere! E non è male: di quante vite nuove ci siamo accorte, e in modo più ravvicinato? Considero questo un fatto positivo.

Stefano Ciccone
Ribadisco l'utilità di creare questi spazi di discussione nonostante la difficoltà che incontriamo perché ci permettono di ascoltarci e di superare alcuni fraintendimenti. Paola diceva che “l’empatia non si può semplicemente auspicare”. Io tuttavia non faccio appello a una generica empatia umana. Io penso che l’empatia sia una risorsa politica dei femminismi e delle pratiche politiche che abbiamo costruito e che perderla sarebbe un arretramento politico e culturale grave; un arretramento che ci impoverisce tutti e tutte. Allo stesso modo, a proposito dell’obiezione che fa Francesca Izzo sul rischio di ridurre le donne a una “categoria”, credo sia fuorviante contestare il disegno di legge Zan, come fa l’appello di “se non ora quando-libere” con l’argomentazione che ridurrebbe “gli interessi delle donne”, proprio perché le donne non sono una categoria portatrice di interessi particolari, come ci ha insegnato Maria Luisa Boccia e prima ancora Carla Lonzi. Mi sembra che, al contrario, questa battaglia interessi tutti e tutte noi, tutte queste soggettività critiche dell’ordine patriarcale.
Sulla questione dell’abito, dell’identità di genere, concordo con Francesca Izzo che è una banalizzazione dire che l’identità di genere si indossa la mattina e si dismette la sera. La stessa Judith Butler, come ho detto, contesta una rappresentazione così semplificata che invece ritorna nell’appello contrario alla legge che chiede di non ammettere e consentire “la transizione da un sesso ad un altro sulla base di una semplice auto-dichiarazione”.
A mio avviso la questione rimane se “l’identità di genere” sia frutto di una volontà soggettiva, razionale, in cui è la mente a plasmare il corpo, o piuttosto sia l’esperienza di una condizione corporea, umana, emotiva, complessa, che porta a stare a disagio dentro un’identità o l’altra. Personalmente credo che rappresentare la “self-id” come una determinazione razionale della propria identità, per di più modificabile nel tempo, sia una semplificazione che non ci aiuta.
La domanda di fondo per me rimane: le persone transgender, che non sono i transessuali che hanno fatto una transizione chirurgica, e che però hanno assunto un’identità di genere differente, esistono o no? Sono delle invenzioni o ci offrono un’esperienza di vita che dobbiamo riconoscere? E, se esistono, sono oggetto di stigma e di violenza o no?
Di nuovo, ricordiamoci che qui parliamo di vite e non di prospettive teoriche.
Francamente, fatico a vedere uomini che per “invadere” gli spazi femminili “usano” la transizione di genere: vedo piuttosto persone transgender recluse in carceri maschili o in centri per migranti maschili, che subiscono violenze perché costrette a stare in uno spazio di uomini avendo un’apparenza femminile. Se è questo il caso, ci importa o no riconoscere quell’identità ed evitare quella violenza? Io penso che il tema sia: come costruiamo, tutti assieme, questo percorso di trasformazione rispetto a una cultura patriarcale?
Detto questo, sono molto d’accordo con quello che dice Alberto, e cioè che una legge penale non è lo strumento migliore per risolvere questi problemi. Questo discorso però vale anche per la violenza sulle donne: davanti all'ipotesi di una legge specifica, molti hanno obiettato che c'era già il reato di omicidio, il reato di percosse. Perché imbastire norme, convenzioni internazionali e procedure per contrastare la violenza sulle donne?
Il quotidiano “Libero” qualche giorno fa titolava: “Ci sono più maschicidi che femminicidi”, come a dire: muoiono più uomini (cosa peraltro falsa) e voi non vi preoccupate della violenza contro di loro. Non si tratta di aggiungere nuovi soggetti bisognosi di tutela ma di riconoscere un preciso contesto culturale che genera quella violenza.
Quando nella Costituzione, come ricordava Paola, abbiamo detto no alle discriminazioni per “sesso, religione e razza”, nessuno ha pensato alla possibilità che qualcuno dicesse: “Io allora impugno la discriminazione del maschio bianco eterosessuale e cattolico”, perché sapevamo che non era di questo che parlava la Costituzione. Quando si cita la discriminazione per sesso l'obiettivo è il contesto sociale che, sul sesso, produce una gerarchia, un dominio tra donne e uomini, tra maschile e femminile.
L’ultima battuta la faccio rispondendo ad Alberto. La copertina in cui viene rappresentata quella persona con la barba e incinta parla in realtà proprio dell’irriducibilità del corpo. Perché quella è una donna, con un utero, che ha fatto una transizione di genere, e che, grazie agli ormoni, ha la barba. Un uomo, con un apparato sessuale maschile, non può partorire. Soprattutto per gli uomini c'è una irriducibilità della differenza del corpo che costituisce il limite con cui noi ci misuriamo. Anzi: Manuela Fraire osserva come il moltiplicarsi delle tecnologie riproduttive ha enfatizzato questo limite maschile.
Questo tuttavia non significa schiacciare la differenza sul corpo biologico. Maria Luisa Boccia, Adriana Cavarero e tante donne del femminismo della differenza, ci hanno spiegato che la differenza non è metastorica, ma è dentro i processi storici. Non c’è una differenza femminile fuori dalla storia, non c’è una differenza come identità, ma c’è l’esperienza del differire, e c’è una singolarità incarnata. La differenza è questo, ridurla al corpo biologico significherebbe compiere un grave passo indietro.

Alberto Leiss
Io sono d’accordo, per continuare questo dialogo a distanza ravvicinata con Stefano, che quello che conta è la realtà delle vite, nostre e delle persone con cui siamo in relazione. A me non è capitato di avere amicizie o conoscere a fondo persone che hanno fatto un’esperienza di transizione sessuale. Naturalmente mi pare che siamo tutti d’accordo che ci deve essere un riconoscimento pieno delle diverse identità sessuali. Io preferisco dire identità sessuali, cioè come si vive il proprio corpo: io sono differente da una donna, sono differente anche da una persona che fa una transizione, e cerco di avere a che fare con questa mia sessualità, che peraltro non mi è completamente chiara.
Quello che a me insospettisce è questa esplosione di nomenclature; tendenza che pure capisco perché bisogna definire per difendersi, per affermare nuove soggettività; certo preferirei che ognuno cercasse la propria libertà e la propria capacità di relazione, senza bisogno di normare troppe cose.
Naturalmente la legge può servire; già averci costretto a questa discussione tra persone con cui da un po' non capitava di confrontarsi è un risultato prezioso. Io credo molto e sono anche affezionato a Maschile Plurale, a questo “tra uomini” che auspico si allarghi a una pratica di scambio anche con le amiche che sono disponibili ad affrontare questi temi.
Ritorno brevemente sulla questione della copertina dell’uomo “incinto”. Ora, niente da dire sul fatto che c’è una persona che ha un corpo che devo quindi definire femminile, che fa una transizione perché sente di essere un uomo, ma conserva questa possibilità e quindi partorisce pure. Benissimo, che si definisca come vuole. Tuttavia a me quell'immagine ha provocato una sensazione di disagio perché sono stato portato a leggervi una “invidia maschile”.
Mentre si è tanto discusso sull’invidia delle donne per il pene maschile, meno si è parlato di questa invidia, di questa difficoltà degli uomini di fare i conti con il fatto che le donne ci mettono tutti al mondo.
È un punto che mi piacerebbe approfondire. Siamo in un momento della storia in cui ci sono le capacità tecnico-scientifiche per fare di noi chissà che cosa, ormai vien da pensare che la fantascienza sia rimasta indietro!
Bene, chiedo: possiamo noi in qualche modo intervenire in queste dinamiche o bisogna arrendersi al fatto che l’imprevisto ci assalga di colpo… Questo naturalmente succede, l’imprevisto avviene e dobbiamo misurarci con questo. Ma possiamo in qualche modo determinare che cosa vogliamo essere di fronte a questa specie di salto di civiltà, come in quel film di Kubrick quando compare il monolite…
Mi è tornato alla mente un romanzo che a me piace moltissimo, di Ursula Le Guin, La mano sinistra delle tenebre.
Lì si racconta di persone che, nel corso della loro vita, sono sia uomini che donne, cioè hanno l’esperienza della maternità e della paternità, dell’essere maschi e femmine. Forse un mondo così sarebbe pure più simpatico e potrebbe comprendere anche quelli che non vogliono essere né una cosa né l’altra.
Stiamo attenti però che a determinare quello che saremo, non sia invece, sotto sotto, proprio il punto di vista di un potere maschile che non si arrende. Perché ciò a cui noi stiamo assistendo è che tutta una parte di senso comune maschile resiste pervicacemente al cambiamento che è stato aperto dalla libertà femminile.
L’unica arma che noi abbiamo, l’unico nostro strumento è il linguaggio, una politica simbolica. Questo credo di aver imparato dal femminismo, l'importanza della nominazione. Per questo è importante ragionare attentamente sulle parole che usiamo per costruire qualche cosa che sia un andare avanti della libertà. Perché la libertà femminile che abbiamo conosciuto nelle nostre vite, prima che sui libri, secondo me è un’occasione anche per noi maschi, e per tutti quelli che vogliono essere liberi nella propria sessualità e nella propria relazionalità. Però, appunto, dobbiamo nominarle bene queste cose, perché se le nominiamo male, c’è il rischio di fare delle cose sbagliate. Se si potesse evitare sarebbe meglio.

Porpora Marcasciano
Aggiungo brevemente due considerazioni. Il percorso trans, storico, culturale, personale, dei corpi e del relativo movimento, è lungo più di quarant'anni ed è costellato da una serie di passaggi importanti e soprattutto di tanta fatica. È un percorso che definisco di liberazione. Questo ci tengo a sottolinearlo, perché non ha nulla di meno e nulla di più rispetto ad altri percorsi di liberazione a cui tra l'altro è fortemente intrecciato.
L’altra precisazione riguarda il transito, che è stato chiamato in causa rispetto alla discussione sull'autodeterminazione. Bene, questa autodeterminazione costa tantissimo, sia in termini economici, sia in passaggi legali, medici, psicologici… Parliamo di un percorso fatto di perizie, tribunali, avvocati… Questo per dire che non è vero che una persona si sveglia alla mattina -come certa retorica sostiene- e dichiara di essere donna e poi ci ripensa e torna indietro. No, non è affatto così. Stampiamocelo bene nella testa, perché nel percorso di liberazione individuale e collettivo che le persone trans stanno facendo c’è tanta fatica e le difficoltà e i costi, di varia natura, che ricordavo prima. È un invito, a chi l’esperienza non la vive in prima persona, e quindi la sente lontana, a riflettere su questo.
(a cura di Barbara Bertoncin)