Perché furono assassinati su mandato di Mussolini quattro leader del liberalismo, sia di tendenza democratico-liberale sia social-riformista, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli e Giacomo Matteotti? È un interrogativo che non si può eludere in una riflessione sulla parabola liberale nella Repubblica.
L’eretico liberale Piero Gobetti pubblicò giovanissimo il saggio sulla lotta politica in Italia mentre trionfava la dittatura mussoliniana: con il termine “liberale” nel suo La rivoluzione liberale intendeva la continua liberazione dagli schemi e dalle idee dedotte. Fondatore di riviste e di una casa editrice, amico di Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini, animò un circolo di intellettuali che presto passarono all’antifascismo. Fu vittima di ripetuti pestaggi squadristi che aggravarono le sue precarie condizioni di salute e lo portarono alla morte, nel 1926, a Parigi all’età di venticinque anni.
Il filosofo Giovanni Amendola, deputato e ministro liberaldemocratico, fu bastonato dalle squadracce nere per cui nel 1926 morì anch’egli in esilio in Francia a poco più di quarant’anni. Il parlamentare campano, che guidò l’antifascismo liberale, democratico e socialista sull’Aventino in assenza dei comunisti, e aveva pubblicato sul quotidiano “Il Mondo” il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” di Benedetto Croce, alla Liberazione avrebbe avuto poco più di sessant’anni. La sua cultura, nutrita dall’esperienza politica, lo avrebbe probabilmente candidato nel secondo dopoguerra a leader del liberalismo nella Repubblica.
Anche il leader dei socialisti riformisti, Giacomo Matteotti, fu assassinato dai fascisti nella stessa stagione di Gobetti e Amendola; se avesse vissuto la fine del fascismo, sarebbe probabilmente divenuto l’autorevole riferimento per i socialisti democratici e avrebbe potuto contrastare nel 1948 il corso filocomunista del Psi come aveva fatto negli anni Venti, insieme al sindacalista Bruno Buozzi e a Claudio Treves, quale esponente del Partito socialista unitario di Filippo Turati.
Il quarto assassinio che colpì nel 1937 Carlo Rosselli insieme al fratello, lo storico Nello, fu il culmine di un meditato progetto di criminalità politica contro i più importanti esponenti della democrazia liberale del tempo. Mussolini riteneva pericoloso il giovane leader, che non aveva soltanto elaborato con Socialismo liberale una teoria contrapposta al massimalismo, ma aveva dimostrato di essere un agitatore politico di rara efficacia con il movimento Giustizia e Libertà, da cui sarebbe nato il Partito d’Azione che si dissolse per diversi motivi, tra cui l’assenza di un leader riconosciuto.
Nulla prova che se i quattro leader antifascisti non comunisti assassinati dai mussoliniani fossero sopravvissuti al Ventennio, la democrazia liberale e socialista avrebbe avuto maggiore fortuna di quanto in effetti ha avuto nel dopoguerra a fronte dei democristiani e dei comunisti. È forse temerario sostenere la tesi che la tragica persecuzione dei leader liberaldemocratici e socialisti riformisti sia stata programmaticamente più accanita di quella contro Antonio Gramsci e gli altri dirigenti comunisti sulla base di un lucido progetto fascista. Certo è, però, che il vuoto politico che quegli assassinii lasciarono nel post-fascismo tra le fila dell’antifascismo non comunista influì sulle sorti della democrazia nella Repubblica.
Negli anni Venti, Mussolini era già consapevole che i nemici più pericolosi per il nuovo regime erano coloro che si richiamavano alla democrazia liberale e sociale dell’Italia pre-fascista. I socialisti massimalisti e i comunisti erano avversari relativamente facili da combattere perché ben identificabili come nemici che non potevano rappresentare un’alternativa di governo. Forse, proprio per questo, il duce volle colpire subito coloro che con le loro idee e proposte potevano far pensare a un diverso sviluppo politico nel Regno, possibile fino al delitto Matteotti. Leader politici come Giovanni Amendola erano stati importanti esponenti governativi e tali potevano ancora esserlo in futuro. Era perciò opportuno che quegli antifascisti democratici che non erano riparati all’estero e non erano stati reclusi nelle carceri speciali fossero tolti violentemente dalla circolazione.
Con la fine della dittatura, con l’avvento della democrazia, naturalmente, i metodi della politica cambiarono radicalmente. La polemica in funzione del consenso elettorale sostituì la violenza fisica a cui aveva fatto ricorso la tirannia. Ma proprio come avevano fatto paura a Mussolini, gli esponenti del liberalismo e del socialismo democratico vennero giudicati un pericolo dai leader dei grandi partiti di sinistra della neonata Repubblica.
È l’unica spiegazione possibile del comportamento di Palmiro Togliatti. Egli, infatti, con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia, eresse a principali bersagli della polemica dalle colonne di “Rinascita” non già i conservatori e gli ambienti dell’estrema destra, ma particolarmente i liberaldemocratici del “Mondo” e i socialisti riformisti di Giuseppe Saragat. Sulle pagine della sua “Rinascita” bombardò di violenti critiche, fino ad arrivare ai più volgari insulti, non solo il filosofo Benedetto Croce, che allora era il riferimento dell’Italia liberale, ma anche gran parte degli intellettuali e politici azionisti e democratico-socialisti, da Gaetano Salvemini a Ignazio Silone, che avevano combattuto il fascismo da posizioni antitotalitarie.
Il filo rosso del libro è rappresentato da una interpretazione che vede come uno dei nodi centrali della storia della Repubblica la contrapposizione tra la sinistra comunista e i liberaldemocratici.
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