Michael Walzer è professore emerito dell’Institute for Advanced Study. È autore, oltre ad altri libri di teoria politica, di Guerre giuste e ingiuste, Laterza, 1977.
“Un conquistatore”, ha scritto lo stratega militare Carl von Clausewitz, “è sempre un amante della pace. Vorrebbe entrare nei paesi da conquistare senza incontrare resistenza; per evitare ciò, dobbiamo scegliere di combattere”. Il crimine di un’aggressione consiste nel costringere uomini e donne a fare questa scelta. Certo, uomini e donne potrebbero anche scegliere di non combattere, come già fecero i cecoslovacchi nel 1938, i quali erano stati abbandonati dai propri alleati e costretti ad affrontare da soli la Germania nazista. Ma la maggior parte delle persone è convinta che la scelta giusta sia difendere il proprio paese.
Vladimir Putin, apparentemente, era sicuro che gli ucraini avrebbero scelto di non combattere, perché il paese era governato da nazisti e i suoi cittadini si sentivano russi e dunque avrebbero accolto le truppe russe come liberatori. Se anche una sola di queste ipotesi si fosse rivelata esatta, non avremmo potuto definire quella russa come “guerra di aggressione”. Ma gli ucraini hanno smentito queste supposizioni. Hanno dimostrato il valore dello stato e della democrazia ucraina combattendo e morendo per difenderli.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è illegale secondo il diritto internazionale, ed è ingiusta secondo qualsivoglia versione si prenda in considerazione della teoria della guerra giusta. La decisione di cominciare una guerra e la successiva condotta militare sono cose da sempre soggette a un giudizio morale. In Europa, la teoria della guerra giusta viene fatta risalire al Medioevo; per la maggior parte, è stata sviluppata da teologi cattolici, ma ne esistono anche versioni ebraiche e musulmane (nonché indù, buddiste e confuciane). Da altrettanto tempo, i “realisti” hanno negato la sensatezza e l’efficacia di simili giudizi. Il realismo è la principale alternativa sia al diritto internazionale che alla teoria della guerra giusta.
La condotta di guerra dell’esercito russo vìola nettamente la Convenzione di Ginevra e non rispetta neanche il requisito della guerra giusta, in base al quale bisogna combattere in modo tale da evitare o minimizzare le vittime civili.
Gli ucraini hanno scelto di combattere, ma sono i russi a essere responsabili del rischio cui è esposta la popolazione civile. Al crimine dell’aggressione i russi hanno aggiunto quello della guerra totale, e in una delle sue forme più letali: l’assedio alle città. Assediare una città, proprio come i russi stanno facendo a Mariupol, è una modalità di combattimento che mette direttamente a rischio la popolazione civile. L’idea è di circondare un insediamento urbano, tagliarne gli approvvigionamenti, impedire ai civili di abbandonarlo e aspettare fino a che questi, affamati, non costringeranno i propri soldati alla resa. Ma non sempre gli assedi funzionano, come i russi dovrebbero ben ricordare: Leningrado resistette all’assedio delle forze naziste dal 1941 al 1943 senza mai arrendersi, nonostante in quel periodo un milione di suoi cittadini fossero morti di fame e malattie. A Norimberga, nel 1945, il Feldmaresciallo von Leeb, a capo dell’assedio, fu processato per aver ordinato ai suoi soldati di fare fuoco sui civili che tentavano di fuggire dall’assedio. Venne riconosciuto non colpevole, perché la guerra per assedio non era regolata dal diritto internazionale, e impedire la fuga dei civili, a dispetto della sua crudeltà, era considerata pratica “consuetudinaria”.
I teorici della guerra giusta la pensavano diversamente. Il filosofo medievale Mosé Maimonide ha scritto che “quando si pone sotto assedio una città allo scopo di catturarla, questa non dovrà essere circondata ai quattro lati, ma solo su tre di questi, per dare l’opportunità di fuggire a chi volesse mettersi in salvo”. Questa potrà apparire come una posizione ingenua: come si fa a “circondare” una città da soli tre lati? La regola di Maimonide sembrerebbe vietare, di fatto, gli assedi. Ciò che questa regola fa, in effetti, è ridurre le probabilità di catturare la città. Questo è il punto cruciale di tutte le regole che mirino a proteggere i civili dalle barbarie della guerra. Il massacro deliberato dei civili potrebbe certo essere una modalità di vittoria, ma agli eserciti che vogliano combattere in maniera “giusta” viene richiesto di cercare altre modalità (e ce ne sono). Posizionarsi attorno a una città, come stanno facendo i russi ora, e lanciare colpi d’artiglieria e bombardamenti aerei rivolti indiscriminatamente contro i civili intrappolati al suo interno, è una strategia che riduce considerevolmente i rischi per i soldati dispiegati sul campo e potrebbe anche portare, nel tempo, a una vittoria senza grandi costi per gli invasori. Cionondimeno, costituisce un crimine di guerra. Altri paesi, compresi gli Stati Uniti, hanno in passato commesso simili crimini, ma il fatto che nella storia si siano già verificate queste efferatezze non è mai base per la giustificazione di ciò che sta accadendo nel presente.
Storicamente i realisti hanno sempre deriso questa argomentazione. Quanti eserciti -un realista potrebbe domandare- hanno messo a repentaglio il successo di una campagna militare o le vite dei soldati per ridurre i rischi cui potessero essere soggetti i civili? È una caratteristica tipica del realismo quella di respingere ogni accusa mossa a soldati che sarebbero disposti a tutto, indipendentemente dai pericoli in cui potrebbero incorrere altre persone, per la propria sicurezza e la vittoria del proprio esercito. I realisti moderni tuttavia raramente si spingono a simili giustificazioni. Pressoché chiunque, negli Stati Uniti come in Europa, al cospetto dell’invasione dell’Ucraina, non ha esitato a denunciare la barbarie della guerra russa. L’argomento realista, oggigiorno, assume un’altra forma che ha a che fare con le ragioni della guerra, più che con la sua condotta. I realisti affermano di comprendere le ragioni dietro la decisione di Putin di invadere l’Ucraina, anche se ne deplorano il prezzo. Essi sostengono che le grandi potenze hanno diritto a una sfera di influenza e che l’espansione orientale della Nato ha di fatto negato alla Russia il diritto alla propria sfera “naturale”.
Stando a questa posizione, l’idea che paesi piccoli che si trovano nei pressi di grandi potenze abbiano diritto a una piena indipendenza e sovranità sarebbe un’ingenuità.
In realtà quest’idea sta a fondamento della critica morale dell’aggressione, ed è possibile rintracciarne conferma nella storia. L’accordo post-Seconda guerra mondiale, per come è stato stabilito alla Conferenza di Yalta, ha assegnato alla Russia una sfera di influenza su tutta l’Europa orientale. L’Unione sovietica venne così riconosciuta come una grande potenza, e questa aveva successivamente istituito stati satellite e governi ideologicamente affini in tutta questa sua sfera. Ai realisti era stata dunque data la possibilità di mettere alla prova le proprie teorie.
Tuttavia il rifiuto di concedere anche solo una parvenza di autodeterminazione locale e la creazione, al suo posto, di regimi brutali, autoritari e asserviti a Mosca, si è dimostrata una scelta disastrosa sia per i popoli degli stati satellite, sia, in definitiva, per la Russia stessa. Le fallite rivolte d’Ungheria del 1956 e cecoslovacca del 1968 dimostrarono il bisogno di quei popoli di ottenere uno stato indipendente, uno stato le cui sorti fossero nelle loro mani, e il collasso del blocco sovietico, alcuni decenni dopo, avrebbe fatto giustizia di quel potente ideale; dei veri realisti avrebbero dovuto riconoscere tutto questo.
Una storia similare, non identica ma non del tutto diversa, potrebbe essere raccontata anche a proposito della sfera statunitense d’influenza. I profughi che tentano disperatamente di attraversare il confine meridionale degli Stati Uniti fuggono da stati corrotti e autoritari, stati nella cui creazione abbiamo spesso giocato un ruolo e le cui sorti non sono mai state davvero decise dai propri popoli. Gli esodi dei profughi sono un’altra testimonianza dell’importanza dell’indipendenza e dell’autogoverno.
La rivendicazione ucraina della propria statualità e sovranità giunge in un’epoca in cui gli studiosi di politica internazionale stanno parlando della fine del sistema di Vestfalia e il necessario superamento del concetto di stato-nazione. La verità è che è sì necessaria una cooperazione che attraversi i confini, ma anche che di quei confini abbiamo bisogno; confini come quelli che i combattenti ucraini, in questo momento, stanno lottando per ristabilire.
Un giorno le città devastate dell’Ucraina saranno ricostruite e quel lavoro avrà bisogno di assistenza da tutto il mondo. Questo sarà un progetto internazionale, non cosmopolita; non saranno i “cittadini del mondo” a mettersi insieme in quest’impresa, bensì i cittadini di molti stati che eserciteranno pressioni sui propri governi affinché questi ultimi forniscano i fondi necessari. Lo stato rimane l’agente fondamentale e necessario per il benessere dell’umanità. È anche, e troppo spesso, l’agente della persecuzione e della guerra. Ecco perché abbiamo bisogno di teorie della giustizia che si rivolgano all’attuale sistema statuale, che ci mettano in guardia circa i suoi rischi e che ce ne dimostrino il valore.
(per gentile concessione del Wall Street Journal. Traduzione di Stefano Ignone)
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