Al termine del centenario della nascita di Luigi Meneghello vorrei contribuire con una nota di servizio. “Piccola”, come si addice al titolo del suo libro più famoso, I piccoli maestri, ma sempre anche “grande” quando si parla dell’opera di uno scrittore per il quale piccolo e grande s’intersecano sempre. Una scoperta che consente di svelare qui una fonte sfuggita ai molti critici.
In più punti del suo capolavoro Meneghello fa riferimento alla funzione di Antonio (Toni) Giuriolo, l’apostolo laico presso il quale si compie l’apprendistato dell’autore. L’immagine che ritorna di continuo è quella del cristianesimo delle origini (e qui un ruolo particolare devono avere avuto, via Giuriolo, gli studi di Omodeo), ma soprattutto la metafora della Tebaide, adoperata per rappresentare la guerra in corso, ma anche tutte le esperienze di guerra: “Questa faccenda della Tebaide -si legge a un certo punto- c’è per me in ogni altra fase della guerra, è una componente fissa”. Più distesamente nella pagina seguente, solenne -e forse più celebrata- in cui spiega la ragione della scelta partigiana:

Eravamo una trentina, ora più ora meno, e infine quando fummo alla Fossetta, verso la fine di maggio, trentasei. C’erano altri reparti non lontani, il Castagna a sud e a ovest, i comunisti a est; alla mattina qualche volta li sentivamo sparare; c’erano partigiani di qua e di là, ma intendiamoci, c’era molto più Altipiano che partigiani. Il luogo era vuoto, un deserto. In certi momenti questo si sentiva forte. “Mi pare di essere nella Tebaide”, dicevo a Lelio. […] Fin dal principio intendevamo bensì tentare di fare gli attivisti, reagire con la guerra e l’azione; ma anche ritirarci dalla comunità, andare in disparte. C’erano insomma due aspetti contraddittori nel nostro implicito concetto di banda: uno era che volevamo combattere il mondo, agguerrirci in qualche modo contro di esso; l’altro che volevamo sfuggirlo, ritirarci da esso come in preghiera.
Oggi si vede bene che volevamo soprattutto punirci. La parte ascetica, selvaggia, della nostra esperienza significa questo. Ci pareva confusamente che per ciò che era accaduto in Italia qualcuno dovesse almeno soffrire; in certi momenti sembrava un esercizio personale di mortificazione, in altri un compito civico. Era come se dovessimo portare noi il peso dell’Italia e dei suoi guai, e del resto anche letteralmente io non ho mai portato e trasportato tanto in vita mia: farine, esplosivi, pignatte, mazzi di bombe incendiarie, munizioni. Era un cumulo grottesco. In cima a tutto c’erano le pentole soprannumerarie, la corda, gli ombrelli ripiegati dei paracadute; sotto il grande strato dei sacchi dei viveri; sotto ancora lo zaino rigonfio, pieno di calze e di palle; e sotto lo zaino, io. (cito dall’edizione Rizzoli, 1976, pp. 111)

Gli studiosi hanno variamente richiamato l’attenzione sulla Tebaide, poema di Stazio modellato sull’Eneide virgiliana, sullo Stazio dantesco, purgatoriale; altri ha richiamato il castello dell’Innominato definito “una tebaide” dal Manzoni. Qualcuno ha fatto un rapido riferimento al quadro attribuito al Beato Angelico, conservato agli Uffizi, popolato di “piccoli” monaci che si sono isolati dal mondo, che vivono del loro lavoro, in anfratti e nicchie, ma si è trattato di riferimenti occasionali, slegati dal testo e dal gioco di intertestualità che in Meneghello sfiora il virtuosismo.
Il quadro attribuito al Beato Angelico da poco è ritornato al centro dell’attenzione e si è ritornato a parlarne perché il Museo fiorentino ha avuto l’eccellente idea di toglierlo dalla sua abituale collocazione e abbassarlo ad altezza di bambini: così le singole vicende dei monaci della Tebaide, i singoli anfratti possono essere gustati nei loro diversi particolari come se fossero un cartone animato o una graphic novel. Un intelligente podcast, svela le singole scene, i dettagli, uno per uno, con tenerezza e vivacità e al tempo stesso con rigore scientifico (https://www.uffizi.it/video/la-tebaide-di-beato-angelico-un-dipinto-a-misura-di-bambino).

In altra parte dei Piccoli maestri, un centinaio di pagine dopo l’epifania della Tebaide resistenziale, leggiamo un secondo cenno, che risulta fra le più enigmatiche sequenze del libro:

Benedetta la nostra Tebaide, dove cercavamo l’acqua negli anfratti della roccia, e il corvo ci portava la polenta e la margarina (ivi, p. 204)

Se osserviamo attentamente il quadro o il podcast degli Uffizi, il mistero è presto chiar ...[continua]

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