Lettera del febbraio 2000
Di nuovo un giorno cupo. La neve ha iniziato a sciogliersi, cambiando di colore e aggiungendo del grigio alla giornata. Sono appena ritornata dall’orfanotrofio e, come sempre, dopo tali visite mi sento strana. Cerco di definire i miei sentimenti e le ragioni di questa inquietudine, lottando al contempo con il desiderio di indirizzare i miei pensieri su qualcosa di più bello, su qualcosa che fa meno male. È curiosa la differenza tra le emozioni che provo quando mi trovo dentro l’orfanotrofio e quelle che mi accompagnano all’uscita. Con l’aprirsi della porta, ecco i bambini che mi accolgono con gioia, trattenendosi dal corrermi incontro, ma rimanendo comunque abbastanza vicini da poter essere toccati, se mi venisse voglia di farlo, così da guadagnarmi il loro sguardo pieno di gratitudine. In quei momenti mi sento come se proprio io potessi cancellare il loro passato e le sofferenze che hanno attraversato, ma anche il loro futuro incerto, e li guardo nel presente, in quell’attimo di gioia per l’incontro e per il bel momento creatosi. Non appena la porta dell’orfanotrofio si chiude, però, dentro di me, nella mia mente, ritornano ad apparire le immagini delle loro disgrazie; vedo di nuovo le colonne di bambini tremanti che arrivarono all’orfanotrofio, portando con sé soltanto le loro nude vite, senza neanche una fotografia che ricordasse loro coloro che non ci sono più; non un giocattolo che custodisse il calore dell’infanzia, almeno nei loro pensieri. Rivedo i loro sguardi pieni di dolore, ma anche di coraggio; di disperazione, ma anche di speranza; piccole mani che accettano con gratitudine la prima tazza di latte caldo, il terrore negli occhi per gli incubi notturni o per quelle immagini che riportano nella loro memoria l’inferno attraversato. Una preoccupazione mi attanaglia: la paura che, per i nostri propri traumi, non troviamo le forze per aiutare adeguatamente questi bambini. Più il tempo passa e più li circondiamo con il silenzio sul passato, non so se per difendere loro oppure noi stessi. I traumi fanno male; i traumi dei bambini più degli altri. Incontrarsi con le loro storie è sempre una nuova sofferenza; è impossibile non vivere il loro dolore come proprio. Forse è anche questa una delle ragioni del nostro silenzio. Forse anche per questo replichiamo gli errori del passato, negandoci il bisogno di parlare dell’orrore che abbiamo attraversato, di urlare dal dolore quando fa male, di piangere quando la tristezza diventa più forte delle nostre difese, di dire chi è il colpevole del male che abbiamo vissuto e che ora brucia tanto. Anziché fare questo, noi rimaniamo in silenzio. Quello che fa più male è il silenzio di fronte a questi bambini che, rimasti orfani, sono stati costretti a cercare l’amore, indispensabile per la sopravvivenza, altrove. Non raramente nelle mie emozioni riconosco il senso della vergogna. Vergogna per l’impotenza, per il non riuscire a gridare: “Parlate!”. E tuttavia, di nuovo, sento una resistenza dentro di me. Parlare per dire che cosa?
Nel territorio del nostro cantone ci sono oltre ottocento bambini orfani di ambedue i genitori; la maggior parte è arrivata dopo i crimini commessi contro le popolazioni di Srebrenica e Podrinje. Chi dirà loro la verità su quello che hanno vissuto; chi spiegherà loro la ragione per cui migliaia di persone sono state uccise in un solo giorno? Nei loro libri, per volontà della Comunità internazionale, non c’è né Srebrenica né Ahmic; non c’è Sarajevo, non ci sono i lager e non c’è Karadzic: e allora chi dirà loro la verità? Senza la verità sul passato, il futuro dei bambini bosniaci feriti rimarrà incerto. Se, grazie alla verità, sapremo offrire loro la possibilità di sanare le loro ferite; di capire, senza dimenticare; se la giustizia riuscirà a raggiungere i carnefici, questi bambini avranno un domani migliore. In caso contrario, se il loro futuro sarà la vendetta, non saremo forse anche noi i colpevoli?
Irfanka Pasagic

Lettera alle associazioni impegnate nelle adozioni a distanza, gennaio 2023
Cari amici,
ci siamo lasciati alle spalle un anno difficile. Per quanto non ci siamo troppo lamentati, è stato un inferno sopportare tutto quello che abbiamo dovuto affrontare -a causa della guerra in Ucraina, è diventato più difficile aiutare le famiglie: non solo per questo senso di impotenza di fronte al più forte, che siamo oggi costretti a rivivere, ma anche per la crescita esponenziale dei prezzi del cibo e delle utenze... Oltre a tutto questo, lavorando praticamente ventiquattr’ore ore al giorno, alla fine io non ho resistito. I miei problemi di salute mi invitavano a rallentare. Quando il mio stato di salute me lo permetteva, ero sempre in Amica e quando non mi era possibile lavoravo da casa, utilizzando i giorni di ferie mai usati in trent’anni, in contatto costante con Nihad, per il quale nutro una grande ammirazione per come è riuscito a districarsi anche senza di me.
Quello di cui siamo certi è che desideriamo che Amica continui il suo viaggio insieme a voi. Come già l’anno scorso avevo scritto a tutti voi, la mia intenzione era di concludere quest’anno il mio lavoro in Amica, anche se le starò sempre accanto. È arrivato il momento che i giovani prendano in mano le attività e che continuino sulla strada che da anni stiamo percorrendo insieme a voi. Parlo molto con i giovani che hanno fatto parte delle nostre attività. Loro riconoscono che Amica è una delle poche associazioni dove, grazie a voi, si fa tutto con sentimento, con emozione, mettendo in secondo piano tutto il resto. Per andare avanti, dobbiamo ingaggiare questo tipo di persone. Spero che riusciremo a trovarle...
Abbiamo fatto cose bellissime per i bambini e le loro famiglie anche nei momenti di grande difficoltà. Questo loro lo ricordano. Poco tempo fa sono venute a trovarci Elvira e Cristina: dovevate vedere la gioia e le lacrime dei ragazzi dell’orfanotrofio, ormai cresciuti, quando le hanno incontrate.
Spero che continuerete con il progetto di adozione a distanza. Spero anche che un giorno troveremo il tempo di raccogliere i nomi di tutti i ragazzi che si sono laureati; ragazzi che, senza il vostro aiuto, non sarebbero riusciti a completare neanche le scuole elementari o medie; e anche il numero di quelli che avevano abbandonato gli studi e che, dopo il vostro intervento, sono diventate persone di successo.
Purtroppo, a 28 anni dalla fine della guerra, la Bosnia-Erzegovina continua a essere il paese più povero d’Europa. La situazione politica è incerta. I giovani se ne vanno, e non solo a causa della povertà, ma per quest’orizzonte precario. Di fronte all’aggressione della Russia contro l’Ucrai­na, alla minaccia che quel regime rappresenta per tutto il pianeta; messi di nuovo di fronte al fatto che il più forte può distruggere e uccidere senza essere punito, partono alla ricerca di un posto più sicuro.
È triste guardarsi intorno e accorgersi che siamo ogni giorno di meno.
Con affetto,
Irfanka